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Sentenza – Proprietà privata, passaggio pedonale, servitù di fatto

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Sentenza – Proprietà privata, passaggio pedonale, servitù di fatto
Suprema Corte di Cassazione Sezione I
Sentenza 2 dicembre 2013, n. 26965

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE I

SENTENZA 2 DICEMBRE 2013, N. 26965

Svolgimento del processo

La Corte di appello di Trento, con sentenza dell’11 giugno 2007 ha confermato quella in data 31 maggio 2006 del Tribunale che aveva respinto le domande dei condomini L..M. ed P.E. , di condanna del comune di Dimaro alla rimozione o spostamento delle condotte fognaria ed idrica realizzate abusivamente nel sottosuolo dell’edificio “Condominio …”, ubicato nel territorio comunale, previa declaratoria di inesistenza della servitù, in quanto: a) era pacifica tra le parti l’insussistenza di detta servitù di cui peraltro non era neppure individuato il fondo dominante; b) neanche si era discusso di occupazione appropriativa del fondo o delle condotte nella decisione del Tribunale che ne aveva correttamente escluso la rimozione per l’avvenuta irreversibile trasformazione del terreno e la sua acquisizione alla mano pubblica, anche a seguito dei provvedimenti del Consiglio e della Giunta del comune che avevano approvato l’opera.
Per la cassazione della sentenza, il M. e la P. hanno proposto ricorso per 3 motivi; cui ha resistito il comune di Dimaro con controricorso, con il quale ha formulato altresì ricorso incidentale per 3 motivi.

