In evidenza

Donna in carriera e maltrattamenti in famiglia

Suprema Corte di Cassazione VI Sezione Penale Sentenza n. 49997/2017

Donna in carriera e maltrattamenti in famiglia
Suprema Corte di Cassazione VI Sezione Penale
Sentenza n. 49997/2017

La VI sezione penale della Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 49997/2017 che di seguito si riporta, ha esaminato un caso relativo al reato di cui all’art. 572 c.p. in cui ha confermato la condanna emessa nei confronti di un uomo accusato di aver maltrattato la propria moglie per impedire a quest’ultima di svolgere l’attività lavorativa.

Articolo 572 Codice Penale
Maltrattamenti contro familiari o conviventi

Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da due a sei anni.
[La pena è aumentata se il fatto è commesso in danno di minore degli anni quattordici.].
Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a nove anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a ventiquattro anni.

maltrattamenti in famiglia

Testo della sentenza n. 49997/2017

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 6 – 31 ottobre 2017, n. 49997 Presidente Conti – Relatore Calvanese
Ritenuto in fatto e considerato in diritto
1. Con la sentenza, indicata in epigrafe, la Corte di appello di Venezia ha parzialmente riformato la sentenza di condanna emessa nei confronti di B.A. per i reati di cui agli artt. 572 e 612 cod. pen., dichiarando per il secondo reato non doversi procedere perché estinto per difetto di querela e rideterminando la pena per il restante reato, nonché confermando le statuizioni civili. All’imputato era stato contestato di aver maltrattato la moglie, rendendole la vita impossibile, con ripetute percosse, minacce di morte e condotte di intimidazione psicologica e vessazione, atteggiamenti di umiliazione e svilimento, quali volerle impedire di svolgere attività lavorativa. 2. Ricorre per cassazione l’imputato, chiedendo l’annullamento della suddetta sentenza per violazione di legge, in quanto il quadro probatorio sarebbe basato soltanto sulle dichiarazioni della persona offesa, prive di riscontri esterni ed estremamente ondivaghe e generiche, quanto all’oggetto delle condotte illecite; difetterebbe inoltre l’abitualità dei comportamenti costituenti l’elemento oggettivo del reato, in quanto in 11 anni di convivenza sarebbero stati indicati dalla persona offesa solo pochissimi episodi, soltanto litigi e diverbi tra coniugi slegati tra loro, e sarebbero state pretermesse le deposizioni a favore dell’imputato, che definivano i coniugi una coppia normale, dando credito invece a testi che avevano riferito quanto appreso dalla stessa persona offesa, nonché si sarebbe dato adito a supposizioni prive di fondamento, là dove l’unica programmazione rinvenibile era quella della persona offesa di voler anteporre il lavoro alla famiglia; la Corte di appello avrebbe sussunto una errata concezione della famiglia tutelata dalla norma penale, avulsa dalla realtà (avendo la persona offesa scelto di vivere da single, senza legami, dedicandosi al lavoro, senza alcun obbligo nei confronti degli altri componenti del nucleo familiare e nei confronti del marito invalido); difetterebbe altresì l’elemento soggettivo, in assenza della prova di un programma criminoso animato da volontà unitaria di vessare la moglie (così enunciati i motivi nei limiti di cui all’art. 173, disp. att. cod. proc. pen.). 3. Il ricorso è da ritenersi inammissibile in ogni sua articolazione. Il ricorrente – a fronte di un duplice conforme specifico apprezzamento in fatto dei due Giudici del merito, sorretto da motivazione non apparente ed immune dai vizi che rilevano ai sensi dell’art. 606 cod. proc. pen. – si è limitato a proporre deduzioni difensive che si risolvono nella mera reiterazione di questioni già dedotte e risolte in sede di appello e nella sollecitazione ad una diversa valutazione del quadro probatorio, del tutto preclusa in questa sede di legittimità. Le censure si rivelano infatti aspecifiche, nella misura in cui non si correlano al tessuto argomentativo della sentenza impugnata, non consentite, là dove prospettano questioni di mero fatto, e comunque manifestamente infondate, per la evidente erroneità degli argomenti proposti. 3.1. Quanto alla prima e alla seconda censura è sufficiente osservare quanto segue. La Corte di appello ha puntualmente e correttamente proceduto alla verifica della attendibilità intrinseca ed estrinseca delle dichiarazioni rese dalla persona offesa e la pretesa del ricorrente che il riscontro delle stesse debba essere dotato di autonoma forza probatoria per tutti i singoli episodi non ha fondamento alcuno (altrimenti le dichiarazioni della persona offesa non avrebbero alcun rilievo, in quanto la prova si fonderebbe comunque su tali elementi esterni). È principio oramai consolidato che le regole dettate dall’art. 192, comma 3, cod. proc. pen. non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell’Arte, Rv. 253214). Le stesse Sezioni Unite hanno altresì precisato come, nel caso in cui la persona offesa si sia costituita parte civile, possa essere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi. La Corte di appello ha ben evidenziato per ogni episodio i riscontri esterni, ripercorrendo analiticamente tutte le dichiarazioni della persona offesa ed evidenziando le condotte abituali addebitate al ricorrente (ovvero aggressioni che fino al 2010 riguardavano gli oggetti e non la sua persona, per poi degenerare
