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Cassazione, peculato e telefonate personali

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Sentenze Cassazione 2013

Cassazione, Peculato e telefonate personali
Corte di Cassazione penale – Sentenza 19054/13 del 02/05/2013

Una sentenza molto interessante quella che si riporta di seguito che riguarda il reato di peculato per aver utilizzato illegittimamente per fini personali una utenza telefonica assegnata per ragioni d’ufficio.

Articolo 314 c.p. 

Peculato
Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria, è punito con la reclusione da tre a dieci anni.
Si applica la pena della reclusione da sei mesi a tre anni quando il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l’uso momentaneo, è stata immediatamente restituita (1).
(1) Articolo così sostituito dalla L. 26 aprile 1990, n. 86.

 

…omissis…
1. La questione per la quale il ricorso è stato rimesso alle Sezioni Unite è “se l’utilizzo per fini personali di utenza telefonica assegnata per ragioni di ufficio integri o meno l’appropriazione richiesta per la configurazione del delitto di peculato ex art. 314 c.p., comma 1, ovvero una condotta distrattiva o fraudolenta rispettivamente inquadrabile nel delitto di abuso di ufficio o in quello di truffa aggravata a danno dello Stato”.

2. L’approccio e le soluzioni ad essa dati da parte della giurisprudenza sono variati nel tempo.

2.1. Un primo e più remoto orientamento ha ritenuto che la condotta in questione integri il reato di peculato d’uso ex art. 314 c.p., comma 2.

Essa, infatti, non realizzerebbe un’appropriazione degli impulsi elettronici (gli “scatti”), ma un’interversione momentanea del possesso (seguita da restituzione immediata) dell’apparecchio (Sez. 6, n. 3009 del 28/01/1996, Catalucci, Rv. 204786; Sez. 6, n. 7364 del 24/06/1997, Guida, Rv. 209746; Sez. 6, n. 353 del 07/11/2000, dep. 2001, Veronesi), per la quale non sarebbe necessaria la fuoriuscita della cosa dalla sfera di disponibilità e controllo del proprietario, essendo sufficiente che l’agente si comporti nei confronti della cosa medesima, sia pure in modo oggettivamente e soggettivamente provvisorio, uti dominus, realizzando finalità estranee agli interessi del proprietario (Sez. 6, n. 788 del 14/02/2000, Mari, Rv. 217342).

Il percorso giustificativo di tale approdo ermeneutico muove dal rilievo generale (v. Sez. 6, n. 7364 del 1997, Guida, cit.) che, se il pubblico agente possiede in nome e per conto della pubblica amministrazione gli arredi e le attrezzature dell’ufficio nella loro materiale disponibilità proprio in ragione delle sue mansioni, non par dubbio che un’aversione dal loro uso conforme alla destinazione data dalla pubblica amministrazione per il perseguimento del pubblico interesse, con correlativo volgimento a estranei fini di personale vantaggio in un tempo dato e in modi apprezzabili, comporta un’inammissibile interversione del possesso e quindi un’appropriazione. La reversibilità dell’interversione, alias la possibilità di restituire il bene impropriamente utilizzato alla normale destinazione d’uso, e quindi la durata dell’interversione predetta, sono in sè irrilevanti perchè l’uso “momentaneo”, purchè apprezzabile, della cosa e la sua restituzione “immediata”, cioè omisso medio, delimitano appunto e caratterizzano la nuova figura di reato del peculato d’uso rispetto alla fattispecie più grave, e ben più gravemente sanzionata, disciplinata dal comma primo del medesimo art. 314 c.p., nella formula introdotta con la L. 26 aprile 1990, n. 86, art. 1. Nell’ipotesi in esame, dunque, il reato si realizza non già in relazione alla fruizione di un servizio non dovuto, insuscettibile, per la sua immaterialità, di essere inquadrato nella fattispecie astratta, bensì in relazione all’interversione del possesso correlata all’uso deviato, imprescindibile per fruire di quel servizio, dell’apparecchio telefonico affidato alla disponibilità materiale dell’agente. In altri termini, a configurare il reato nel caso in questione è l’esercizio di un possesso a fini propri e, quindi, in nome proprio, che, caratterizzato da un animus rem sibi habendi diverso da quello dovuto, denunzia l’appropriazione di un bene pubblico, destinata a breve durata perchè connotata appunto dal fine di “fare uso momentaneo della cosa” (affidata all’agente in ragione del suo ufficio o servizio), ma pur sempre di rilevanza penale.

2.2. Secondo il più recente, e prevalente, orientamento giurisprudenziale, la condotta in esame integra, invece, gli estremi del peculato comune. Si osserva in proposito che l’uso del telefono si connoterebbe non nella fruizione dell’apparecchio telefonico in quanto tale, ma nell’utilizzazione dell’utenza telefonica, e l’oggetto della condotta appropriativa sarebbe rappresentato (non già dall’apparecchio nella sua fisicità materiale, bensì) dall’energia occorrente per le conversazioni, la quale, essendo dotata di valore economico, ben può costituire l’oggetto materiale del delitto di peculato, in virtù della sua equiparazione ope legis alla cosa mobile. Così individuata la “cosa mobile altrui”, vi sarebbe da parte dell’intraneus una vera e definitiva appropriazione degli impulsi elettronici occorrenti per la trasmissione della voce e non restituibili dopo l’uso (di tal che l’eventuale rimborso delle somme corrispondenti all’importo delle telefonate può valere solo come ristoro del danno cagionato). In sostanza, il pubblico agente, attraverso l’uso indebito dell’apparecchio telefonico, si approprierebbe delle energie, entrate a far parte della sfera di disponibilità della p.a., occorrenti per le conversazioni (Sez. 6, n. 10671 del 15/01/2003, Santone, Rv. 223780; Sez. 6, n. 7772 del 15/01/2003, Russo, Rv. 224270; Sez. 6, n. 7347 del 14/01/2003, Di Niro, Rv. 223528; Sez. 6, n. 3883 del 14/11/2001, dep. 2002, Chirico, Rv. 221510; Sez. 6, n. 9277 del 06/02/2001, Menotti, Rv. 218435; Sez. 6, n. 3879 del 23/10/2000, Di Maggio, Rv. 217710).

Si precisa peraltro che in tanto è configurabile il peculato ordinario, in quanto possa riconoscersi un apprezzabile valore economico agli impulsi utilizzati per ogni singola telefonata, ovvero anche per l’insieme di più telefonate, quando queste siano così ravvicinate nel tempo da poter essere considerate come un’unica condotta (Sez. 6, n. 25273 del 09/05/2006, Montana, Rv. 234838; v.

anche, sul punto, Sez. 6, n. 256 del 20/12/2010, dep. 2011, Di Maria, Rv. 249201). Sul piano della applicazione concreta possono segnalarsi casi di chiamate a linee telefoniche a contenuto erotico dall’importo assai elevato (Sez. 6, n. 21335 del 26/02/2007, Maggiore e altro, Rv.

236627; Sez. 6, n. 2963 del 04/10/2004, dep. 2005, Aiello, Rv.

231032), ovvero a Paesi esteri per scopi ludici (Sez. 6, n. 21165 del 29/04/2009, G.A.), o comunque personali (Sez. 6, n. 2525 del 04/11/2009, dep. 2010).

Il rigore di questo orientamento giurisprudenziale viene mitigato anche con il rilievo che nel concreto assetto dell’organizzazione pubblica è possibile riscontrare, talora, una sfera di utilizzo della linea telefonica dell’ufficio per l’effettuazione di chiamate personali che non può considerarsi “esulante del tutto dai fini istituzionali” e nella quale, quindi, non si realizza l’evento appropriativo (Sez. 6, n. 9277 del 2001, Menotti, cit.). Si tratta di quelle situazioni in cui il pubblico dipendente, sollecitato da impellenti esigenze di comunicazione privata (durante l’espletamento del servizio), finirebbe – ove non potesse farvi rapidamente fronte tramite l’utenza dell’ufficio – per creare addirittura maggior disagio all’amministrazione sul piano della continuità e/o della qualità del servizio: in questi casi, verificandosi una convergenza fra il rispetto di importanti esigenze personali e il più proficuo perseguimento dei fini pubblici, è la stessa amministrazione ad avere interesse a consentire al dipendente l’uso della linea dell’ufficio per fini privati.