Motivi della decisione

Il Collegio preliminarmente osserva che nessuna delle questioni prospettate a sostegno dei motivi del ricorso incidentale è corredato dai quesiti di diritto richiesti dall’art.366 bis cod.proc.civ. introdotto dal d.lgvo 40 del 2006 a far data dal 2 marzo 2006, e poi abrogato dall’art. 47, comma 1, lett. d), della l. 18 giugno 2009, n. 69,tuttavia successiva alla decisione impugnata: per il p quale l’illustrazione di ciascun motivo si deve concludere, a pena di inammissibilità, nei casi previsti dall’art. 360, comma 1, nn. 1, 2, 3 e 4, c.p.c., con la formulazione di un quesito di diritto, mentre, nell’ipotesi prevista dal n. 5 del medesimo comma, il motivo deve enunciare, in modo sintetico ma completo, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione sì assume omessa o contraddittoria; ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione.
Poiché invece la formulazione di un esplicito quesito di diritto o la chiara indicazione del fatto controverso sono del tutto assenti nell’illustrazione di ciascuna delle doglianze in cui si articola il ricorso incidentale (cfr. Cass. Sez. un. 7258 e 14682/2007),detta impugnazione deve essere dichiarata inammissibile.
Con il primo motivo del principale L..M. ed P.E. , deducendo violazione dell’art. 112 cod.proc.civ. censurano la sentenza impugnata per avere confermato il rigetto della loro domanda di negatoria servitutis per effetto del passaggio nell’ambito del sottosuolo condominiale sia della condotta fognaria, che di quella idrica comunale e della conseguente rimozione degli impianti, invocando la c.d. occupazione espropriativa che nessuna delle parti aveva prospettato; e perciò incorrendo in un palese vizio di ultrapetizione.
La doglianza è infondata.
I ricorrenti nel giudizio di primo grado hanno dedotto l’esercizio, senza alcun titolo da parte del comune, nel sottosuolo del loro condominio sia di una servitù di fatto corrispondente a quella di acquedotto di cui all’art. 1034 segg. cod. civ., che di una seconda servitù (sempre abusiva) corrispondente a quella di fognatura di cui all’art. 1043 cod. civ. ed hanno chiesto anzitutto che venisse accertata l’insussistenza del relativo diritto in capo alla suddetta amministrazione (art. 949 cod. civ.),priva di alcun titolo ad esercitarla; e quindi nel corso del giudizio la rimozione o comunque lo spostamento delle relative condutture. Per cui il Tribunale si è limitato a respingere entrambe le richieste ritenendole infondate a causa dell’avvenuta irreversibile trasformazione dei loro terreni ad opera dei menzionati manufatti la cui esistenza era del tutto pacifica tra le parti: perciò ravvisando (sia pure erroneamente) in tale situazione di fatto (presenza delle condotte nel sottosuolo) da entrambe prospettata una espropriazione illegittima, per l’asserita irreversibile trasformazione delle relative porzioni di sottosuolo attraversate (c.d. occupazione espropriativa) ad opera dell’amministrazione comunale che ne impediva la chiesta condanna di rimozione e/o di spostamento. Si è dunque trattato non già dell’accoglimento di una domanda non proposta dalle parti, ma della conseguenza giuridica collegata dai primi giudici all’avvenuta realizzazione – dedotta dagli stessi proprietari – delle condutture da parte del comune (che comunque ne aveva acquistato successivamente la proprietà); e confermata dalla Corte di appello anche per aver ritenuto che l’occupazione del suolo privato “era avvenuta sulla base di progetti approvati dal Consiglio comunale e dalla Giunta comunale”: e quindi in base ad una (asserita) dichiarazione di p.u. valida ed efficace.
Con il secondo motivo, i ricorrenti deducendo violazione della normativa relativa alle espropriazioni illegittime c.d. appropriative, censurano la sentenza impugnata per avere tratto la dichiarazione suddetta, necessaria per l’instaurazione di un procedimento ablativo, dall’approvazione dell’opera p. da parte del comune, e ritenuto che l’attraversamento di un suolo privato ad opera di una condotta idrica ovvero fognaria sia sufficiente a comportarne l’irreversibile trasformazione, idonea ad impedire la rimozione e/o lo spostamento del manufatto.
Questa censura è fondata.
La Corte di appello, pur avendo escluso la costituzione delle contestate servitù nel sottosuolo del condominio attraverso l’istituto della c.d. occupazione acquisitiva, riconoscendone l’inapplicabilità al suddetto diritto reale, ha tuttavia ritenuto che le condutture attraversando il fondo dei ricorrenti, ne abbiano comportato la radicale ed irreversibile trasformazione con conseguente acquisizione del bene alla mano pubblica: impedendone la restituzione e/o rimozione comunque preclusa dalla sussistenza di una procedura ablativa.
Ma così argomentando non ha considerato che la procedura ablativa, pur se fosse ravvisabile in imprecisati (e non individuati) provvedimenti del Consiglio o della Giunta comunale di approvazione di entrambe le opere pubbliche (acquedotto e rete fognaria), abbisognerebbe comunque di un titolo per consentire all’amministrazione espropriante di acquisire la disponibilità del fondo privato: individuato a partire dalla legge fondamentale 2359 del 1865 nel decreto di espropriazione ovvero di asservimento, oppure nel contratto di cessione volontaria dell’immobile (art. 12 legge 865/1971), o infine nel decreto di occupazione d’urgenza ex art. 20 legge 865/71 onde acquisirne la disponibilità temporanea. Laddove nel caso neppure il comune di Dimaro ha mai prospettato di avere conseguito taluno di detti titoli, ovvero di quelli indicati dall’art. 1031 cod. civ. per giustificare la propria ingerenza all’interno di immobili privati : perciò da considerare abusiva.