nell’epoca successiva in minacce anche di morte, in percosse, in reazioni d’ira del ricorrente, in ritorsioni, nella violenza sugli oggetti, in pugni, in tirate di capelli, in occasione di continue discussioni che vedano il ricorrente adirarsi in particolare per gli impegni lavorativi della moglie, che lo stesso viveva problematicamente quanto alle modalità con cui la donna svolgeva il suo lavoro, con impegni non conciliabili, a suo avviso, con i rapporti familiari, tanto da stilare su una lavagna i giorni in cui avrebbero potuto pranzare assieme, con conseguente sue reazioni in caso in cui venissero disattesi gli accordi). La sentenza impugnata ha poi sottolineato come la donna fosse stata costretta a rifugiarsi da parenti e vicini per sottrarsi al ricorrente, tanto poi da prendere in affitto un appartamento temendo di essere aggredita nel sonno. La Corte di appello, nel ricostruire lo snodarsi degli eventi, ha evidenziato la risalenza nel tempo degli episodi di maltrattamenti (a partire dal 2011 con più atti di violenza e costanti minacce di morte alla persona offesa), e ha proceduto poi a rispondere dettagliatamente a tutti i rilievi difensivi, compresa la questione della attendibilità dei testi indicati dalla difesa, là dove gli stessi avevano tratteggiato una coppia serena o smentito le dichiarazioni della persona offesa. La Corte di appello ha in particolare dato logica e motivata spiegazione del perché le loro deposizioni non avevano rilievo. Ha poi fornito risposta sulle testimonianze de relato, rilevando come le eccezioni difensive fossero generiche e assertive. La stessa Corte ha ragionevolmente evidenziato sul punto come le condotte maltrattanti fossero avvenute tra le mura domestiche, quindi in assenza di diretti testimoni, e come chi le subisca tenti di conservare il rapporto familiare cercando di gestire la situazione, anche per paura di comprometterlo con denunce o temendo ritorsioni, confidandosi piuttosto con vicini o parenti dai quale ricevere aiuto in situazioni di emergenza. Sulla base di quanto in fatto ricostruito dalla sentenza impugnata, devono ritenersi all’evidenza infondate le critiche del ricorrente in ordine alla mancanza degli elementi tipici della fattispecie penale contestata, proponendo piuttosto le censure una rivisitazione del quadro probatorio, non consentita in questa sede. 3.2. Ad identiche conclusioni deve pervenirsi per il terzo motivo, in cui si prospetta una visione della vita familiare che dovrebbe giustificare i comportamenti posti in essere dal ricorrente. Nel reato di maltrattamenti di cui all’art. 572 cod. pen. l’oggetto giuridico non è costituito solo dall’interesse dello Stato alla salvaguardia della famiglia da comportamenti vessatori e violenti, ma anche dalla difesa dell’incolumità fisica e psichica delle persone indicate nella norma, interessate al rispetto della loro personalità nello svolgimento di un rapporto fondato su vincoli familiari (tra tante, Sez. 6, n. 37019 del 27/05/2003, Caruso, Rv. 226794). Anche su tale punto la risposta della Corte di appello ad analoga questione versata dal ricorrente nell’appello appare quindi corretta. 3.3. La stessa Corte territoriale ha infine correttamente affrontato anche il tema dell’elemento soggettivo, ponendo in evidenza gli elementi dimostrativi del dolo generico. Nel reato abituale, il dolo non richiede infatti – a differenza che nel reato continuato – la sussistenza di uno specifico programma criminoso, verso il quale la serie di condotte criminose, sin dalla loro rappresentazione iniziale, siano finalizzate; è invece sufficiente la consapevolezza dell’autore del reato di persistere in un’attività delittuosa, già posta in essere in precedenza, idonea a ledere l’interesse tutelato dalla norma incriminatrice (tra tante, Sez. 6, n. 15146 del 19/03/2014, D’A, Rv. 259677). 4. Alla declaratoria di inammissibilità segue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed al versamento a favore della cassa delle ammende della somma a titolo di sanzione pecuniaria, che, in ragione delle questioni dedotte, si stima equo quantificare nella misura di Euro 3.000.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000 in favore della cassa delle ammende.

Leggi un altro articolo oppure cerca un altro argomento

Se hai trovato questa pagina interessante, condividila!

About Avv. Giuseppe Tripodi (1645 Articles)
Ideatore e fondatore di questo blog, iscritto all'Ordine degli Avvocati di Palmi e all'Ilustre Colegio de Abogados de Madrid; Sono appassionato di diritto e di fotografia e il mio motto è ... " il talento non è mai stato d'ostacolo al successo... "
Loading Disqus Comments ...

Scrivi un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*


Protected by WP Anti Spam
Invia un articolo