Un preciso e significativo riscontro formale di tale realtà è stato rinvenuto nel decreto del 31 marzo 1994 del Ministro per la Funzione pubblica (G.U., n. 149 del 28 giugno 1994), che, nel definire il codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, ha specificamente previsto che “in casi eccezionali”, dei quali va informato il dirigente dell’ufficio, il dipendente possa effettuare chiamate personali dalle linee telefoniche dell’ufficio (v. la prima parte dell’art. 10, comma 5, del D.M. citato): statuizione nella quale, fra l’altro, all’informativa al dirigente dell’ufficio viene attribuita natura di mero adempimento formale, che – al di là delle possibili conseguenze disciplinari della sua violazione – non condiziona l’autonoma e sostanziale “rilevanza derogatoria” del “caso eccezionale”.

Numerose sono le pronunce che hanno fatto applicazione di tali criteri di “temperamento” (Sez. 6, n. 5010 del 18/01/2012, Borgia, Rv. 251786; Sez. 6, n. 41709 del 19/10/2010, Ermini, Rv. 248798; Sez. 6, n. 24709 del 24/05/2007, Cavaliere; Sez. 6, n. 25273 del 2006, Montana, cit.; Sez. 6, n. 10719 del 31/01/2003, Oriente, Rv. 224864;

Sez. 6, n. 7772 del 2003, Russo, cit.; Sez. 6, n. 7347 del 2003, Di Niro, cit.; Sez. 6, n. 9277 del 2001, Menotti, cit.; Sez. 6, n. 3879 del 2000, Di Maggio, cit.).

2.3. L’orientamento da ultimo illustrato trova seguito anche in relazione all’affine questione del computer in dotazione all’ufficio del pubblico funzionario, utilizzato per navigare in internet su siti non istituzionali (Sez. 6, n. 20326 del 15/04/2008, D’Alfonso). In tal caso non si manca peraltro di sottolineare la necessità di verificare il tipo di convenzione che lega l’ente al gestore del servizio di internet, e cioè se l’ente paghi una somma forfettaria al mese (c.d. tariffa flat), per cui è economicamente indifferente il numero e la durata delle connessioni ad internet eseguita dall’ufficio (e non vi è danno economico anche a fronte di connessioni illegittime), o se, di contro, l’ente paghi in funzione della durata delle singole connessioni, caso in cui la condotta illegittima del dipendente provocherebbe un immediato danno patrimoniale all’ente (Sez. 6, n. 41709 del 2010, Ermini, cit.).

Distinzione analoga potrebbe evidentemente farsi anche per le tariffe telefoniche. Invero, se con la tariffa “a consumo” ogni scatto in più, effettivamente, non fa altro che aumentare il danno patrimoniale della p.a., dato che ogni telefonata per scopi privati determina un indebito accrescimento di quanto dovuto al gestore telefonico, al contrario con la tariffa c.d. “forfettaria” o “tutto- incluso”, grazie alla quale l’utente corrisponde al gestore telefonico un canone mensile fisso, indipendentemente dalle telefonate e dagli scatti realmente effettuati, non vi sarebbe alcuna forma di deminutio patrimonii, dato che – indipendentemente dalla realizzazione di una o più telefonate a scopi privati – la p.a.

pagherebbe al gestore telefonico sempre lo stesso importo predeterminato, a prescindere quindi dal traffico telefonico realizzato.

2.4. Talora l’uso indebito del telefono è stato ricondotto alla fattispecie dell’abuso d’ufficio (v. Sez. 6, n. 20094 del 04/05/2011, Miscia, Rv. 250071, relativa alla condotta di un ispettore della Polizia di Stato che utilizzava l’apparecchio telefax in dotazione dell’ufficio, per procurare un ingiusto vantaggio patrimoniale al coniuge), anche se in genere questa possibilità viene esclusa, in ragione della impossibilità di configurare, in tale comportamento, una “violazione di norme di legge o di regolamento”, quale requisito essenziale per l’integrazione del delitto punito dall’art. 323 c.p., quale risultante della nuova formulazione della fattispecie introdotta dalla L. 16 luglio 1997, n. 234.

Un ulteriore ostacolo alla riconducibilità della condotta in discorso alla fattispecie dell’abuso d’ufficio potrebbe anche ravvisarsi, in determinate situazioni, nella previsione dello svolgimento della condotta stessa “nell’esercizio delle funzioni o del servizio”.

Nell’affine materia dell’utilizzo per scopi privati della navigazione in internet attraverso il computer in dotazione all’ufficio, si è talora fatto ricorso allo schema del delitto di abuso d’ufficio nell’ipotesi in cui il contratto di connessione ad internet stipulato dall’ente preveda una tariffa flat, cioè a costo forfettario (Sez. 6, n. 31688 del 09/04/2008, Cannalire, Rv. 240692; Sez. 6, n. 381 del 2000, Genchi, cit.).

2.5. Per completare la rassegna di giurisprudenza, bisogna anche dar conto di un orientamento, sporadicamente emerso nella giurisprudenza di merito (Trib. Trento, 29 marzo 2000, Zanlucchi; Trib. Sanremo, 19 ottobre 1995, X), che ritiene che l’uso privato del telefono d’ufficio sia sempre penalmente irrilevante, non potendosi equiparare il semplice “uso” alla “appropriazione”.

Si osserva, a supporto della tesi, che l’uso del telefono da luogo soltanto ad un addebito a carico della pubblica amministrazione delle somme corrispondenti all’entità delle utilizzazioni di volta in volta effettuate, con la conseguenza che parrebbe inopportuno parlare di “appropriazione”. L’oggetto materiale della condotta, infatti, è rappresentato nella specie dal telefono come strumento di utilizzazione dell’utenza telefonica d’ufficio, e, siccome tale apparecchio rimane sempre nella disponibilità della pubblica amministrazione di appartenenza, la condotta di indebita utilizzazione da parte del pubblico funzionario dell’utenza telefonica intestata all’amministrazione per l’effettuazione di conversazioni personali non può integrare nè gli estremi del peculato comune, nè quelli del peculato d’uso.

In altri termini, viene negata la stessa configurabilità di una condotta di appropriazione, stante il mancato perfezionamento “negativo” della stessa, consistente nell’esclusione totale del proprietario dal rapporto con la cosa.

3. La disamina del panorama dottrinale mostra analoga varietà di vedute, con una sensibile divaricazione di indirizzi interpretativi, connotati, talora, da sostanziali analogie con il ragionamento sotteso al discorso giurisprudenziale, e, in altre occasioni, da una vera e propria originalità di impostazioni sul piano dogmatico.

3.1. Alcuni Autori ritengono sussumibile la fattispecie in esame nel paradigma dell’art. 314 c.p., comma 1, aderendo sostanzialmente alla tesi accolta dal più rigoroso orientamento giurisprudenziale, secondo cui l’appropriazione non riguarda l’apparecchio in sè e per sè, ma le energie che danno luogo al colloquio telefonico e che, pertanto, non possono essere mai oggetto di restituzione se non sotto il riflesso del risarcimento del danno provocato alla pubblica amministrazione.

Secondo tale impostazione, al pubblico agente non interessa lo strumento telefonico, ma il servizio che esso rende, che si identifica nella telefonata, e il danno cagionato alla p.a. è costituito dal consumo degli “scatti”, cioè delle energie necessarie per la effettuazione della conversazione.

