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Sentenza – Maltrattamenti in famiglia

Sentenza – Maltrattamenti in famiglia
Suprema Corte di Cassazione III Sezione Penale
Sentenza 31 gennaio – 20 marzo 2014, n. 13017
Presidente Gentile – Relatore Franco

Svolgimento del processo

A seguito di denuncia della moglie S.M., G.P. veniva tratto a giudizio per rispondere dei reati di cui: A) artt. 81 cpv e 572 cp, per maltrattamenti nei confronti della moglie e dei figli minori M., Y. e M.G., fatti commessi dal 1992 al settembre 2005; B) agli artt. 61 n. 2, 81 cpv, 582 e 585 in relazione all’art. 577 cp per lesioni alla moglie, fatto commesso il 31/10/2001; C) agli artt. 81 cpv e 609/bis cp, per avere costretto la moglie ripetute volte a rapporti sessuali contro la sua volontà, fatti commessi dal 1995 al 2001; D) agli artt. 81 cpv, 56, 609/bis, 609/ter co. 1 n. 5 e comma 2, 609/quater comma 1 n. 2 e comma 5 cp, per avere tentato di compiere atti sessuali con la figlia G.M., fatti commessi a tutto il 2001; E) agli artt. 81 cpv e 609/quinquies cp per avere costretto i figli minori a vedere film pornografici, fatti commessi a tutto il 2001; F) agli artt. 81 e 629 cod. pen. per avere costretto la moglie a consegnargli il suo bancomat, col quale prelevava mensilmente la somma di € 1.500 corrispondente allo stipendio mensile della stessa, commesso dal 1992 al 2001; G) all’art. 629 cod. pen. per avere costretto la moglie a consegnargli la somma di 24 milioni di lire, che lei aveva ricevuto in dono dal padre, commesso nell’aprile 2001; H) agli artt. 81 cpv e 609/bis commesso a Scandicci nell’ottobre 2002, quando in tre occasioni aveva costretto la moglie, che era andata a trovarlo con i figli nella roulotte in cui era andato ad abitare, a subire rapporti sessuali.
Con sentenza del 28/5/2010 il tribunale di Prato dichiarava il G. responsabile dei delitti sub a), c), f), g) e h) e lo condannava alla pena di anni sette e mesi sei di reclusione, alle pene accessorie ed al risarcimento danni verso la parte civile costituita; dichiarava invece non doversi procedere per i reati di cui ai capi b) ed e), perché prescritti; ed assolveva l’imputato dal reato di cui al capo d) perché il fatto non sussiste.
La corte d’appello di Firenze, con la sentenza in epigrafe, dichiarava non doversi procedere per il reato di cui al capo a), essendo estinto per intervenuta prescrizione, e rideterminava la pena per i restanti reati nella misura di sette anni di reclusione, confermando nel resto l’impugnata sentenza.
L’imputato, a mezzo dell’avv. F.T., propone ricorso per cassazione lamentando preliminarmente che immotivatamente la corte d’appello ha ritenuto credibili soltanto i testi che hanno esposto tesi favorevoli all’accusa e non credibili gli altri, e deducendo in particolare:
1) violazione di legge e mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione. Osserva che, quanto alla violenza sessuale di cui al capo H), non è credibile che la moglie, dopo tutti i precedenti, nell’ottobre del 2002 si sia recata tre volte nel camper a Scandicci dove l’imputato abitava dopo la scarcerazione, accompagnandovi i figli per farli vedere al padre, ed abbia qui subito tutte le volte rapporti sessuali contro la sua volontà. Depongono per un diverso svolgersi delle vicende sia il testo degli sms in quel tempo intercorsi tra G. e la moglie; sia la presenza dei figli, di cui uno di nove e l’altro di sette anni; sia il luogo pubblico in cui i fatti si sarebbero verificati; sia l’indole incline al sesso della persona offesa; sia, soprattutto, l’essersi la stessa recata dal marito da sola, senza tutele, con i figli e per almeno tre volte. Quanto al capo C), osserva che è manifestamente illogica la motivazione sul punto, laddove ritiene esistenti atti continui di violenza grave, che contrastano totalmente con una convivenza di oltre dieci anni e contrastano ancora di più con i successivi dodici anni – ad oggi -, nel corso dei quali non vi sono state violenze o vendette. Quanto all’estorsione di cui al capo F), non é credibile la vicenda della tessera bancomat e che S.M. dal 1992 al 2001 abbia subito passivamente una estorsione continua. Quanto all’estorsione di cui al capo G), osserva che l’importo di lire 24 milioni era depositato in forma vincolata a nome di S.V. e di S.M. e, quindi, non poteva essere prelevato senza il loro consenso.
Lamenta poi carenza di prove oggettive in quanto la sentenza si basa solo sulle dichiarazioni della persona offesa nonché di sua madre, di sua sorella, del figlio M. e della C.M.; peraltro tutte dichiarazioni, eccetto quelle della persona offesa e di M., de relato. Esamina poi specificamente queste dichiarazioni e ne sottolinea i punti e gli aspetti in cui appaiono contraddittorie e inverosimili, lamentando mancanza o manifesta illogicità della motivazione sul giudizio in ordine alla loro ritenuta attendibilità.

