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Sentenza – Risarcimento danni, manto stradale sconnesso

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Sentenza – Risarcimento danni, manto stradale sconnesso
Suprema Corte di Cassazione – Terza Sezione Civile
Sentenza 28 novembre 2013 – 20 gennaio 2014, n. 999
Presidente Berruti – Relatore Cirillo

Svolgimento del processo

1. V.E. conveniva in giudizio il Comune di Sorrento, davanti al Tribunale di Torre Annunziata, Sezione distaccata di Sorrento, chiedendo il risarcimento dei danni conseguenti ad una caduta dovuta al manto stradale sconnesso e dissestato.
Costituitosi il Comune, il Tribunale rigettava la domanda.
2. Avverso tale pronuncia proponeva appello la V. e la Corte d’appello di Napoli, con sentenza del 19 febbraio 2007, rigettava l’appello, confermava la sentenza impugnata e compensava integralmente le spese del grado.
Osservava la Corte territoriale che l’attrice aveva chiesto in primo grado la condanna ai sensi dell’art. 2043 cod. civ., sicché non poteva essere proposta per la prima volta in appello la diversa domanda fondata sull’art. 2051 cod. civ., richiedendo i due tipi di responsabilità l’accertamento di elementi di fatto diversi.
Ciò premesso, la Corte, richiamati alcuni precedenti della giurisprudenza di legittimità, dichiarava che l’attrice non aveva dimostrato la sussistenza dei fatti costitutivi posti a fondamento della domanda, in particolare in relazione alla natura di insidia o trabocchetto costituita dal manto stradale. Nella specie, infatti, era risultato che la V. stava camminando su di una strada dissestata e che era caduta a causa di un tombino il cui coperchio era malfermo; non sussisteva, quindi, una situazione “oggettivamente pericolosa creata colposamente dalla P.A.”, in quanto l’appellante avrebbe potuto “facilmente evitare la prevedibile situazione di pericolo con l’adozione della più elementare accortezza”. La situazione dei luoghi imponeva un’andatura particolarmente prudente, magari evitando di transitare per quella strada e, comunque, evitando “di camminare sul tombino che, ad un controllo visivo, appariva malfermo e mobile”.
3. Avverso la sentenza della Corte d’appello di Napoli propone ricorso la V. , con atto affidato a sei motivi.
Resiste il Comune di Sorrento con controricorso.

Motivi della decisione

1. Col primo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 113, 115 e 116 del codice di procedura civile.
Rileva la ricorrente che la sentenza, dopo aver affermato che la domanda proposta ai sensi dell’art. 2051 cod. civ. sarebbe nuova, perviene poi al rigetto della domanda sul presupposto che non vi sarebbe una domanda nuova. D’altra parte, l’accertamento dei fatti contenuto nella sentenza (inciampo su di un tombino malfermo) non costituisce domanda nuova rispetto a quella originariamente proposta (inciampo su manto stradale dissestato), sicché la sentenza d’appello avrebbe dovuto correttamente riformare quella di primo grado.
2. Col secondo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 5), cod. proc. civ., omessa o insufficiente motivazione circa profili fondamentali e decisivi per la controversia, oltre a inadeguato ed incongruo apprezzamento delle circostanze evidenziate dalla prova testimoniale.
Dall’istruttoria svolta – ed in particolare dalla deposizione della teste S. – risulterebbe chiaramente che l’instabilità del tombino che ha causato la caduta non era visibile né prevedibile per un passante che transitava per la strada, il che dimostrerebbe in modo chiaro l’erroneità della ricostruzione operata dal giudice d’appello.
3. Col terzo motivo di ricorso si lamenta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 2051 del codice civile.
Rileva la ricorrente che la domanda da lei proposta in primo grado non era fondata in via esclusiva sul principio del neminem laedere di cui all’art. 2043 cod. civ., perché in essa si era evidenziata, in modo generico, “soltanto la precisa responsabilità del sinistro a carico dell’ente comunale convenuto, per legge tenuto alla regolare manutenzione, ordinaria e straordinaria, del locale manto stradale cittadino”; la domanda, quindi, si fondava su entrambi i titoli di responsabilità (artt. 2043 e 2051 cod. civ.). Pertanto non sarebbe esatta l’affermazione della Corte napoletana secondo cui la domanda basata sull’art. 2051 cod. civ. non era stata proposta; e comunque il giudice, a prescindere dal nomen iuris, ha il potere-dovere di attribuire la giusta qualificazione giuridica all’azione proposta.