All’interno dell’orientamento in discorso, e focalizzando maggiormente l’attenzione sui profili economici della fattispecie, si è proposta l’opportunità di una distinzione di carattere preliminare, a seconda che l’amministrazione interessata abbia o meno un piano telefonico a forfait, in modo tale che il numero delle singole telefonate non incida sull’ammontare di spesa.

Nel caso in cui ogni telefonata abbia un singolo costo, sembra infatti ragionevole ritenere che il pubblico agente che impiega indebitamente il telefono d’ufficio debba rispondere di peculato comune, essendosi in sostanza appropriato delle risorse economiche della pubblica amministrazione (di cui disponeva per ragioni d’ufficio) impegnate per il pagamento delle telefonate.

In caso, invece, di contratto telefonico a forfait, l’impiego del telefono d’ufficio per ragioni personali potrà configurare peculato comune, se il pubblico agente ne faccia uso in modo prolungato (impedendo ad es. l’uso ad altri o occupando le linee telefoniche d’ufficio), ovvero peculato d’uso, se l’uso sia momentaneo.

In entrambe le ipotesi considerate, esulerebbero peraltro dalla punibilità le situazioni connotate da episodicità o sporadicità, per difetto del requisito implicito del danno al patrimonio e al buon funzionamento della p.a., ovvero per l’esercizio di un diritto (arg.

ex art. 51 c.p.), espressamente conferito ai pubblici dipendenti dall’art. 10, comma 5, del codice di comportamento approvato con il D.M. 31 marzo 1994.

Nel commentare criticamente l’orientamento giurisprudenziale che non inquadra nel peculato, ma nel reato di abuso d’ufficio, la connessione abusiva ad internet da parte del pubblico ufficiale, altra opinione dottrinale si colloca sostanzialmente nella medesima prospettiva ermeneutica sopra delineata, rilevando che l’autore della condotta incriminata non farebbe solo un uso momentaneo del computer e della linea telefonica (rectius del modem), ma si approprierebbe delle energie – impulsi elettronici – relative alle connessioni ad internet. Tali energie sarebbero oggetto di un’appropriazione vera e propria da parte dell’agente, con correlativa definitiva perdita per l’amministrazione, non essendone possibile la restituzione.

Muovendo dall’ampiezza del fenomeno dell’utilizzo delle nuove tecnologie sui luoghi di lavoro, pubblici e privati, un’altra posizione dottrinale ritiene che il fatto di impegnare una linea telefonica non per comunicazioni conformi al servizio, ma per frequentare chat line o per sbrigare la propria corrispondenza, può costituire, per il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, un’ipotesi di peculato ordinario non solo sotto il profilo dell’appropriazione degli impulsi elettronici veicolati dall’apparecchio telefonico ed entrati a far parte della sfera di disponibilità della p.a., ma anche sotto quello della sottrazione di risorse lavorative altrimenti impiegabili per il lavoro dovuto.

La qualità ordinaria del peculato si evidenzierebbe così anche per la non restituibilità delle risorse lavorative distratte e reindirizzate verso un impegno extralavorativo: a poco rileverebbe, in questa ottica, che il dipendente utilizzi un sistema non comportante di fatto un aggravio di spesa per il datore di lavoro, poichè egli, oltre a procurarsi un vantaggio lucrativo non spettantegli, certamente sottrae tempo ed energie alla sua attività per tutta la durata della connessione, impegnando la linea dalla sua postazione per scopi estranei al lavoro.

Analoga soluzione interpretativa sarebbe, sia pur parzialmente, proponibile anche nel settore privato, dove tali comportamenti potrebbero ritenersi sussumibili nell’ambito dello schema descrittivo delineato dall’art. 646 c.p., e art. 61 c.p., n. 11: l’utilizzo inappropriato del modem, della linea telefonica, della postazione telematica nel suo complesso, durante l’orario di lavoro, costituirebbe infatti una perdita irreversibile, non tanto degli strumenti in questione, che verranno restituiti giocoforza al termine dell’attività, quanto delle risorse ed energie lavorative che altrimenti sarebbero state impiegate più proficuamente dal dipendente per il disbrigo delle mansioni che gli erano state affidate.

3.2. Parte della dottrina ha sottoposto invece a critica stringente la soluzione interpretativa che riconduce alla fattispecie del peculato comune il comportamento del pubblico dipendente che indebitamente utilizzi il telefono dell’ufficio per comunicazioni personali.

Muovendo dal duplice rilievo che, ove il possesso dell’energia dipenda dal possesso del bene da cui essa promana, la configurabilità del peculato va valutata in rapporto non all’energia in quanto tale, bensì alla cosa che la produce, e che il pubblico funzionario, per poter disporre dell’utenza telefonica, deve avere il possesso o la disponibilità dell’apparecchio telefonico, si perviene alla conclusione che l’utilizzo a scopi personali dello stesso, che viene così distratto dalla originaria destinazione, è riconducibile propriamente alla figura del peculato d’uso, nel quale il fatto lesivo è costituito proprio dall’utilizzo non conforme alle finalità istituzionali e volto al conseguimento di un vantaggio personale.

Non varrebbe in contrario l’obiezione che il concetto di restituzione non si attaglierebbe ai casi in cui l’uso del bene avvenga senza la sua fuoriuscita dalla sfera di controllo del legittimo titolare.

Posto infatti che la specifica ratio dell’introduzione della nuova fattispecie del peculato d’uso è quella di evitare un’impropria utilizzazione dei beni della pubblica amministrazione, il concetto di appropriazione momentanea che in esso viene in rilievo appare omologo a quello della distrazione, nella quale non rileva che il bene sia o meno sottratto alla sfera di disponibilità e controllo del legittimo proprietario, ma solo che venga distolto dalla originaria destinazione pubblicistica. La restituzione del bene, in tale ipotesi, consisterebbe nella cessazione dell’uso arbitrario, contrario all’interesse pubblico, e nella “riconduzione” del bene alla sua normale destinazione.

Allo scopo di evitare che la finalità attenuatrice della pena assegnata alla previsione di cui all’art. 314 c.p., comma 2, si converta in una eccessiva dilatazione della responsabilità, si è peraltro rimarcata la necessità che l’uso momentaneo si risolva in un’apprezzabile offesa degli interessi del proprietario del bene, non potendosi dunque ritenere configurabile il reato nelle ipotesi di uso economicamente e funzionalmente non significativo (anche al di fuori dei casi d’urgenza, espressamente previsti dal D.M. 28 novembre 2000, art. 10, comma 3).

Di converso, non basterebbe un uso non momentaneo, ovvero non seguito dall’immediata restituzione della cosa, a far rifluire automaticamente il fatto nell’ambito applicativo dell’art. 314 c.p., comma 1, apparendo comunque assai problematica in tal caso la rawisabilità del dolo della condotta appropriativa, e residuando piuttosto, nella presenza dei previsti requisiti, la possibilità di una incriminazione della condotta a titolo di abuso d’ufficio ex art. 323 c.p..

3.3. In una prospettiva affine ma non sovrapponibile si muove altro orientamento dottrinale, che, assimilando l’uso indebito del telefono a quello dell’autovettura ed escludendo che l’oggetto della condotta, ricadente palesemente in entrambi i casi sul bene fisico impiegato, possa identificarsi con l’energia in sè e per sè considerata che ne esprime il funzionamento, rileva che non sussiste alcun valido motivo per escludere a priori che l’uso possa costituire, nello schema del novellato art. 314 c.p., una forma di manifestazione della condotta appropriativa, richiedendosi solo, a tal uopo, che la condotta di abuso possessorio si estrinsechi attraverso i due momenti realizzativi dell’espropriazione (ossia, l’estromissione totale – ma non necessariamente definitiva – del legittimo proprietario dal rapporto con la cosa) e dell’impropriazione (ossia, il disconoscimento dell’altrui signoria attraverso atti dominicali incompatibili con l’interesse del vero avente diritto). In presenza di siffatti presupposti, opererebbe come criterio di distinzione “interna” tra il peculato comune e il peculato d’uso l’elemento della definitività dell’esclusione del dominus dal rapporto con la cosa:

l’uso protratto per un tempo limitato e seguito dall’immediata restituzione sarà riconducibile al capoverso dell’art. 314 c.p., mentre quello prolungato o comunque non seguito dalla restituzione della res rientrerà nella più grave fattispecie del peculato comune.

