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Ordinanza – Retribuzione, festività civili, Corte Costituzionale

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Ordinanza – Retribuzione, festività civili, Corte Costituzionale

Suprema Corte di Cassazione – Sezione Lavoro

Ordinanza interlocutoria 5 novembre 2013 – 20 gennaio 2014, n. 1040
Presidente Roselli – Relatore D’Antonio

In fatto

Con sentenza depositata il 16/12/2009 n. 4140/2009 la Corte d’appello di Roma, in riforma della sentenza del Tribunale di Viterbo, ha accolto le opposizioni proposte dal Ministero della giustizia avverso i decreti ingiuntivi emessi a favore di Cangiano Francesco ed altri, tutti dipendenti dello stesso Ministero, ritenendo infondata la pretesa di ottenere il compenso ex art. 5 della L. n. 260/1949, relativo a festività coincise con la domenica.
La Corte territoriale ha infatti rilevato che la gravata sentenza aveva accolto la domanda alla luce dell’art. 5, terzo comma, della legge n. 260/1949, come modificato dall’art. 1 della L. n. 90/1954 e che, tuttavia, era intervenuta la L. n. 266/2005 (legge finanziaria 2006) che, all’art. 1, comma 224, di interpretazione autentica, aveva elencato il citato art. 5 tra le disposizioni inapplicabili al pubblico impiego ai sensi dell’art. 69 del d.lgs. n. 165/2001, una volta stipulati i CCNL per il quadriennio 98/01.
Il giudice di merito ha quindi concluso che, a seguito di detto intervento legislativo, passato indenne al vaglio della Corte Costituzionale (cfr sent. n. 146/2008), l’inapplicabilità dell’art. 5 L. n. 260/1949 ai rapporti di lavoro pubblico – una volta stipulati i contratti collettivi del quadriennio 1994/1997 o, al più tardi, dal momento della sottoscrizione dei contratti collettivi del quadriennio 1998/2001 – comportava, inevitabilmente, il rigetto delle domande dei lavoratori, stante la natura interpretativa della norma o comunque il suo contenuto innovativo ma con efficacia retroattiva.
Ricorrono i lavoratori per la cassazione della sentenza. Resiste il Ministero con controricorso.

