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Sentenza – Sezioni Unite, regole, udienza preliminare e giudizio abbreviato

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Sentenza – Sezioni Unite, regole, udienza preliminare e giudizio abbreviato
Suprema Corte di Cassazione Sezioni Unite Penali
Sentenza 27 marzo – 15 maggio 2014, n. 20214
Presidente Santacroce – Relatore Relatore

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza del 17 aprile 2012 il Tribunale di Lecco riteneva F.M. responsabile del reato di cui agli articoli 81 cpv. cod. pen., 73, commi 1 e 1 bis d.P.R. n. 309 del 1990 perché con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, senza l’autorizzazione di cui all’articolo 17 e fuori dell’ipotesi dell’articolo 75 del predetto decreto, acquistava da B.L. e deteneva rilevanti quantitativi di sostanza stupefacente del tipo cocaina che in seguito cedeva a Z.M. e H.N. e a terze persone rimaste sconosciute che la utilizzavano alcuni per svolgere autonoma attività di spaccio, altri per uso personale, fatto commesso in varie località negli anni 2008 e 2009; concesse le attenuanti generiche, lo condannava alla pena di sei anni di reclusione e 40.000 Euro di multa.
Interposto appello dal difensore dell’imputato in punto di mancata concessione del rito abbreviato, di affermazione della responsabilità e di trattamento sanzionatorio, la Corte di appello di Milano, con sentenza del 2 novembre 2012, confermava integralmente la sentenza gravata.
2. Ha presentato ricorso per cassazione l’imputato per mezzo del proprio difensore, avv. Maria Elena Concarotti, formulando tre motivi.
Con il primo deduce erronea applicazione dell’articolo 438, commi 1 e 2, cod. proc. pen., per non avere la Corte territoriale concesso il recupero del rito abbreviato che era stato, si sostiene, tempestivamente e regolarmente richiesto. All’udienza preliminare celebrata il 19 dicembre 2011 il difensore dell’imputato, nel prendere la parola per formulare le conclusioni, aveva chiesto l’ammissione al rito abbreviato, richiesta rifiutata poiché considerata tardiva; la richiesta era stata reiterata prima dell’apertura del dibattimento di primo grado ed in quella sede nuovamente rigettata; infine la richiesta in oggetto era stata posta alla base dei motivi di appello ma il giudice di secondo grado aveva confermato quanto deciso dal Tribunale di Lecco e cioè che la richiesta era da considerare tardiva in quanto proposta dopo che nell’udienza preliminare aveva preso la parola il pubblico ministero per formulare le proprie conclusioni. Il difensore contesta tale decisione, richiamandosi alla prevalente giurisprudenza di legittimità (Sez. 1, n. 12887 del 2009 e n. 15982 del 2004) secondo cui la richiesta in questione può essere proposta fino al momento in cui il giudice dell’udienza preliminare dichiara chiusa la discussione.
Con un secondo motivo deduce mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione nella parte in cui si è ritenuto sussistere la penale responsabilità dell’imputato, laddove non vi sarebbe prova del comportamento addebitato.
Con il terzo motivo sostiene la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in punto di determinazione della pena, ritenuta eccessiva rispetto ai fatti commessi, non essendosi tenuto adeguato conto del comportamento tenuto dall’imputato, volto a chiarire i fatti, e del materiale probatorio disponibile. Dalla condotta accertata, anzi, poteva emergere al massimo una conoscenza dell’illecito traffico rientrante nell’ipotesi della connivenza non punibile, mentre il ritenuto concorso non è stato minimamente provato e motivato.
3. Con dichiarazione personale recante la data del 4 gennaio 2014, pervenuta alla Corte di cassazione il 10 successivo, il ricorrente dichiara di voler specificare che, come già precisato nell’interrogatorio reso durante le indagini preliminari, egli aveva solo tentato di intraprendere, senza peraltro riuscirvi, l’attività di spaccio di sostanze stupefacenti unicamente nella provincia di Bergamo dove risiedeva, e mai invece nelle province di Lecco o di Brescia; di essere pentito di tale comportamento avendone compreso il disvalore.
4. Il ricorso è stato assegnato alla Quarta Sezione penale, la quale, all’esito dell’udienza pubblica svoltasi il 16 gennaio 2014, ravvisando l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale in relazione alla individuazione del termine finale entro cui nell’udienza preliminare deve essere formulata la richiesta di giudizio abbreviato, ha rimesso il ricorso alle Sezioni Unite ai sensi dell’art. 618 cod. proc. pen..
