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Sentenza – Educatore, violenza fisica, minore

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Sentenza – Educatore, violenza fisica, minore
Corte di Cassazione Sezione Quinta
sentenza 16 maggio – 16 giugno 2014, n. 25790

Fatto e diritto

Propone ricorso per cassazione V.A., avverso la sentenza della Corte d’appello di Palermo, in data 20
febbraio 2013, con la quale è stata confermata quella di primo grado, di condanna in ordine ai reati di
violenza privata ‐ così diversamente qualificati i fatti di violenza contestati nei confronti dei minori G.R. e
P.A. ‐ ed al reato di lesioni personali in danno dello stesso P.A. contestato al capo C). L’imputato era stato
contestualmente assolto, in primo grado, da altri episodi di violenza in danno di P.P. e T.G.‐ qualificati
anche questi come violenza privata ‐nonché dal reato di lesioni personali in danno di (omissis),
contestato al capo B), per essere stati commessi in stato di necessità, e dai residui fatti rimasti contestati ex
art. 571 cp, perché non costituivano reato.
Gli eventi risalivano al mese di novembre del 2006 ma sono da ritenere non ancora estinti per prescrizione
in ragione di cause di sospensione che hanno prorogato il relativo termine di mesi tre e giorni tre.
Come attestato nella sentenza impugnata, i comportamenti di rilievo penale, originariamente contestati
come abuso dei mezzi di correzione e disciplina ex art. 571 e 81 cp‐ oltre che come lesioni personali
volontarie‐ erano stati denunciati da una serie di soggetti minorenni che assumevano di avere subito
comportamenti aggressivi da parte dell’imputato, educatore della Comunità Alloggio per minori “La
Libellula” di Casteldaccia , comunità presso la quale le stesse parti offese erano ospitate.
Deduce
1) la violazione dell’articolo 192 cpp e il vizio della motivazione.
La sentenza impugnata non aveva analizzato adeguatamente le ragioni della difesa, rappresentate nel
giudizio di appello, e volte ad ottenere l’adeguata disamina e valorizzazione delle numerose falsità
dichiarate dai minori, presunte parti offese:falsità tali da avere contaminato l’intero loro narrato, anche in
ragione della descrizione degli stessi, da parte di tutti i consulenti e soprattutto del giudice di primo grado,
come persone affette da gravissimi disturbi della personalità, tendenti a minimizzare i propri
comportamenti che invece erano risultati di intollerabile prevaricazione;
2) l’erronea disapplicazione dell’articolo 51 c.p. ossia dell’esimente dell’adempimento del dovere (ius
corrigendi).
Era stato, infatti, segnalato, nei motivi d’appello, come il clima di intollerabile prevaricazione, determinatosi
per la presenza dei giovani affetti da disagio, giustificasse anche il ricorso a qualche scappellotto, come nel
caso di G.R., non già per limitare la libertà di autodeterminazione della persona ma per indurla a rispettare
le regole base della convivenza.
Non poteva, in altri termini, condividersi il ragionamento del primo giudice secondo cui l’atto di violenza (lo
scappellotto) è comunque un mezzo illecito, il ricorso al quale fa escludere ontologicamente la ipotizzabilità
del reato di abuso dei mezzi di correzione, mentre l’impugnante chiede che sia censurato anche il
ragionamento del giudice d’appello, secondo cui è da escludere pure il riconoscimento del legittimo
esercizio dello ius corrigendi nel caso di una lieve percussione, sulla natica di un ospite, con il flauto che
quello si ostinava a suonare nonostante i plurimi divieti per il rispetto del riposo degli altri.
Il ricorso è infondato e deve essere rigettato. Il primo motivo è destituito di fondamento.
La sentenza impugnata illustra con la doverosa puntualità, le ragioni del proprio convincimento in ordine
alla attendibilità delle testimonianze che costituiscono il nucleo portante del materiale probatorio a carico
dell’imputato.
Si tratta di testimonianze che provengono non solo dalle persone offese ma anche da altri ospiti della
struttura, analiticamente indicati: una circostanza di notevolissimo rilievo ai fini della formulazione del
giudizio di attendibilità del testimone ed invece del tutto trascurata dall’impugnante nella redazione dei
propri motivi di ricorso.
In secondo luogo lo stesso impugnante formula la propria critica al ragionamento illustrato dal giudice a
quo, in termini sostanzialmente fattuali.
Infatti, pur sostenendosi , nell’atto di impugnazione, che il giudice dell’appello avrebbe omesso di motivare
sulla dimostrata attitudine dei dichiaranti a mentire e a rappresentare una realtà di comodo, nella quale i
propri comportamenti violenti e asociali risultassero del tutto minimizzati, la censura scaturita è quella che
si sostanzia in un tentativo di dimostrare, per la prima volta in sede di legittimità, un ragionamento
alternativo, che il giudice dell’appello avrebbe potuto seguire.
Ancora una volta, in altri termini, il motivo di ricorso per cassazione viene formulato sollecitando alla Corte