In tale prospettiva ermeneutica, la linea di demarcazione “esterna”, rispetto alla contigua fattispecie di abuso d’ufficio, è segnata dalla completa estromissione del proprietario dal rapporto con il bene medesimo, solo in mancanza della quale, restando inconfigurabile il delitto di peculato, potrà trovare applicazione, nella ricorrenza di tutti gli altri presupposti, la fattispecie di cui all’art. 323 c.p..

3.4. Alla tesi della configurabilità del peculato d’uso, altra posizione dottrinale perviene attraverso un percorso differente, che muove dal rilievo, contrario all’opinione dominante, che oggetto di tale figura di reato non sono solo le cose infungibili ma anche quelle fungibili, come il denaro. La previsione della restituzione della “stessa” cosa, recata dalla norma codicistica, andrebbe infatti letta in relazione alla natura della cosa stessa, nel senso che, in caso di beni infungibili, ne esigerebbe la piena identità fisica, mentre, in caso di beni fungibili, quale il danaro, richiederebbe solo che si tratti di cose della stessa specie e quantità.

Partendo da tale presupposto, si rileva che, quando il pubblico dipendente effettua chiamate personali dal telefono dell’ufficio, non si appropria, definitivamente, delle energie che consentono la trasmissione della voce, e neppure, momentaneamente, del mezzo fisico del telefono, ma si appropria invece, momentaneamente, dell’utenza telefonica pubblica e, più precisamente, delle somme di denaro corrispondenti al costo delle telefonate indebitamente effettuate, che distrae nell’immediato in suo favore, provvedendo poi a rifonderle.

3.5. Una diversa ricostruzione viene suggerita, infine, da quella dottrina, secondo la quale l’uso indebito del telefono pubblico non ha ad oggetto l’impulso elettrico che consente la trasmissione della voce e non realizza alcuna appropriazione di “energia”, ma investe propriamente un “diritto di utenza”, rientrante nel novero dei beni immateriali e, come tale, insuscettibile di apprensione. Con la consegna e la conseguente concessione della facoltà di utilizzo di un apparato telefonico, si trasferisce in sostanza a un soggetto il diritto di usufruire del servizio telefonico. L’oggetto della condotta resta, quindi, il solo uso dell’utenza telefonica e non l’energia che ne permette il funzionamento.

Nella prospettiva in discorso, chi si avvale in modo improprio del telefono in dotazione dell’ufficio, limitandosi solo a disporre abusivamente di un diritto che gli è stato concesso, oltre a non realizzare alcuna appropriazione di energia, non si appropria neppure, agli effetti dell’art. 314 c.p., comma 2, del mezzo fisico del telefono, in quanto non ne sottrae la disponibilità alla pubblica amministrazione, e ciò anche se l’uso indebito avvenga con assiduita e in via continuativa.

La condotta in esame resterebbe poi fuori anche dall’ambito applicativo del diverso reato di abuso d’ufficio, non potendovisi allo stato ravvisare il necessario presupposto della violazione di una norma di legge o di regolamento di carattere precettivo, considerato in particolare che il codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni (che vietando, all’art. 10, l’uso del cellulare e degli altri beni strumentali per fini privati, viene senz’altro violato dal pubblico agente nell’uso improprio del telefono), non è stato emanato nelle forme previste per i regolamenti governativi dalla L. 23 agosto 1988, n. 400, art. 17, e dunque non può rientrare fra le “fonti normative” previste dall’art. 323 c.p. (come rilevato anche da Sez. 6, n. 45261 del 24/09/2001, NiCita, Rv. 220935).

Per poter attingere la soglia della sanzionabilità penale, l’uso indebito del telefono dovrebbe assumere modalità e intensità tali da sottrarlo effettivamente e stabilmente alla disponibilità della pubblica amministrazione. In tal caso, si realizzerebbe l’effetto appropriativo nella sua forma più grave delineata nell’art. 314, comma 1.

4. Per risolvere compiutamente la questione sottoposta alla Corte, è indispensabile tracciare, nei limiti di pertinenza, un, sia pur rapido, profilo di alcuni tratti salienti del delitto di peculato, nelle due forme previste dall’attuale testo dell’art. 314 c.p..

4.1. Nella sua originaria formulazione, la condotta di peculato si articolava in due forme, l’appropriazione e la distrazione. Con la riforma introdotta dalla legge 26 aprile 1990, n. 86, si è: a) formalmente soppressa l’ipotesi della distrazione a profitto proprio o di altri; b) abrogato il delitto (di cui all’art. 315 c.p.) di malversazione a danno di privati (rifluito nella modificata fattispecie di peculato); c) introdotto, al comma secondo dell’art. 314, l’ipotesi del peculato d’uso.

La introduzione del peculato d’uso come figura autonomamente disciplinata è stata in particolare spiegata con l’intento sia di superare le precedenti incertezze sulla rilevanza penale delle condotte ad essa riconducibili, sia di colmare possibili vuoti di tutela al riguardo.

La riforma del ’90, pur se ha tendenzialmente accentuato l’aspetto del disvalore in sè dell’abuso qualificato e interessato del possesso, rispetto alla protezione del patrimonio, non ha sostanzialmente inciso sul carattere plurioffensivo del reato, quale tradizionalmente riconosciuto in dottrina e in giurisprudenza, in relazione alla duplice tutela del buon andamento dell’attività della pubblica amministrazione (sotto i profili della legalità, efficienza, probità e imparzialità) e del patrimonio della stessa o di terzi (v., fra le tante, Sez., 6, n. 8009 del 10/06/1993, n. 8009, Ferolla, Rv. 194921): plurioffensività ritenuta peraltro, generalmente, alternativa, con la conseguenza, in particolare, che l’eventuale mancanza di danno patrimoniale non esclude la sussistenza del reato, in presenza della lesione dell’altro interesse, protetto dalla norma, del buon andamento della pubblica amministrazione (Sez. U, n. 38691 del 25/06/2009, Caruso, Rv. 244190; Sez. 6, n. 2963 del 04/10/2004, Aiello, Rv. 231032; Sez. 6, n. 4328 del 02/03/1999, Abate, Rv. 213660).

4.2. Il costante orientamento della giurisprudenza, in conformità al tenore letterale del dato normativo di cui all’art. 314 c.p., interpreta la nozione del previo rapporto del pubblico agente con la res in senso più ampio del possesso civilistico (Sez. 6, n. 396 del 06/06/1990, Di Salvo), ricomprendendovi, oltre alla detenzione materiale, anche la (mera) disponibilità giuridica della cosa (Sez. 6, n. 6753 del 04/06/1997, dep. 1998, Finocchi, Rv. 211008), intesa come concreta possibilità del soggetto agente di inserirsi, con un atto dispositivo – derivante dalla sfera di competenza o comunque da prassi e consuetudini invalse nell’ufficio, anche se in contrasto con norme giuridiche o atti amministrativi -nelle operazioni finalizzate alla concreta apprensione (v. al riguardo Sez. 6, n. 11633 del 22/01/2007, Guida, Rv. 236146).

Anche in dottrina si aderisce ad una nozione di possesso in senso lato, sganciata dalla visione civilistica di possesso ex art. 1140 c.c., ritenendosi che il possesso, e la disponibilità, sono poteri giuridici che attribuiscono all’agente pubblico la possibilità di operare sulla destinazione della cosa mobile, per distoglierla dal fine tutelato dal diritto ed avviarla indebitamente verso una finalità propria del soggetto attivo.