Riferisce la sezione rimettente che in proposito si confrontano due opposti orientamenti, uno più risalente e numericamente prevalente (Sez. 1, n. 755 del 14/11/2002, Tinnirello, Rv. 223251; Sez. 1, n. 15982 del 23/03/2004, Marzocca, Rv. 227761; Sez. 1, n. 12887 del 19/02/2009, Iervasi, Rv. 243041), secondo cui l’espressione “fino a che non siano formulate le conclusioni a norma degli artt. 421 e 422” impiegata dall’allora vigente art. 439, comma 2, cod. proc. pen. per designare il momento preclusivo della richiesta di giudizio abbreviato in udienza preliminare è certamente idonea a ricomprendere l’intera fase della discussione prevista dal comma 2 dell’art. 421 fino al suo epilogo; l’altro, più restrittivo, sostenuto in realtà da un’unica articolata pronuncia (Sez. 3, n. 18820 del 31/03/2011, T., Rv. 250009) che consapevolmente si pone in contrasto con i precedenti contrari, ritiene che la richiesta di giudizio abbreviato nell’udienza preliminare può essere proposta sino al momento in cui il giudice conferisce la parola al pubblico ministero per la formulazione delle conclusioni.
5. Il Primo Presidente, con decreto del 12 febbraio 2014, ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione l’odierna udienza pubblica.

Considerato in diritto

1. Il quesito cui le Sezioni unite sono chiamate a rispondere è il seguente:
“Se può ritenersi tempestiva la richiesta di giudizio abbreviato, proposta nel corso dell’udienza preliminare, prima che il giudice dichiari chiusa la discussione ma dopo le conclusioni del pubblico ministero”.
2. In proposito sussiste effettivamente un contrasto di giurisprudenza, atteso che secondo un primo orientamento, che l’ordinanza di rimessione definisce “più risalente, ma prevalente”, la risposta deve essere positiva, come affermato a partire dalla sentenza Sez. 1, n. 755 del 14/11/2002, Tinnirello, Rv. 223251, secondo la quale l’espressione “fino a che non siano formulate le conclusioni a norma degli artt. 421 e 422” impiegata dall’allora vigente art. 439, comma 2, cod. proc. pen. (riprodotta nel testo dell’articolo 438, comma 2, cod. proc. pen. come sostituito dall’art. 27 legge 16 dicembre 1999, n.479) per designare il momento preclusivo della richiesta di giudizio abbreviato in udienza preliminare è “certamente idonea a ricomprendere l’intera fase della discussione prevista dal comma 2 dell’art. 421 fino al suo epilogo”.
A sostegno di tale soluzione si è rilevato che il legislatore, quando ha voluto collegare delle decadenze al momento iniziale della discussione lo ha detto chiaramente, adottando le opportune, diverse, espressioni come nei casi della formulazione della richiesta di oblazione nelle contravvenzioni punite con pene alternative (art. 162-bis, comma quinto, cod. pen.) e della rinuncia all’impugnazione da parte del pubblico ministero e delle parti private (art. 589, commi 1 e 3, cod. proc. pen.); si è richiamata inoltre la ratio deflazionistica del giudizio abbreviato che induce ad una interpretazione lata delle norme che ne regolano l’accesso.