4. Col quarto motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 5), cod. proc. civ., omessa o insufficiente motivazione circa profili fondamentali e decisivi per la controversia, oltre a incongruo apprezzamento delle circostanze evidenziate dalla prova testimoniale.
A norma dell’art. 2051 cod. civ., infatti, il custode è responsabile salvo che provi il fortuito. Nella specie, il Comune di Sorrento non avrebbe provato tale circostanza, indispensabile ai fini dell’esonero dalla responsabilità. Risulterebbe pacificamente, anzi, la condotta colposa del Comune nella tenuta della strada in questione, perché è evidente che la presenza di un tombino sconnesso determina una colpa, almeno concorrente, di chi è tenuto alla manutenzione della strada.
5. Col quinto motivo di ricorso si lamenta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 del codice civile.
Rileva la V. che la sentenza impugnata sarebbe errata anche se si ritenesse applicabile nella fattispecie l’ipotesi di cui all’art. 2043 del codice civile. La più recente giurisprudenza di legittimità, infatti, ha depurato l’interpretazione di detta norma dalle figure della insidia e del trabocchetto, ed ha posto in risalto che l’utente della strada è tenuto soltanto a dimostrare il danno ed il nesso di causalità, perché sulla pubblica amministrazione grava comunque un obbligo di mantenimento delle strade in buone condizioni.
6. Col sesto motivo di ricorso si lamenta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3), n. 4) e n. 5), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 61 cod. proc. civ., in relazione all’omissione della c.t.u. nonostante la sua indispensabilità.
Si rileva, al riguardo, che la c.t.u. era stata ritualmente chiesta fin dal primo grado e che il giudice, anche d’appello, ne avrebbe erroneamente rifiutato l’ammissione.
7. Per ragioni di economia processuale conviene procedere innanzitutto all’esame dei motivi primo, terzo e quinto, i quali pongono problemi fra loro connessi.
Le censure, già sopra esposte, sono così riassumibili: 1) la sentenza impugnata avrebbe errato nel ritenere che la domanda configurata ai sensi dell’art. 2051 cod. civ. fosse nuova rispetto a quella originaria, ai sensi dell’art. 2043 cod. civ., poiché i fatti prospettati nell’atto di citazione erano riconducibili ad entrambe le fattispecie ed il tipo di addebito mosso al Comune di Sorrento era, nella sostanza, il medesimo; 2) ai sensi dell’art. 2051 cod. civ., il Comune era tenuto, per andare esente da responsabilità, a provare l’esistenza del caso fortuito, cosa che non ha in alcun modo dimostrato; 3) anche inquadrando la fattispecie nell’ipotesi regolata dall’art. 2043 cod. civ., la ricorrente avrebbe comunque fornito la prova dell’esistenza di una colpa in capo al Comune convenuto, il quale doveva essere condannato anche a prescindere dall’esistenza dell’obbligo di custodia.
L’esame di tali censure impone di seguire un rigoroso iter logico che, attraverso i necessari richiami alle precedenti pronunce di questa Corte sull’argomento, consenta di pervenire alla soluzione.
7.1. Occorre innanzitutto affermare, quanto al profilo della novità della domanda proposta ai sensi dell’art. 2051 cod. civ. rispetto a quella di cui all’art. 2043 cod. civ., che questa Corte ha già da tempo posto in luce come l’azione di responsabilità fondata sulla violazione di un obbligo di custodia sia intrinsecamente, per così dire, diversa da quella fondata sul principio generale del neminem laedere. Ciò in quanto “l’applicabilità dell’una o dell’altra norma implica, sul piano eziologico e probatorio, diversi accertamenti e coinvolge distinti temi d’indagine, trattandosi di accertare, nel primo caso, se sia stato attuato un comportamento commissivo od omissivo, dal quale è derivato un pregiudizio a terzi, e dovendosi prescindere, invece, nel caso di responsabilità per danni da cosa in custodia, dal profilo del comportamento del custode, che è elemento estraneo alla struttura della fattispecie normativa di cui all’art. 2051 cod. civ., nella quale il fondamento della responsabilità è costituito dal rischio, che grava sul custode, per i danni prodotti dalla cosa che non dipendano dal caso fortuito” (così la sentenza 6 luglio 2004, n. 12329, richiamando un orientamento ancora più risalente). In altre parole, mentre l’azione ai sensi dell’art. 2043 cod. civ. comporta la necessità, per il danneggiato, di provare l’esistenza del dolo o della colpa a carico del danneggiante, nel caso di azione fondata sull’art. 2051 cod. civ. la responsabilità del custode è prevista dalla legge per il fatto stesso della custodia, potendo questi liberarsi soltanto attraverso la gravosa dimostrazione del fortuito. Ne consegue un’ovvia differenza in ordine ai temi di indagine ed al riparto dell’onere della prova, perché nel primo caso il danneggiato dovrà attivarsi a dimostrare qualcosa, mentre nel secondo sarà il danneggiante a doversi attivare.