In diritto

Con il primo motivo i ricorrenti lamentano la violazione dell’art. 1, comma 224, L. 23 dicembre 2005 n. 266. Essi notano come la sentenza impugnata abbia rigettato le loro domande in applicazione del comma 224 ora cit., il quale per i pubblici impiegati ha negato il compenso per le festività civili nazionali ricadenti di domenica. Osservano però che la disposizione, per il contenuto letterale della sua seconda parte, ha efficacia retroattiva, ossia va applicata a fattispecie anteriori alla sua entrata in vigore, “salva l’esecuzione dei giudicati”, formatisi appunto fino alla data della stessa entrata in vigore. Aggiungono che questa efficacia retroattiva non è giustificata, sul piano costituzionale, da una finalità realmente interpretativa della disposizione, la quale attribuisce alla norma interpretata (l’art. 69, comma 1, secondo periodo, dlgs 30 marzo 2001 n. 165) non già uno dei significati possibili bensì un significato del tutto nuovo. Che poi – aggiungono ancora i ricorrenti – la Corte costituzionale con la sentenza n. 146 del 2008 abbia escluso ogni illegittima disparità di trattamento tra dipendenti pubblici e privati, è circostanza non influente sulla giustificazione costituzionale della detta retroattività.
Con il secondo motivo i ricorrenti sollevano questione di legittimità costituzionale del comma 224 cit. poiché la detta retroattività violerebbe il divieto di ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia, ossia influirebbe sulla definizione delle controversie giudiziarie in corso (artt. 117, comma 1, Cost. e 6 CEDU), lederebbe l’autonomia e indipendenza della magistratura (art. 104 Cost.) ed il principio di imparzialità della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.).
La violazione dell’art. 6 CEDU e quindi del Trattato UE di Lisbona induce i ricorrenti a chiedere in via subordinata di sottoporre alla Corte di Giustizia UE il quesito interpretativo ai sensi dell’art. 234 Trattato CEE.
Questo collegio ritiene non manifestamente infondata la questione di cui al secondo motivo di ricorso, avente ad oggetto l’art. 1, comma 224, L. n. 266 del 2005. Questione consistente nello stabilire se l’efficacia che il citato comma 224 debba esplicare sui processi pendenti – come quello attuale, iniziato con ricorsi per decreto ingiuntivo depositati tra il 20 ottobre ed il 28 novembre 2005 – violi il diritto dei lavoratori, parti private, all’equo processo, tutelato dall’art. 6 CEDU e, indirettamente dall’art. 117, primo comma, Cost..
Quanto alla rilevanza, essa risulta evidente dalla necessità di diretta applicazione della disposizione nella presente controversia.
Quanto alla non manifesta infondatezza, occorre premettere l’intero contenuto della disposizione: “Tra le disposizioni riconosciute inapplicabili dall’articolo 69, comma 1, secondo periodo, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, a seguito della stipulazione dei contratti collettivi del quadriennio 1994/1997 è ricompreso l’articolo 5, terzo comma, della legge 27 maggio 1949, n. 260, come sostituito dall’articolo 1 della legge 31 marzo 1954, n. 90, in materia di retribuzione nelle festività civili nazionali ricadenti di domenica. È fatta salva l’esecuzione dei giudicati formatisi alla data di entrata in vigore della presente legge”.
Il citato art. 69 recita a sua volta “Salvo che per le materie di cui all’articolo 2, comma 1, lettera c), della legge 23 ottobre 1992, n. 421, gli accordi sindacali recepiti in decreti del Presidente della Repubblica in base alla legge 29 marzo 1983, n. 93, e le norme generali e speciali del pubblico impiego, vigenti alla data del 13 gennaio 1994 e non abrogate, costituiscono, limitatamente agli istituti del rapporto di lavoro, la disciplina di cui all’articolo 2, comma 2. Tali disposizioni sono inapplicabili a seguito della stipulazione dei contratti collettivi del quadriennio 1994-1997, in relazione ai soggetti e alle materie dagli stessi contemplati. Tali disposizioni cessano in ogni caso di produrre effetti dal momento della sottoscrizione, per ciascun ambito di riferimento, dei contratti collettivi del quadriennio 1998-2001”.
L’espressa salvezza dell’esecuzione dei giudicati formatisi alla data di entrata in vigore della legge n. 266 del 2005, vale a dire la sua necessaria applicazione ai processi ancora pendenti, esclude ogni possibilità di negare l’efficacia retroattiva della norma, per tentare di adeguarla all’art. 6 CEDU, di cui poco avanti si dirà.
La cosiddetta interpretazione adeguatrice, che è necessario sempre tentare prima di sollevare una questione di legittimità costituzionale, trova il suo limite nel significato proprio delle parole della disposizione da interpretare, secondo la connessione di esse, nonché nella chiara intenzione del legislatore (art. 12, primo comma, preleggi). Del resto anche la giurisprudenza di questa Corte afferma l’efficacia retroattiva del comma 224 in questione (Cass. n. 6736 del 2010, n. 14048 del 2009, n. 4667 del 2008).
Ancora, non rileva sulla presente questione la sentenza della Corte costituzionale n. 146 del 2008, che negò il contrasto del comma 224 con il principio di eguaglianza, nella specie tra lavoratori dipendenti pubblici e privati.
Che poi la questione debba essere risolta sottoponendola alla Corte costituzionale risulta dalla giurisprudenza della stessa Corte.