Si allineano alla sentenza Tinnirello, come ricorda la ordinanza di remissione, due pronunce risolutive dei conflitti di competenza sollevate da giudici dibattimentali, investiti del giudizio a seguito della declaratoria di inammissibilità di richieste di rito abbreviato, reputate intempestive dal giudice dell’udienza preliminare. Nel primo caso (Sez. 1, n. 15982 del 23/03/2004, Marzocca,i Rv. 227761) tali richieste erano state considerate tardive perché presentate dopo che il pubblico ministero aveva preso le proprie conclusioni; e la Corte ha ritenuto invece che la richiesta fosse tempestiva in quanto l’espressione utilizzata dall’art. 438 “si riferisce all’intera fase della discussione fino al suo epilogo, di guisa che il termine finale per la rituale proposizione della richiesta è rappresentato dal momento in cui si esaurisce tale discussione”. Nel secondo (Sez. 1, n. 12887 del 19/02/2009, Iervasi, Rv. 243041) la tardività era collegata al fatto che la richiesta di giudizio abbreviato era stata presentata per la prima volta nell’udienza successiva all’attività di integrazione probatoria disposta dal giudice ex art. 421-bis cod. proc. pen.; e la Corte ha chiarito che la richiesta può essere presentata fino al momento in cui viene dichiarata chiusa la discussione e quindi anche dopo l’eventuale emissione dei provvedimenti di integrazione delle indagini o delle prove, che non possono che precedere la chiusura della discussione. Nello stesso senso dell’ultima pronuncia si era già espressa, sia pure incidentalmente, Sez. 5, n. 6777 del 09/02/2006, Paolone, Rv. 233829, che, nel giudicare erronea la sentenza della corte territoriale nella parte in cui aveva ritenuto inutilizzabili la consulenza di parte e i documenti prodotti dall’imputato nel corso dell’udienza preliminare anteriormente alla richiesta di ammissione al giudizio abbreviato, rammenta che tale richiesta “può essere presentata anche dopo l’eventuale integrazione istruttoria disposta dal giudice dell’udienza preliminare ai sensi degli artt. 421-bis o 422 cod. proc. pen.”.
In senso diametralmente e consapevolmente opposto si è invece espressa Sez. 3, n. 18820 del 31/03/2011, T., Rv. 250009, che, in un caso in cui la richiesta di giudizio abbreviato era stata avanzata dopo che la discussione era già stata avviata e dopo che il p.m. ed alcuni difensori avevano già formulato richieste conclusive, ha reputato corretta la decisione dei giudici di merito che avevano ritenuto tardiva la richiesta, affermando il principio secondo cui quest’ultima “nell’udienza preliminare può essere proposta sino al momento in cui il giudice conferisca la parola al p.m. per la formulazione delle conclusioni”.
A fondamento dell’opposta ricostruzione la pronuncia in esame postula anzitutto l’intenzione del legislatore di individuare anche all’interno dell’udienza preliminare, pur nella sua apparente informalità se raffrontata all’udienza dibattimentale, diverse fasi che in parte evocano la struttura di quest’ultima. È così possibile individuare “un momento iniziale di costituzione delle parti (art. 420), un momento di discussione (nel corso del quale il p.m. illustra le ragioni a sostegno della propria richiesta di rinvio a giudizio ed i difensori quelle opposte) ed un momento di conclusioni (in cui il pubblico ministero, prima, ed i difensori, poi, rassegnano le rispettive richieste finali)”; la scansione risponde all’esigenza, avvertita dal legislatore, “di dare ordine ad un rito (l’udienza preliminare) che non può, e non deve, risolversi in una generica ed informale discussione produttrice di confusione e di probabili iniquità” ed è altresì funzionale rispetto all’esigenza di individuare termini certi per le attività che comportano decadenze (costituzione di parte civile e richiesta di ammissione al rito abbreviato). È dunque necessario – prosegue la sentenza in esame – individuare senza equivoci il termine descritto con l’espressione “fino a che non siano formulate le conclusioni a norma degli artt.421 e 422”. L’ampio orientamento espresso dai precedenti della Corte, nel far riferimento al momento in cui si esaurisce la discussione con la formulazione delle conclusioni di tutte le parti ingenera il dubbio che tale momento vada a coincidere con quello in cui il giudice dichiara chiusa la discussione e si ritira in camera di consiglio per decidere. Ma, osserva la sentenza, se tale fosse stato l’intento del legislatore, “non ci sarebbe stato alcun motivo di usare questa espressione composita ed apparentemente ambigua ma si sarebbe piuttosto detto, come fatto chiaramente nell’art.421, comma 4, che la facoltà di richiedere il rito abbreviato avrebbe potuto, e dovuto, essere esercitata prima che il giudice dichiari chiusa la discussione; se ciò non è avvenuto, è perché, evidentemente, si è inteso […] individuare un termine diverso ed un po’ anticipato rispetto a quello della fine