4.3. Oggetto materiale del delitto di peculato è il denaro o altra cosa mobile. L’espressione “cosa mobile” denota ogni entità oggettiva materiale, fungibile o infungibile, idonea ad essere trasportata da un luogo all’altro.

Secondo la più recente giurisprudenza (Sez. 2, n. 20647 dell’11/05/2010, Corniani, Rv, 247271) in tema di reati contro il patrimonio, per “cosa mobile” deve intendersi qualsiasi entità di cui sia possibile la fisica detenzione, sottrazione, impossessamento od appropriazione e che possa essere trasportata da un luogo ad un altro, compresa quella che, pur non mobile originariamente, sia resa tale mediante l’avulsione o l’enucleazione dal complesso immobiliare di cui faceva parte.

Alla “cosa”, inoltre, è parificata ex art. 624 c.p., comma 2, “l’energia elettrica e ogni altra energia che abbia un valore economico” Da tale ambito si ritengono però generalmente escluse le energie umane, o muscolari, inscindibili dalla persona e insuscettibili, come tali, di autentica appropriazione.

Il requisito del valore economico – presunto per l’energia elettrica, da dimostrarsi per le altre energie – definisce l’ambito di applicabilità della disposizione, in cui rientrano solo le energie che vengono captate dall’uomo, mediante l’apprestamento di mezzi idonei, in modo tale da essere impiegate a fini pratici, distribuite, scambiate, etc.: deve trattarsi, dunque, di una forza della natura misurabile in denaro, per cui deve esservi sia un soggetto che la controlla, sia un soggetto disposto normalmente a versare un corrispettivo per averla in godimento.

Si ritiene in dottrina che l’equiparazione dell’energia alla cosa mobile sussiste solo se l’energia possa venire posseduta separatamente dalla cosa da cui promana. Di conseguenza, tutte le volte che il possesso dell’energia dipenda e sia inseparabile dal possesso della cosa da cui promana (es., possesso di animali, macchinari), la configurabilità del reato deve essere giudicata in rapporto alla cosa, non in rapporto all’energia; con la conseguenza che, in tali ipotesi, si applicheranno, se del caso, i principi validi per il peculato d’uso.

Sia in dottrina che in giurisprudenza (Sez. 2, n. 20647 dell’11/05/2010, Comiani, Rv. 247270; Sez. 2, n. 36592 del 26/09/2007, Trementozzi, Rv. 237807) si esclude che i beni immateriali – sia personali (vita, onore, prestigio, etc.), che patrimoniali (opere dell’ingegno, invenzioni industriali, ditta, insegna, marchio, etc.) – possano costituire oggetto di peculato, perchè non sono cose.

Tradizionalmente si esclude anche che possa costituire oggetto di possesso e, quindi, di appropriazione, un diritto.

4.4. La condotta di “appropriazione” identifica il comportamento di chi fa propria una cosa altrui, mutandone il possesso, con il compimento di atti incompatibili con il relativo titolo e corrispondenti a quelli riferibili al proprietario. Essa si articola in due momenti: il primo, negativo (c.d. “espropriazione”), di indebita alterazione dell’originaria destinazione del bene; il secondo, positivo (c.d. “impropriazione”), di strumentalizzazione della res a vantaggio di soggetto diverso dal titolare del diritto preminente.

Con l’interversio possessionis, il soggetto inizia a trattare il denaro o la cosa mobile come fossero suoi, compiendo su di essi uno o più atti di disposizione – comportamenti materiali o atti negoziali – che, incompatibili con il titolo del possesso, rivelano una signoria che non gli compete e che egli indebitamente si attribuisce.

Nell’esercizio effettivo di una o più facoltà spettanti solo all’autentico dominus si realizza quella “conversione della cosa a profitto proprio o altrui” che, tradizionalmente indicata come ricompresa nel concetto stesso di appropriazione, non può non emergere anche là dove, come nell’art. 314 c.p., e diversamente da quanto avviene per il delitto di appropriazione indebita (dove, previsto come “ingiusto”, compare quale finalizzazione del dolo specifico), il profitto proprio o altrui non risulti testualmente menzionato dalla norma.

Secondo la giurisprudenza, la nozione di appropriazione nell’ambito del delitto di peculato – realizzantesi con l’inversione del titolo del possesso da parte del pubblico agente, che si comporta, oggettivamente e soggettivamente, uti dominus nei confronti della res posseduta in ragione dell’ufficio, che viene, correlativamente, estromessa in toto dal patrimonio dell’avente diritto – è rimasta invariata anche dopo l’entrata in vigore della L. n. 86 del 1990 (Sez. 6, n. 8009 del 10/06/1993, Ferolla, Rv. 194923).

L’espunzione della distrazione dal nuovo testo dell’art. 314 c.p., ha reso particolarmente delicato il problema dei rapporti tra le nozioni di “appropriazione” e “distrazione”.

In giurisprudenza si ritiene che l’eliminazione della parola “distrazione” dal testo dell’art. 314 c.p., operata dalla L. n. 86 del 1990, non ha determinato puramente e semplicemente il transito di tutte le condotte distrattive poste in essere dall’agente pubblico nell’area di rilevanza penale dell’abuso d’ufficio. Qualora, infatti, mediante la distrazione del denaro o della cosa mobile altrui, tali risorse vengano sottratte da una destinazione pubblica ed indirizzate al soddisfacimento di interessi privati, propri dello stesso agente o di terzi, viene comunque integrato il delitto di peculato. La condotta distrattiva, invece, può rilevare come abuso d’ufficio nei casi in cui la destinazione del bene, pur viziata per opera dell’agente, mantenga la propria natura pubblica e non vada a favorire interessi estranei alla p.a. (Sez. 6, n. 17619 del 19/03/2007, Porpora; Sez. 6, n. 40148 del 24/10/2002, Gennari).

E’ interessante notare che anche in relazione al delitto di appropriazione indebita di cui all’art. 646 c.p., che non ha mai incluso formalmente la condotta di distrazione, prevale l’opinione che ritiene tale condotta – intesa nel suo significato di “deviare la cosa dalla sua destinazione o nel divergerla dall’uso legittimo”- riconducibile sostanzialmente a quella appropriativa (Sez. U, n. 9863 del 28/02/1989, Vita, Rv. 181789; Sez. U, n. 1 del 28/02/1989, Cresti, Rv. 181792; Sez. 2, n. 5136 del 04/04/1997, Bussei, Rv.

208059; Sez. 2, n. 2829 del 19/11/1991, Griffa, Rv. 189314; Sez. 2, n. 5523 del 27/02/1991, B.N.L., Rv. 187512).

Discorso analogo, per il delitto di cui all’art. 646 c.p., si fa anche per l’uso indebito della cosa, ove esso si connoti per l’eccedenza dai limiti del titolo in virtù del quale l’agente deteneva in custodia la stessa, di modo che l’atto compiuto comporti un impossessamento, sia pur temporaneo, del bene (Sez. 2, n. 47665 del 27/11/2009, Cecchini, Rv. 245370; Sez. 2, n. 5136 del 04/04/1997, Bussei, Rv. 208059; Sez. 3, n. 3445 del 02/02/1995, Carnovale, Rv.

203402; Sez. 2, n. 2954 del 15/12/1971, dep. 1972, Rv. 120966).

La nozione di appropriazione, nello stesso ambito del delitto di cui all’art. 646 c.p. (il quale, com’è noto, ove aggravato ex art. 61 c.p., n. 9, si distingue dal peculato in ragione del titolo del possesso: Sez. 6, n. 34884 del 07/03/2007, Rv. 237693; Sez. 6, n. 377 del 08/11/1988, Rv. 180167), ha, dunque, finito per assumere, con il passare del tempo, un significato sempre più ampio, comprensivo sia dell’appropriazione in senso stretto (di cui le più tipiche forme di manifestazione sono l’alienazione, la consumazione e la ritenzione), sia della distrazione, sia dell’uso arbitrario dal quale derivi al proprietario la perdita del denaro o della cosa mobile.