Lamenta anche che non è stata presa in considerazione la versione dei fatti da lui fornita, sebbene trovasse riscontro negli sms scambiati con la moglie, nelle perizie sui minori, nonché nelle deposizioni degli insegnanti, del sacerdote, della sorella e del cognato e di altri, dal Tribunale e dalla Corte immotivatamente relegate tutte a deposizioni inattendibili e di favore. Contraddittoriamente i giudici hanno acriticamente ritenuto attendibili le deposizioni dei testi di accusa perché avrebbero ad oggetto fatti di conoscenza diretta, mentre sono quasi tutte de relato.
2) mancata assunzione di una prova decisiva. Osserva che la sentenza del tribunale aveva evidenziato che gli elementi di prova non erano sufficienti, essendo stati assunti dal giudice in maniera parziale ed erronea. La difesa aveva quindi chiesto la riapertura del dibattimento e l’audizione di alcuni testi, nonché l’esperimento di CTU, volta ad accertare le condizioni psichiche dei figli, della persona offesa e l’imputabilità di G.. Erroneamente la corte d’appello non ha disposto queste prove, che invece sono indispensabili.

Motivi della decisione

Ritiene il Collegio che il ricorso – nel quale principalmente ci si dilunga a riportare criticamente le dichiarazioni dei vari testimoni sentiti nel processo – si risolva in una censura in punto di fatto della decisione impugnata, con la quale si richiede una nuova e diversa valutazione delle risultanze processuali riservata al giudice del merito e non consentita in questa sede di legittimità, e sia comunque manifestamente infondato, dovendo ritenersi che la corte d’appello abbia fornito congrua, specifica ed adeguata motivazione sulle ragioni per le quali ha ritenuto provata la responsabilità in ordine ai reati addebitatigli.
Ed invero i giudici del merito hanno osservato: – che i reati erano rimasti provati dalle molteplici testimonianze tutte concordi nell’evidenziare una situazione familiare insostenibile ed un clima familiare che aveva trovato riscontri nella relazione del perito dott. S., psicologo terapeuta; – che le uniche testimonianze favorevoli al G., di sua sorella e suo cognato, non apparivano conferenti e valide a contrastare il solido panorama probatorio di segno accusatorio; – che le concordi dichiarazioni dei testi di accusa avevano messo in evidenza un clima di violenza, vessazione e umiliazione in danno S.M., che veniva spesso percossa e soggiogata fisicamente e sessualmente, oltre ad essere depredata economicamente; – che il perito aveva concluso per la credibilità dei due figli minori, che peraltro avevano palesato la volontà di tenersi lontano dal padre; – che la paventata infermità o seminfermità del G. a causa della sua condizione di sordomuto non aveva alcun rilievo, sia perché anche la moglie era affetta dallo stessa infermità senza essere da essa compromessa, sia perché le dichiarazioni del G. manifestavano una evidente linearità di pensiero e lucidità di ragionamento;- che ricomprendere il racconto della parte offesa in un ambito di astio familiare nei confronti del G. appariva riduttivo e non giustificativo del suo comportamento; – che non era opportuno né giustificato riaprire l’istruttoria per sentire ulteriori testi della difesa, cui peraltro in primo grado la stessa difesa aveva rinunciato; – che, se fosse stato vero l’assunto difensivo di una vendetta, non si vedeva quale motivo avrebbe potuto spingere la cognata a sottrarre i figli ad un padre normalmente affettuoso e presente; – che in conclusione le dichiarazioni accusatorie di S.M., alla stregua di un esame approfondito e completo, dovevano ritenersi attendibili e pertanto doveva ritenersi provato che il G., con la sua forza e la sua brutalità non solo aveva imposto rapporti sessuali alla moglie non consenziente, sfidando la presenza dei figli in casa, ma l’aveva anche economicamente prostrata e soggiogata, facendosi consegnare i suoi beni anche attraverso la minaccia ai di lei genitori, come dagli stessi confermato.
Il ricorso deve dunque essere dichiarato inammissibile per manifesta infondatezza dei motivi.
In applicazione dell’art. 616 cod. proc. pen., segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di elementi che possano far ritenere non colpevole la causa di inammissibilità del ricorso, al pagamento in favore della cassa delle ammende di una somma, che, in considerazione delle ragioni di inammissibilità del ricorso stesso, si ritiene congruo fissare in € 1.000,00.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1.000,00 in favore della cassa delle ammende.

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