Tale approdo giurisprudenziale è stato in seguito ribadito da questa Corte (v. sentenze 23 giugno 2009, n. 14622, e 20 agosto 2009, n. 18520). E da tanto si trae la dovuta conseguenza per cui, una volta proposta in primo grado una domanda ai sensi dell’art. 2043 cod. civ. – fondata, ad esempio, sulle figure dell’insidia e del trabocchetto, ancorché impropriamente richiamate – non è consentito alla parte in grado di appello fondare la medesima domanda sulla violazione dell’obbligo di custodia, perché ciò verrebbe inevitabilmente a stravolgere il processo, mettendo il danneggiante nella situazione di doversi attivare quando una serie di preclusioni processuali si sono già maturate.
Dando per pacifica tale conclusione, la giurisprudenza più recente ha esplicitato in modo ancora più chiaro che la domanda fondata sull’art. 2051 cod. civ. può non essere considerata nuova rispetto a quella fondata sull’art. 2043 cod. civ. – e, quindi, improponibile in appello – solo se l’attore abbia “sin dall’atto introduttivo del giudizio enunciato in modo sufficientemente chiaro situazioni di fatto suscettibili di essere valutate come idonee, in quanto compiutamente precisate, ad integrare la fattispecie contemplata da detti articoli” (sentenze 21 giugno 2013, n. 15666, e 5 agosto 2013, n. 18609). Con la importante precisazione, però, che la regola probatoria di cui all’art. 2051 cod. civ., più favorevole per il danneggiato, “in tanto può essere posta a fondamento dell’affermazione della responsabilità del convenuto stesso in quanto non gli si ascriva la mancata prova di fatti che egli non sarebbe stato tenuto a provare in base al criterio di imputazione ordinario della responsabilità originariamente invocato dall’attore” (così la sentenza n. 18609 del 2013).
7.2. Tali affermazioni, nitide al punto da non richiedere ulteriori spiegazioni, consentono di affrontare la prima delle tre contestazioni sopra riassunte, pervenendo a dichiararne l’infondatezza. La ricorrente, infatti, si limita ad affermare che la domanda da lei proposta in primo grado poteva essere inquadrata in entrambe le diverse fattispecie di responsabilità civile, ma non fornisce alcuna prova al riguardo, anche ai sensi dell’art. 366, primo comma, n. 6), del codice di procedura civile. Né nel primo né nel terzo motivo, infatti, è specificato quale fosse il tenore della domanda originaria, sicché questa Corte non è in condizioni di valutare se l’affermazione della Corte napoletana circa la novità della domanda di cui all’art. 2051 cod. civ. – del tutto corretta in linea di principio – sia da ritenere errata in relazione al caso concreto.
La censura relativa al profilo della novità della domanda è, pertanto, infondata.
8. Occorre, a questo punto, affrontare i profili di possibile violazione degli artt. 2043 e 2051 cod. civ. sopra riassunti. A questo proposito, è bene prendere le mosse dalle affermazioni contenute nella sentenza impugnata (già riportate nella parte in fatto) secondo cui dall’istruttoria è risultato che la V. , insieme ad altri pedoni, stava camminando in fila indiana su di una strada dissestata e che era caduta a causa di un tombino il cui coperchio era malfermo; non sussisteva, quindi, una situazione “oggettivamente pericolosa creata colposamente dalla P.A.”, in quanto l’appellante avrebbe potuto “facilmente evitare la prevedibile situazione di pericolo con l’adozione della più elementare accortezza”.