4.5. Quanto in particolare al peculato d’uso, si osserva che tale figura replica strutturalmente lo schema del furto d’uso, mirando, da un lato, ad arginare arbitrarie dilatazioni interpretative del peculato comune e, dall’altro, a reprimere condotte che nel previgente sistema erano irrilevanti, con un temperamento del trattamento sanzionatorio in relazione al minor disvalore del fatto.

Secondo la giurisprudenza di legittimità e la dottrina prevalente, il peculato d’uso previsto dal comma secondo dell’art. 314, non costituisce un’attenuante del delitto di peculato, bensì una figura del tutto autonoma, per impianto strutturale, rispetto al reato di peculato di cui al comma 1. I due commi prevedono, pertanto, due diverse ipotesi di reato (Sez. 6, n. 6094 del 27/01/1994, Liberatore, Rv. 199187; Sez. 6,, n. 8156 del 29/04/1992, De Bortoli, Rv. 191407).

In effetti, la previsione contenuta nel secondo comma, connotata dalla finalità dell’agente quale elemento specializzante, delinea una condotta intrinsecamente diversa da quella del primo comma, in quanto l’uso momentaneo, seguito dall’immediata restituzione della cosa, non integra un’autentica appropriazione, realizzandosi, quest’ultima, solo con la definitiva soppressione della destinazione originaria della cosa.

Per la giurisprudenza nettamente prevalente (contrastata da parte della dottrina), l’ipotesi lieve di peculato prevista dal capoverso dell’art. 314 cod. pen. non è configurabile rispetto al denaro (Sez. 6, n. 27528 del 21/05/2009, Severi, Rv. 244531; Sez. 6, n. 3411 del 16/01/2003, Ferrari, Rv. 224060; Sez. 6, n. 8286 del 03/05/1996 Galdi, Rv. 205928) – bene fungibile per eccellenza, menzionato in modo alternativo solo nell’art. 314, comma 1 -, nè, analogamente, in relazione a cose di quantità, per le quali non sarebbe possibile la restituzione della eadem res, ma solo del tantundem, irrilevante ai fini dell’integrazione del reato de quo (Sez. 6, n. 8009 del 10/06/1993, Ferolla, Rv. 194925; Sez. 6, n. 12218 del 17/10/1991, Bulgari, Rv. 189004; in senso contrario, isolatamente, con riferimento a cose fungibili e, quindi, anche al denaro, Sez. 6, n. 4195 del 14/03/1995, Greco, Rv. 201264).

La nozione di restituzione viene intesa in modo assai rigoroso dalla giurisprudenza (Sez. 6, n. 4195 del 14/03/1995, Greco, Rv. 201264), per la quale tra la cessazione dell’uso momentaneo e la restituzione deve intercedere il tempo minimo necessario e sufficiente, in concreto, per la restituzione medesima; al riguardo non è possibile fissare un rigido criterio cronologico, ma è necessario che le due attività (ossia, l’uso e la restituzione) si pongano in un continuum dell’operato dell’agente: occorre, cioè, che egli, dopo l’uso, non compia altre attività che non siano quelle finalizzate alla restituzione.

Resta fermo poi che l’intenzione di restituire la cosa immediatamente dopo l’uso momentaneo deve esser presente sin dall’inizio: non si tratta, infatti, di un peculato proprio, che successivamente si trasforma, per effetto dell’uso momentaneo e della restituzione della cosa, in peculato d’uso, bensì, sin dall’origine, di un fatto caratterizzato dal contenuto intenzionale del reo.

Si ritiene comunque che non integri alcun reato l’utilizzo a scopo personale di beni appartenenti alla p.a., quando la condotta non leda la funzionalità dell’ufficio nè causi un danno patrimoniale apprezzabile (Sez. 6, n. 5010 del 18/01/2012, Borgia, Rv. 251786).

5. Traendo ora le fila dalla esposizione che precede, occorre passare anzitutto a esaminare le tesi che hanno, sotto vari profili, ritenuto di ravvisare nell’uso indebito del telefono d’ufficio da parte del pubblico agente, una ipotesi di peculato ordinario ai sensi dell’art. 314 c.p., comma 1.

5.1. Partendo, al riguardo, dall’indirizzo, oggi dominante in giurisprudenza, che sostiene che con il detto uso si realizza la appropriazione, necessariamente definitiva (non potendosi configurare una restituzione successiva al consumo), delle energie costituite dalle onde elettromagnetiche che permettono la trasmissione della voce, si osserva che esso non è condivisibile.

In primo luogo, infatti, le energie in questione non possono tecnicamente essere oggetto di appropriazione, in quanto non sono oggetto di previo possesso o disponibilità da parte dell’utente del telefono. E questo perchè non preesistono all’uso dell’apparecchio, ma sono prodotte proprio dalla sua attivazione. Oltre a ciò, sul piano intrinseco, esse si caratterizzano per il fatto di “propagarsi”, e non si può, quindi, procedere al loro concreto immagazzinamento, funzionale a un impiego pratico misurabile in termini economici, sì da rispondere all’esplicito requisito di cui all’ultima parte dell’art. 624 c.p., comma 2.

E’ noto, del resto, che il costo delle singole chiamate, anche nei contratti a consumo, non è il riflesso diretto delle onde elettromagnetiche attivate, bensì il frutto di una complessiva valutazione del budget del sistema di comunicazione gestito, in base alla quale si determina, secondo i parametri del numero e della durata, il prezzo, economicamente congruo, della fruizione del servizio.

Se poi si vuoi vedere nel riferimento alle onde elettromagnetiche un implicito richiamo anche all’energia elettrica (rilevante ex se ai sensi del comma secondo dell’art. 624 c.p.) necessaria ad attivarle, l’esclusione della sua supposta definitiva appropriazione discende dalla considerazione che tale energia viene nella specie in rilievo quale entità di consumo inscindibilmente connessa al concreto funzionamento dell’apparecchio e non può costituire, quindi (come puntualizzato da accorta dottrina: v. sopra par. 4.3.), diretto, specifico e autonomo oggetto della condotta dell’utente.

5.2. Il rilievo sopra svolto sul costo delle chiamate sollecita l’immediata presa in esame della prospettazione che sposta l’oggetto della ravvisabile appropriazione definitiva, rilevante ai sensi dell’art. 314 c.p., comma 1, dalle energie consumate alle somme al cui esborso l’indebito uso del telefono d’ufficio espone la pubblica amministrazione.

Tale ricostruzione – che sarebbe comunque applicabile alle sole situazioni regolate da tariffe a consumo e non anche a quelle c.d.

“tutto incluso” – non è accettabile, non corrispondendo alla realtà del fenomeno in discorso, in quanto posticipa artificialmente il vantaggio, che il pubblico agente ritrae immediatamente dalla sua indebita condotta, al momento successivo, ed effetto di questa, in cui la p.a. ne sostiene l’onere economico. Le somme di cui si discute non sono certamente oggetto di previo possesso in capo all’infedele funzionario, nè il loro esborso è ricollegabile a un suo potere giuridico di disposizione, ma è solo la oggettiva conseguenza di una condotta fattuale che si inserisce nel vincolo esistente fra la p.a.

e il gestore di telefonia.

Parimenti inaccettabile è l’opinione che ravvisa l’oggetto dell’appropriazione definitiva nelle stesse energie lavorative che il pubblico agente, con la condotta in discorso, dirotterebbe verso fini difformi da quelli istituzionali. Qui è evidente che si è del tutto fuori dallo schema del rendere “proprio” un qualcosa che solo si possiede, verificandosi al contrario l’inadempimento dell’obbligo di mettere a servizio altrui un qualcosa che è proprio.

6. Occorre ora passare ad esaminare gli ipotizzabili inquadramenti dell’indebito uso del telefono d’ufficio in fattispecie diverse da quella del peculato ordinario.