Ne è sostenibile che il relativo diritto derivi dalla irreversibile trasformazione del fondo conseguente alla realizzazione della duplice conduttura che in atto lo attraversa: non comportando tale intervento alcuna acquisizione dell’immobile alla mano pubblica proprio per l’inconfigurabilità nel caso della c.d. occupazione espropriativa che la sentenza ha da un lato riconosciuto;ma poi contraddittoriamente applicato, non avvedendosi che detto istituto costituisce proprio un modo di acquisto della proprietà privata al demanio o al patrimonio indisponibile dell’ente pubblico in conseguenza della sua irreversibile trasformazione nell’opera pubblica preventivata dalla dichiarazione di p.u..
La consolidata giurisprudenza di legittimità resa più volte a sezioni unite,ma ignorata del tutto dalla sentenza impugnata, cui il Collegio intende dare continuità ha enunciato il principio che l’apprensione (o il mantenimento) “sine titulo” di un suolo di proprietà privata, occorrente per la realizzazione di un passaggio pedonale, per l’impianto di una condotta, o di altro manufatto comportante una servitù di fatto, sia che la realizzazione dell’opera non sia stata autorizzata alla competente autorità, sia che non sia assistita da declaratoria di pubblica utilità, sia che, pur in presenza di detta autorizzazione e di detta declaratoria, non vi sia stato un valido asservimento per via di provvedimento amministrativo, non determina la costituzione di una servitù, secondo lo schema della cosiddetta occupazione acquisitiva, i cui estremi non sono ravvisabili con riguardo ai diritti reali “in re aliena”. Ma configura un illecito a carattere permanente, il quale perdura fino a quando non venga (anche per disposizione del giudice ordinario) rimosso il manufatto, o cessi il suo esercizio, o sia costituita regolare servitù (Cass. sez. un. 8065/1990; 4619 e 3963/1989; da ultimo: 19294/2006; 14049 e 17570/2008; 18039/2012).
Ed il risultato non muta per l’avvenuta realizzazione delle condutture per il transito delle acque nonché dei liquami ovvero di altri manufatti necessari a consentirlo perché per il verificarsi dell’occupazione espropriativa non è sufficiente l’esecuzione di un qualsiasi lavoro edilizio, ma è necessaria – giova ripeterlo – la irreversibile trasformazione del fondo appreso nell’opera pubblica programmata dalla dichiarazione di p.u.: perciò richiedendosi che detta trasformazione della realtà materiale preesistente determini l’impossibilità giuridica di continuare ad utilizzare il bene in conformità della sua precedente destinazione, dando così luogo ad una sostanziale vanificazione del diritto di cui il bene costituiva l’oggetto. Laddove detta situazione non è ipotizzabile nella costituzione della servitù, dato che la stessa, quale che sia, postula la coesistenza su di un, medesimo oggetto, di un diritto di proprietà limitata in capo ad un soggetto e di un diritto reale che limita il primo in capo ad un soggetto diverso (cfr. art. 825 cod. civ.): non certo l’assorbimento del primo diritto nel secondo o la riduzione ad unità di essi con la creazione di un regime unitario di appartenenza tale da far qualificare come “nuovo” sul piano giuridico e fisico, il bene che ne costituisce oggetto (Cass. fin da sez. un. 1484/1983; nonché 9521/1996; 6952/1997).
Ed allora risultano errate anche le conseguenze cui è pervenuta la Corte di appello, in quanto: a) il mero impiego sia pure per fini pubblici, del fondo condominiale materialmente appreso, non è sufficiente a trasformarlo in esercizio di poteri ablatori e la conseguente detenzione produce soltanto le conseguenze proprie dell’illecito comune di cui agli art. 2043 e 2058 cod. civ.; b) i proprietari hanno conservato e mantenuto il diritto dominicale sull’immobile, nonché in via primaria, la possibilità di esercizio delle azioni reipersecutorie a tutela della non perduta proprietà, e perfino dell’azione esecutiva di cui agli artt. 474 e 605 cod. proc. civ. anche per conseguire il ripristino dello status quo ante previa demolizione del manufatto abusivo (Cass. 18239/2005; 18436/2004; 15710/2001; 12841/1995; 1867/1991): salvo rimanendo l’accertamento, devoluto al giudice di rinvio, che nelle more del giudizio le condutture o taluna di esse siano state spostate dal comune in altra località.
Assorbito, pertanto, l’ultimo motivo del ricorso, il Collegio deve cassare la sentenza impugnata e rinviare alla medesima Corte di appello di Trento che in diversa composizione si atterrà ai principi esposti e provvederà alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte rigetta il primo motivo del ricorso principale, accoglie il secondo, ed assorbito il terzo, dichiara inammissibile il ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità alla Corte di appello di Trento, in diversa composizione.

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