È bene ricordare che questa Corte, anche in relazione all’ipotesi di responsabilità gravante sul custode, ha affermato che il comportamento colposo del danneggiato può – secondo un ordine crescente di gravità – atteggiarsi come concorso causale colposo, valutabile ai sensi dell’art. 1227, primo comma, cod. civ., ovvero addirittura giungere ad escludere del tutto la responsabilità del custode (v. sentenza 12 luglio 2006, n. 15779). Si è riconosciuto, cioè, che nel concetto di caso fortuito può rientrare anche la condotta della stessa vittima, la quale può interrompere il nesso eziologico esistente tra la causa del danno e il danno stesso (v., fra le altre, le sentenze 22 aprile 2010, n. 9546, e 24 febbraio 2011, n. 4476). Tali principi valgono, a maggior ragione, ove il fondamento giuridico della responsabilità del danneggiante venga rinvenuto nell’art. 2043 cod. civ., come la Corte d’appello ha fatto nel caso di specie richiamando le figure dell’insidia e del trabocchetto.
Alla luce di queste premesse, la sentenza impugnata, pur contenendo qua e là alcune “imperfezioni”, resiste alle censure prospettate. Ed infatti, poiché la V. stava transitando su di una strada dissestata (fatto pacifico) – tanto dissestata, anzi, che i pedoni procedevano in fila indiana – è evidente che a suo carico gravava un onere massimo di attenzione. Ciò non può spingersi, come osserva non correttamente la sentenza impugnata, fino al punto di pretendere dall’utente la scelta di transitare per un’altra strada – essendo evidentemente nel potere-dovere del Comune chiudere il passaggio ove il medesimo sia impraticabile – ma comporta l’onere della massima prudenza in quanto la situazione di pericolo è altamente prevedibile. Ed è proprio il concetto di prevedibilità che toglie forza ai motivi di ricorso ora in esame: in una strada dissestata è del tutto ragionevole l’esistenza di un tombino malfermo e mobile, sicché la caduta in una situazione del genere può ricondursi anche alla esclusiva responsabilità del pedone, ovvero non si deve ritenere di necessità “cagionata dalla cosa in custodia” (per riprendere la formula dell’art. 2051 cod. civ.).
Dal che deriva, in conclusione, il rigetto del primo, terzo e quinto motivo di ricorso.
9. Gli ulteriori motivi di ricorso rivestono un’importanza marginale e sono infondati quando non addirittura inammissibili.
Ed infatti il secondo ed il quarto motivo, entrambi formulati in termini di vizio di motivazione – oltre a non contenere il prescritto momento si sintesi, necessario trattandosi di ricorso soggetto, ratione temporis, al regime dell’art. 366-bis cod. proc. civ. – si risolvono in un tentativo di ottenere da questa Corte una nuova valutazione del merito delle risultanze istruttorie, oltrepassando i limiti del giudizio di legittimità. Ciò è di tutta evidenza in relazione al secondo motivo; quanto al quarto, esso in realtà propone una censura che sembra piuttosto di violazione di legge che non di vizio di motivazione, e valgono al riguardo le osservazioni già fatte quanto ai motivi primo, terzo e quinto.
In riferimento al sesto motivo, infine, il Collegio osserva che – anche trascurando le ragioni di inammissibilità conseguenti alla genericità del quesito di diritto ed alla formulazione in modo tale che non è dato comprendere con certezza di quale c.t.u. si lamenti il mancato svolgimento – la decisione circa la necessità o l’opportunità di ammettere una consulenza tecnica spetta al giudice di merito; e comunque, ove si tratti della c.t.u. medica finalizzata all’accertamento dell’entità dei danni riportati dalla V. (v. ricorso, p. 2), è del tutto ovvio che la Corte d’appello, in presenza di una domanda risarcitoria infondata, abbia escluso l’ammissione di uno strumento processuale nella specie superfluo.
10. In conclusione, il ricorso è rigettato.
In considerazione delle modifiche, non sempre univoche, della giurisprudenza di questa Corte sull’argomento, si ritiene conforme ad equità compensare integralmente le spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa integralmente le spese del giudizio di cassazione.

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