6.1. Al riguardo, bisogna anzitutto farsi carico della prospettazione, avanzata nell’ordinanza di rimessione, della riconducibilità del fenomeno alla ipotesi della truffa aggravata.

Per la verità, nell’ordinanza si fa riferimento alla eventuale esistenza di una inveritiera dichiarazione, che arricchisce in qualche modo la situazione base di cui ci si sta occupando.

In relazione a questa, la tesi della riconducibilità alla truffa non appare sostenibile. Nella truffa, invero, l’ingiusto profitto è frutto della induzione in errore, laddove, quando il pubblico agente adopera per fini privati il telefono assegnatogli per le esigenze d’ufficio, la realizzazione, da parte sua, di un indebito vantaggio è immediata e non è in sè dipendente dalla induzione in errore di alcuno. Il conseguente danno per l’amministrazione (sussistente peraltro solo nei casi regolati da contratto a consumo) deriva direttamente dal vincolo che la lega al gestore e l’eventuale silenzio del funzionario infedele interviene in relazione a una condotta ormai consumata e che egli non era in radice autorizzato a porre in essere.

6.2. C’è poi da esaminare la questione della riconducibilità dell’uso indebito del telefono d’ufficio alla fattispecie del peculato d’uso, di cui all’art. 314 c.p., comma 2.

A tale quesito deve darsi, ad avviso della Corte, risposta positiva (con conseguente ritorno a quello che era stato l’iniziale orientamento della giurisprudenza).

Si è sopra visto (par. 4.4.) che la nozione di appropriazione, nello stesso ambito del delitto di cui all’art. 646 c.p., ha assunto, nel tempo, un significato sempre più ampio, comprensivo anche dell’uso indebito della cosa, ove esso si connoti per l’eccedenza dai limiti del titolo in virtù del quale l’agente la detiene.

Naturalmente, in quell’ambito, nel quale non è prevista l’ipotesi dell’uso momentaneo, si richiede l’effetto della perdita della cosa stessa da parte dell’avente diritto. Questa conseguenza è chiaramente incompatibile con un uso strutturalmente e programmaticamente (come sottolineato anche da Corte cost., n. 2 del 1991) momentaneo, quale quello previsto nel capoverso dell’art. 314 c.p.; il quale, quindi, non potrà mai integrare un’appropriazione, nel senso specifico di cui al primo comma della norma codicistica, consistendo ed esaurendo la sua portata nel fatto di distogliere temporaneamente la cosa dalla sua originaria destinazione, per piegarla a scopi personali.

Si tratta, in altre parole, di un abuso del possesso, che non si traduce, e non può per definizione tradursi, nella sua stabile inversione in dominio. La ratio dell’introduzione della fattispecie in esame è stata in effetti proprio quella di impedire, con una repressione di tipo penale, il grave fenomeno dell’utilizzo improprio dei beni della pubblica amministrazione. Ma se così è, e se non si vuole vanificare tale ragione storica e logica della fattispecie, è giocoforza ritenere che, per la sua integrazione, l’elemento qualificante e sufficiente è dato dalla violazione del titolo del possesso, che l’agente compie distraendo il bene dalla sua destinazione pubblicistica e piegandolo verso fini personali. In questo modo egli si rapporta con esso, in pendenza dell’utilizzo indebito, in veste di dominus (per quanto provvisorio e funzionale), con contestuale disconoscimento dell’altrui maggior diritto. In tale schema ricostruttivo si palesa all’evidenza non essenziale, in quanto estraneo allo specifico scopo perseguito dal legislatore, l’elemento della “fisica” sottrazione della res alla sfera di disponibilità e controllo della pubblica amministrazione. E quando tale sottrazione manchi, la “restituzione” della cosa si risolverà logicamente nella cessazione del suo uso arbitrario, con la conseguente riconduzione della stessa alla sua destinazione normale (come già efficacemente rilevato da Sez. 6, n. 7364 del 24/06/1997, Guida, Rv. 209746).

Così correttamente puntualizzata la portata e la natura del peculato d’uso, è evidente che l’utilizzo per fini personali, da parte del pubblico agente, del telefono assegnatogli per le esigenze dell’ufficio, vi diviene pienamente sussumibile. Con tale condotta, infatti, il soggetto distoglie precisamente il bene fisico costituito dall’apparato telefonico, di cui è in possesso per ragioni d’ufficio, dalla sua destinazione pubblicistica, piegandolo a fini personali, per il tempo del relativo uso, per restituirlo, alla cessazione di questo, alla destinazione originaria. E rimane irrilevante, per quanto detto, la circostanza che il bene stesso non fuoriesca materialmente dalla sfera di disponibilità della p.a..

Ciò chiarito, non può non rilevarsi, giusta quanto già segnalato nell’analisi generale del peculato (ma la sottolineatura è qui particolarmente doverosa), che il raggiungimento della soglia della rilevanza penale presuppone comunque l’offensività del fatto, che, nel caso del peculato d’uso, si realizza con la produzione di un apprezzabile danno al patrimonio della p.a., o di terzi ovvero (ricordando la plurioffensività alternativa del delitto di peculato:

v. sopra par. 4.1.) con una concreta lesione della funzionalità dell’ufficio: eventualità quest’ultima che potrà, ad esempio, assumere autonomo determinante rilievo nelle situazioni regolate da contratto c.d. “tutto incluso”. L’uso del telefono d’ufficio per fini personali, economicamente e funzionalmente non significativo, deve considerarsi, quindi (anche al di fuori dei casi d’urgenza, espressamente previsti dal D.M. 28 novembre 2000, art. 10, comma 3, o di eventuali specifiche e legittime autorizzazioni), penalmente irrilevante.

Considerata, poi, la struttura del peculato d’uso (che implica l’immediata restituzione della cosa), la valutazione in discorso non può che essere riferita alle singole condotte poste in essere, salvo che le stesse, per l’unitario contesto spazio-temporale, non vadano di fatto a costituire una condotta inscindibile.

Il principio di diritto che si può enucleare da tutto il discorso che precede è il seguente:

“La condotta del pubblico agente che, utilizzando illegittimamente per fini personali il telefono assegnatogli per ragioni di ufficio, produce un apprezzabile danno al patrimonio della pubblica amministrazione o di terzi o una concreta lesione alla funzionalità dell’ufficio, è sussumibile nel delitto di peculato d’uso di cui all’art. 314 c.p., comma 2”.

6.3. Discende da quanto sopra che deve ritenersi assorbita la questione della possibilità, prospettata nell’ordinanza di rimessione, di ricondurre il fenomeno dell’uso indebito del telefono della p.a. alla fattispecie dell’abuso d’ufficio. Al di là, infatti, dei problemi concreti che la prospettazione de qua può porre (v.

sopra, paragrafi 2.4. e 3.5.), non c’è dubbio che tale figura, formalmente sussidiaria in relazione ai reati più gravi (in ragione della espressa clausola di riserva contenuta nell’incipit dell’art. 323 c.p.), è comunque da considerarsi, rispetto al peculato d’uso, punito con identica pena edittale, e contraddistinto dall’elemento specifico dell’appropriazione temporanea di una res, figura di carattere residuale e non concorrente, in quanto avente genericamente ad oggetto il conseguimento di un ingiusto vantaggio patrimoniale derivante dalla violazione di norme di legge o di regolamento posta in essere dal pubblico agente nello svolgimento delle funzioni o del servizio (v. in tal senso Sez. 6, n. 353 del 07/11/2000, dep. 2001, Veronesi, n.m.).

7. Esaminando ora, alla luce delle conclusioni come sopra assunte, il fatto come ascritto al V. nel capo A della rubrica, risulta evidente che lo stesso non può integrare il peculato ordinario di cui all’art. 314 c.p., comma 1, ma appare sussumibile nella fattispecie del peculato d’uso di cui al secondo comma dello stesso articolo. Tale ultimo reato, peraltro, considerata l’epoca della sua commissione (protrattasi non oltre il dicembre 2003), è ormai estinto per il decorso del termine massimo di prescrizione (pur tenendo conto delle sospensioni intervenute).