di cassazione a sostituire il proprio convincimento, alla motivata ricostruzione operata dal giudice del
merito, atteso che la pretesa attitudine dei giovani testimoni a mentire e a ingigantire le responsabilità
dell’educatore è circostanza enunciata in sé e per sé e non in relazione alla capacità dimostrativa della
motivazione esibita dal giudice dei merito.
La Corte territoriale, invero, ha dedicato lunghe pagine alla illustrazione della tesi secondo cui, a parte il
possibile disagio sociale dal quale i piccoli ospiti fossero stati lambiti, la loro credibilità era stata il punto
centrale dell’intero accertamento compiuto nel processo. E tale accertamento aveva portato ad un risultato
univoco , in base anche all’ausilio prestato dal consulente specialista, avendo costui potuto registrare non
solo la spontaneità dei racconti, ma anche la coincidenza dei particolari narrati e la coerenza delle singole
narrazioni. Lamentarsi della incompiutezza di tale accertamento, eseguito in appello, nei termini in cui lo ha
fatto il ricorrente nell’atto di impugnazione in esame, significa richiamare dinanzi al giudice di legittimità, in
ordine sparso, una serie di elementi di fatto ‐ magari anche riguardanti presunte dichiarazioni dei minori,
risultate non vere‐ che, tuttavia, hanno trovato già ordine e sistemazione logica ad opera del giudice del
merito, soprattutto sul punto nodale della attendibilità delle singole e specifiche dichiarazioni accusatorie
ritenute rilevanti e senza che il disagio sociale dei dichiaranti abbia potuto costituire argomento capace di
inficiare volta per volta la accusa mossa all’imputato.
Il secondo motivo di ricorso è ugualmente privo di pregio.
L’impugnante lamenta il mancato riconoscimento dell’esimente dell’esercizio di un diritto , ossia del diritto
proprio dell’educatore a realizzare la correzione e la disciplina del minore affidatogli, in un caso nel quale
non solo lo jus corrigendi, ossia l’uso di mezzi leciti di correzione, è stato escluso dal giudice del merito ma,
per di più, è stato escluso anche l’abuso dei mezzi leciti di correzione e disciplina (articolo 571 c.p.
originariamente contestato) per far luogo all’addebito del reato di violenza privata, la cui integrazione
presuppone il ricorso a mezzi illeciti, sia pure per pretese finalità educative.
Resta infatti insuperato il principio più volte ribadito dalla giurisprudenza di legittimità‐ al quale la sentenza
impugnata si è perfettamente allineata ((Sez. 6, Sentenza n. 4904 del 18/03/1996 Ud. (dep. 16/05/1996 )
Rv. 205033; Sez. 5, Sentenza n. 10841 del 09/05/1986 Ud. (dep. 14/10/1986 ) Rv. 173956)‐ secondo cui,
relativamente a minori, il termine “correzione” va assunto come sinonimo di educazione, con riferimento ai
connotati intrinsecamente conformativi di ogni processo educativo. E non può ritenersi tale l’uso della
violenza finalizzato a scopi educativi: ciò sia per il primato che l’ordinamento attribuisce alla dignità della
persona, anche del minore, ormai soggetto titolare di diritti e non più, come in passato, semplice oggetto di
protezione (se non addirittura di disposizione) da parte degli adulti; sia perché non può perseguirsi, quale
meta educativa, un risultato di armonico sviluppo di personalità, sensibile ai valori di pace, di tolleranza, di
connivenza utilizzando un mezzo violento che tali fini contraddice.
Ne consegue che l’eccesso nel ricorso a mezzi di correzione, in sé illeciti, non rientra nella fattispecie
dell’art. 571 cod. pen. (abuso di mezzi di correzione) giacché a tale condizione soltanto può ammettersi la
configurazione dell’ abuso punibile in maniera attenuata, rispetto ad altri e più gravi reati.
D’altra parte, per scendere alla casistica evocata nel ricorso, non si comprende ‐ né il ricorrente lo chiarisce
o lo allega‐ , come potrebbe farsi rientrare nel concetto di uso di mezzi leciti di correzione o anche soltanto
in quello di abuso di mezzi leciti di correzione, e non piuttosto nella ipotesi di violenza privata, la condotta
consistita nel percuotere la natica di un ospite ‐ che non ubbidiva all’ordine di smettere di suonare il flauto con
lo stesso strumento musicale, cagionandogli ecchimosi lineari sul gluteo.
Infatti, dovendosi anche considerare che sia l’articolo 571 cp che l’uso legittimo del mezzo di correzione che
esso sottende costituiscono comunque precetti dinamici che devono essere interpretati alla luce
dell’evoluzione del costume sociale, dovrà ritenersi che, se è vero che, in ipotesi e nella prospettiva
dell’educazione del minore, possa ancor oggi ammettersi il ricorso ad un occasionale ceffone, è da
escludere che possa farsi uso legittimo dello stesso sistema quando trasmodi in un eccesso e si trasformi in
una condotta fonte di lesioni personali non necessitata dalle circostanze.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento. Così è deciso in Roma
il 16 maggio 2014.

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