A partire dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007 (da ultimo sentenze n. 236, n. 113 e n. 1 del 2011), tale giurisprudenza è costante nel ritenere che le norme della CEDU – nel significato ad esse attribuito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, specificamente istituita per darne interpretazione ed applicazione (art. 32, par. 1, della Convenzione) – integrano, quali norme interposte, il parametro costituzionale espresso dall’art. 117 Cost., comma 1, nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali.
La Corte costituzionale ha affermato che nel caso in cui si profili un contrasto tra una norma interna e una norma della CEDU (che deve essere applicata nel significato attribuito dalla Corte EDU, cfr. citate sentenze n. 113 e n. 1 del 2011), il giudice nazionale comune deve preventivamente verificare la praticabilità di un’interpretazione della prima conforme alla norma convenzionale, ricorrendo a tutti i normali strumenti di ermeneutica giuridica (sentenze n. 93 del 2010, n. 113 del 2011, n. 311 e n. 239 del 2009). Se questa verifica da esito negativo e il contrasto non può essere risolto in via interpretativa, il giudice comune, non potendo disapplicare la norma interna né farne applicazione, ritenendola in contrasto con la CEDU e pertanto con la Costituzione, deve denunciare la rilevata incompatibilità proponendo questione di legittimità costituzionale in riferimento all’art. 117 Cost., comma 1, ovvero all’art. 10 Cost., comma 1, ove si tratti di una norma convenzionale ricognitiva di una norma del diritto internazionale generalmente riconosciuta (sentenze n. 113 del 2011, n. 93 del 2010 e n. 311 del 2009).
Sempre il Giudice delle leggi ha affermato che, sollevata la questione di legittimità costituzionale, il giudice comune – dopo aver accertato che il denunciato contrasto tra norma interna e norma della CEDU sussiste e non può essere risolto in via interpretativa – è chiamato a verificare se la norma della Convenzione – norma che si colloca pur sempre ad un livello sub-costituzionale – si ponga eventualmente in conflitto con altre norme della Costituzione. In questa, seppure eccezionale, ipotesi, deve essere esclusa l’idoneità della norma convenzionale a integrare il parametro costituzionale considerato (sentenze n. 113 del 2011, n. 93 del 2010, n. 311 del 2009, n. 349 e n. 348 del 2007). Più precisamente, secondo Corte cost. n. 264 del 2012 la verifica del contrasto fra norma interna e norma CEDU non può portare ad una violazione di norme costituzionali interne, con la conseguenza che la norma CEDU, nel momento in cui integra il primo comma dell’art. 117 Cost. come norma interposta, deve formare oggetto di bilanciamento secondo le valutazioni di costituzionalità svolte ordinariamente dalla stessa Corte (vedi anche sent. n. 317 del 2009).
Ciò induce a prospettare la possibilità di un bilanciamento tra il sacrificio economico imposto al lavoratore, anche con efficacia retroattiva ossia anche con lesione della posizione processuale (sacrificio economico modesto ossia non contrastante con la garanzia posta dall’art. 36, primo comma, Cost.), e necessità di equilibrio del bilancio dello Stato, da assicurare tenendo conto della fase avversa del ciclo economico (art. 81, primo comma, Cost.).
Tale questione di bilanciamento appare tuttavia di dubbio esito, giacché non risulta a questa Corte di legittimità neppure approssimativamente la complessiva spesa necessaria a soddisfare quei crediti dei pubblici impiegati. Ulteriore ragione per chiedere il giudizio della Corte costituzionale.
Circa il contrasto tra il comma 224 cit. e l’art. 6 CEDU, dall’esame delle sentenza CEDU relative a norme di interpretazione autentica possono desumersi i seguenti principi:
a) benché non sia precluso al legislatore disciplinare, mediante nuove disposizioni retroattive, diritti derivanti da leggi in vigore, il principio della preminenza del diritto e la nozione di processo equo contenuti nell’art. 6 precludono, tranne che per impellenti motivi di interesse generale, i quali non possono consistere in mere esigenze finanziarie, l’interferenza del legislatore nell’amministrazione della giustizia con il proposito di influenzare la determinazione giudiziaria di una controversia azionata contro lo Stato. (causa Maggio ed altri c. Italia del 31/05/2011; causa Anna De Rosa ed altri c. Italia dell’11/12/2012; causa Agrati ed altri c. Italia del 7/06/2011, le ultime due relative al personale ATA; cfr, inoltre, tra molti altri precedenti, Stran Greek Refineries e Stratis Andreadis c. Grecia, 9 dicembre 1994, National & Provincial Building Society, Leeds Permanent Building Society e Yorkshire Building Society c. il Regno Unito, 23 ottobre 1997, Zielinski e Pradal e Gonzalez e Altri c. Francia).
b) La Corte affermò, ancora, con riferimento alla legge di interpretazione n. 296/2006 nella causa Maggio citata, che la promulgazione di detta legge, mentre i procedimenti erano pendenti, in realtà era ricaduta sul merito delle controversie, e la sua applicazione da parte dei vari Tribunali ordinari aveva privato di rilievo, per un’intera categoria di persone che si trovavano nella posizione dei ricorrenti, la prosecuzione del giudizio. Perciò, la legge aveva avuto l’effetto di modificare definitivamente l’esito del giudizio pendente, nel quale lo Stato era parte, approvando la posizione dello Stato a svantaggio dei ricorrenti. Mancavano peraltro i suddetti motivi imperativi di interesse generale.