Alla declaratoria dell’estinzione può peraltro procedersi solo previa verifica dell’insussistenza dei presupposti per pronunciare un proscioglimento più favorevole ai sensi dell’art. 129 c.p.p., comma 2.

Tali presupposti non sono nella specie ravvisabili.

Non può dubitarsi, alla stregua dei dati di fatto accertati in sede di merito e non contestati, che le telefonate di cui è accusato l’imputato, di contenuto strettamente personale e indirizzate spesso a utenze site fuori del Paese di partenza, hanno determinato, singolarmente prese (secondo il corretto inquadramento e vaglio operato dalla Corte di appello), un danno comunque apprezzabile alla p.a. (in quanto ammontante ad alcune decine di Euro), anche se di speciale tenuità (onde è stata riconosciuta l’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 4).

Relativamente ai motivi con cui la difesa ha variamente invocato la sussistenza, nella specie, della causa di giustificazione del consenso dell’avente diritto, quanto meno a livello putativo, ovvero dell’errore sul fatto, in conseguenza di condotte, omissive e positive, della p.a., che avevano dato luogo a una diffusa prassi di tolleranza del comportamento addebitato al V., deve rilevarsi quanto segue.

Anzitutto, com’è noto, quando i beni oggetto di peculato sono della p.a., nessun soggetto può esprimere un valido consenso esimente.

Circa, poi, la normativa amministrativa regolante, all’epoca dei fatti, l’uso dei cellulari da parte dei pubblici funzionari residenti all’estero, e le risultanze, orali e documentali, relative all’allegata prassi anzidetta, i giudici di merito ne hanno effettuato una disamina analitica, al cui esito, da un lato, hanno affermato con certezza che la disciplina dell’epoca consentiva l’uso dei cellulari per scopi privati solo in caso di contratto dual billing (contemplante, cioè, l’utilizzo di un codice atto a distinguere e ad addebitare separatamente le chiamate non istituzionali), vietandolo conseguentemente in mancanza dell’adozione di detto sistema, e, dall’altro, hanno sottolineato che i sopravvenuti chiarimenti “interpretativi”, in quanto per nulla rispondenti all’univoco contenuto della citata disciplina, rimasta formalmente invariata, e intervenuti comunque successivamente all’epoca dei fatti, non possono costituire base utile per dare positivo sostegno e rilievo alla indicata prassi di tolleranza, che, quindi, essendosi formata in maniera non unanime e in contrasto con la normativa ufficiale vigente, deve considerarsi certamente inidonea a scriminare soggettivamente la condotta di chi, come l’imputato (tenuto, per il suo ruolo, ad avere o prendere precisa cognizione circa la legittimità dei propri comportamenti e ad astenersene in caso di incertezze al riguardo), ha utilizzato sistematicamente i cellulari di servizio per chiamate dal contenuto strettamente privato, omettendo per anni di segnalarle all’amministrazione e corrisponderne il costo.

La descritta motivazione appare conforme alla giurisprudenza di questa Corte (Sez. 6, n. 35813 del 21/06/2007, Bensi, Rv. 237767;

Sez. 3, n. 28397 del 16/04/2004, Giordano, Rv. 229060; Sez. 3, n. 22813 del 15/04/2004, Ferri, Rv. 229228; Sez. 6, n. 5117 del 19/12/2000, dep. 2001, Aliberti, Rv. 217862; Sez. 6, n. 6776 del 22/03/2000, Fanara, Rv. 216319) e scevra da vizi apprezzabili in questa sede: vizi la cui eventuale sussistenza sarebbe comunque irrilevante al fine di impedire la declaratoria della causa estintiva del reato, in quanto comporterebbe un annullamento con rinvio della sentenza impugnata, precluso dall’obbligo di immediata declaratoria della detta causa.

La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata senza rinvio nei confronti del V. in ordine al reato di peculato d’uso di cui all’art. 314 c.p., comma 2, così riqualificato il fatto di cui al capo A della rubrica, perchè estinto per prescrizione, con eliminazione della relativa pena di un anno di reclusione e della pena accessoria di cui all’art. 31 c.p..

8. Venendo ora al reato di falso, ascritto a entrambi gli imputati, va rilevato che lo stesso, come già ricordato in parte narrativa, è stato fatto oggetto di impugnazione solo nel ricorso del S..

Il reato in questione, in quanto commesso (secondo la data riportata sul documento) in data 22 gennaio 2004, risulta estinto, per decorso del termine massimo di prescrizione (di sette anni e mezzo), maggiorato di 120 giorni (per le sospensioni dovute ai due rinvii, per impedimento del difensore, dall’11 novembre 2008 al 12 febbraio 2009 e dal 12 febbraio 2009 al 16 aprile 2009), in data 19 novembre 2011, successiva alla emissione della sentenza impugnata e alla proposizione dei ricorsi.

La declaratoria di tale estinzione, spettante al S., non può peraltro essere estesa anche al V. in forza della regola di estensione di cui all’art. 587 c.p.p., essendosi nei suoi confronti consolidato il giudicato di colpevolezza prima del verificarsi dell’effetto estintivo, venuto a maturazione in ragione del protrarsi del decorso del termine di prescrizione successivamente alla proposizione dei ricorsi (Sez. 2, n. 26708 del 20/05/2009, Borrelli, Rv. 244664; Sez. 6, n. 23251 del 18/03/2003, Cammardella, Rv. 226007; Sez. 1, n. 12369 del 23/10/2000, Russo, Rv. 217393).

Ciò chiarito, deve naturalmente anche qui procedersi alla previa verifica dell’insussistenza dei presupposti per pronunciare nei confronti del S. un proscioglimento più favorevole a sensi dell’art. 129 c.p.p., comma 2, (estensibile in ipotesi sicuramente, ove non basato su motivi personali, anche al V., in forza della ricordata regola di cui all’art. 587 c.p.p.). Tali presupposti non sono nella specie ravvisabili.

I motivi proposti in ordine al falso, infatti, vuoi quelli intesi a contestare la natura pubblica attestativa del documento redatto dal S. ovvero la effettiva falsità ideologica del passaggio relativo all’avvenuto rimborso da parte del V., vuoi quelli diretti a contestare la sussistenza di un dolo penalmente rilevante, sono basati, quando non su rilievi di merito, su presunti vizi motivazionali – autonomi o collegati a prospettate letture del diritto sostanziale alternative a quella offerta (in conformità alla dominante giurisprudenza) dai giudici di merito – che, se anche sussistenti, sarebbero comunque irrilevanti al fine di impedire la declaratoria della causa estintiva del reato, in quanto comporterebbero un annullamento con rinvio della sentenza impugnata, precluso dall’obbligo di immediata declaratoria della detta causa.

La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata senza rinvio nei confronti del S. in ordine al reato di falso (che resta invece fermo, con la irrogata pena di anni uno e mesi quattro di reclusione, per il V.), perchè estinto per prescrizione.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata dal V. in ordine al reato di peculato d’uso di cui all’art. 314 c.p., comma 2, così riqualificato il fatto di cui al capo A della rubrica, perchè estinto per prescrizione, ed elimina la relativa pena di un anno di reclusione e della pena accessoria di cui all’art. 31 c.p., ferma restando la pena di un anno e quattro mesi di reclusione per il reato di falso.

Annulla senza rinvio la stessa sentenza nei confronti del S. in ordine al reato di falso, perchè estinto per prescrizione.

Così deciso in Roma, il 20 dicembre 2012.

Depositato in Cancelleria il 2 maggio 2013

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Ideatore e fondatore di questo blog, iscritto all'Ordine degli Avvocati di Palmi e all'Ilustre Colegio de Abogados de Madrid; Sono appassionato di diritto e di fotografia e il mio motto è ... " il talento non è mai stato d'ostacolo al successo... "
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