c) Conclusioni analoghe sono state assunte nella causa citata relativa al personale ATA in cui la Corte di Strasburgo, dopo aver ribadito il principio più volte affermato che, se in linea di principio nulla vieta al potere legislativo di regolamentare mediante nuove disposizioni, a carattere retroattivo, diritti risultanti da leggi in vigore, la preminenza del diritto e la nozione di processo equo sanciti dall’art. 6 CEDU ostano, salvo che per imperative ragioni di interesse generale, all’ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia al fine di influenzare l’esito giudiziario di una controversia. La Corte ha rammentato, inoltre, che l’esigenza della parità delle armi implica l’obbligo di offrire a ciascuna parte una ragionevole possibilità di presentare la propria causa senza trovarsi in una situazione di netto svantaggio rispetto alla controparte. Analoghi principi sono stati affermati, altresì, nella sentenza del 25 novembre 2010, Lilly c. Francia, e nella sentenza dell’11 febbraio 2010, Javaugue c. Francia.
d) Al fine di determinare se vi sia stato un motivo impellente di interesse generale in grado di giustificare tale misura, il rispetto della preminenza del diritto e delle regole del processo equo, secondo la Corte di Strasburgo, impone che le ragioni addotte per giustificare tale misura siano valutate con il massimo grado di cautela possibile. Considerazioni di carattere finanziario non possono da sole giustificare che il legislatore si sostituisca al giudice al fine di risolvere le controversie (causa Maggio ed altri citata).
e) La Corte ha osservato (causa Arras citata) che “Il problema sollevato nel caso di specie è fondamentalmente quello del giusto processo, e, secondo la Corte, ciò coinvolge la responsabilità dello Stato sia nella sua funzione legislativa, se vizia il processo o influenza l’esito giudiziario della controversia, sia nella sua funzione di autorità giudiziaria se è violato il diritto a un giusto processo, compreso in questioni private tra soggetti privati”.
Nella già citata pronuncia n. 264 del 2012 la Corte costituzionale ha rilevato che l’impostazione della giurisprudenza ECU risulta sostanzialmente coincidente con i principi enunciati dalla stessa Corte con riguardo al divieto di retroattività della legge, che, pur costituendo valore fondamentale di civiltà giuridica, non riceve nell’ordinamento la tutela privilegiata di cui all’art. 25 Cost. (sentenze n. 15 del 2012, n. 236 del 2011 e n. 393 del 2006). Il legislatore, nel rispetto di tale previsione, può emanare – come rilevato nelle citate sentenze – disposizioni retroattive, anche di interpretazione autentica, purché la retroattività trovi adeguata giustificazione nella esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, che costituiscono altrettanti “motivi imperativi di interesse generale” ai sensi della giurisprudenza della Corte EDU. La richiamata disposizione convenzionale, come applicata dalla Corte europea, integra, quindi, pianamente il parametro dell’articolo 117, primo comma, della Costituzione.
Alla luce dei citati principi elaborati dalla giurisprudenza CEDU in riferimento all’interpretazione dell’art. 6 della Convenzione citato ritiene in definitiva questo collegio che si prospetti il dubbio di legittimità costituzionale della L. n. 266/2005 art. 1, comma 224, non essendo possibile adottare un’interpretazione della disposizione citata conforme alla Convenzione.
La norma in questione è intervenuta nel corso del giudizio determinando la modifica dell’esito del giudizio favorevole ai ricorrenti secondo una giurisprudenza consolidata che riconosceva ai dipendenti pubblici il diritto ad un compenso aggiuntivo in caso di coincidenza della festività con la domenica.
Le argomentazioni svolte dal Ministero non sembrano poter rappresentare gli “impellenti motivi di interesse generale” di cui sopra. L’applicazione della legge in questione si traduce nel privare i ricorrenti di un emolumento che essi avrebbero potuto pretendere e si riverbera sull’esito dei processi in corso.
Le finalità indicate dal Ministero secondo cui la legge retroattiva tende a “razionalizzare” o “omogeneizzare” il trattamento del pubblico impiego costituiscono espressioni del tutto generiche mentre lo stesso Ministero non nega l’intento di sola compressione della spesa pubblica.
La tesi sostenuta da una parte della dottrina, della disapplicabilità, da parte del giudice comune, di norme contrastanti non solo con l’art. 6 CEDU ma anche con gli artt. 47, secondo comma, e 52, terzo comma, della Carta dei diritti fondamentali UE, non è generalmente condivisa e contrasta con le citate sentt. n. 348 e 349 del 2007 della Corte Cost.. Essa non ha dato luogo a “diritto vivente” onde a questo collegio sembra meglio procedere secondo le indicazioni di queste due pronunce (vedi anche Corte giust. UE, 24 aprile 2012 n. C 571/10 Kamberaj; 26 febbraio 2013 n. 617/10, Fransson).

P.Q.M.

La Corte:
Visti l’art. 134 Cost. e la L. 11 marzo 1953 n. 87, art. 23, dichiara rilevante e non manifestamente infondata – in riferimento all’art. 117 Cost., comma 1, in relazione all’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), sottoscritta dall’Italia il 4 novembre 1950 e resa esecutiva con L. 4 agosto 1955, n. 848, la questione di legittimità costituzionale della L. 23 dicembre 2005 n. 266 art. 1, comma 224, (legge finanziaria 2006).
Dispone la sospensione del procedimento n. 30358/2010.
Ordina l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.
Ordina alla Cancelleria che la presente ordinanza sia notificata alle parti del giudizio di legittimità, ed al Presidente del Consiglio dei ministri e che essa sia comunicata al Presidente del Senato della Repubblica e al Presidente della Camera dei deputati.

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