della discussione”. La disposizione in esame è, in realtà, prosegue la sentenza, “decisamente chiara” e risponde a precise esigenze di trasparenza sulle modalità di svolgimento del rito ed anche di par condicio (quando, ad esempio, si tratti di procedimento con più imputati). In tale ultima situazione, infatti, “considerata la possibilità, tutt’altro che remota, che vi siano imputati in posizioni differenti (sì che le scelte difensive dell’uno possono riverberare sull’altro) deve essere necessario che tutti siano posti nelle medesime condizioni e che quindi, per tutti, il termine-sbarramento, entro cui rappresentare le proprie strategie processuali, sia il medesimo. Ciò può avvenire solo se la lettura dell’art. 421, comma 2, sia quella che lo stesso tenore della norma suggerisce (tanto più se raffrontato al diverso linguaggio normativo nell’art. 421, comma 4) e cioè, che la linea di confine è data dal momento in cui il g.u.p. concede la parola al p.m. per formulare le conclusioni a norma degli artt. 421 e 422”. Diversamente opinando, si potrebbero ingenerare ulteriori motivi di confusione e di disparità di trattamento a seconda che l’espressione “formulazione delle conclusioni di tutte le parti” venga intesa separatamente (vale a dire per ciascun imputato) ovvero, per tutti gli imputati. Potrebbe, infatti, darsi il caso (soprattutto per procedimenti con più imputati) in cui, ad un’udienza preliminare completa, dove tutti abbiano concluso, in limine della camera di consiglio, uno o più imputati improvvisamente cambino opinione e riaprano interamente il discorso formulando una richiesta di rito abbreviato, cui potrebbe accodarsi anche qualche altro imputato. Ma potrebbe anche verificarsi l’ipotesi in cui, invece, si voglia ritenere ancora aperta la possibilità di chiedere il rito abbreviato solo a “quell’imputato per il quale il difensore non abbia ancora concluso”; in tal caso, però, si scivolerebbe su un piano di palese disparità di trattamento tra imputati essendo evidente che, poiché le discussioni difensive non possono essere simultanee, la scansione dei tempi di discussione (talvolta, necessariamente ripartita in giorni diversi) non avrebbe più – come è sempre stato – un obiettivo meramente pratico di pianificare gli interventi ma potrebbe diventare esso stesso strumento per nuove strategie difensive alla luce delle conclusioni che vengano, via via, rassegnate da altri. Il tutto, all’evidenza, finirebbe per delineare uno scenario sempre più confuso in cui il termine per accedere al rito abbreviato (scelta processuale di non poca rilevanza) non sarebbe più lo stesso per tutti i coimputati ma risulterebbe legato a profili arbitrari, casuali ed (eventualmente) ad astuzie difensive.
Di recente si è poi espressa in favore dell’orientamento maggioritario, sia pure soltanto in via di obiter, Sez. 1, n. 348 del 18/12/2013, Di Paolo, osservando che in presenza di un dettato normativo che introduce una preclusione, l’interpretazione – anche al fine di non ledere l’aspettativa all’esercizio della relativa facoltà – non può determinare l’anticipazione della scadenza del termine rispetto all’ordinario significato dei termini utilizzati dal legislatore.
3. Per addivenire alla soluzione della questione è opportuno richiamare brevemente le linee fondamentali del giudizio abbreviato.
Come noto, si tratta di un procedimento introdotto nel vigente codice che rientra nel novero delle procedure semplificate alternative al dibattimento aventi finalità deflative, volte cioè a consentire la definizione con forme più agili e veloci di gran parte del contenzioso, consentendo in tal modo di rendere concretamente attuabile, nel sistema di obbligatorietà dell’azione penale che caratterizza il nostro ordinamento, la operatività del modello di processo accusatorio più garantista e correlativamente più complesso.
La sua utilizzazione non ha avuto all’inizio i risultati sperati anche perché l’istituto non era privo di incongruenze e criticità che ne ostacolavano un buon funzionamento. Numerose pronunce della Corte costituzionale, l’intervento del legislatore (legge 16 dicembre 1999, n. 479, c.d. legge Carotti) e successivi ulteriori arresti del giudice delle leggi ne hanno ridisegnato i contorni in termini assolutamente innovativi rispetto all’impianto originario, con il risultato di configurare, sempre nel contemperamento degli obiettivi di deflazione e garanzia, un vero e proprio diritto potestativo dell’imputato inserito nel contesto di un’udienza preliminare anch’essa rinnovata negli strumenti probatori a disposizione del giudice. Si è così pervenuti all’attuale assetto normativo caratterizzato dalla contemporanea presenza di un giudizio abbreviato “non condizionato”, la cui ammissibilità non necessita del consenso del pubblico ministero e del vaglio discrezionale del giudice, cui è tuttavia riservato un potere di integrazione probatoria ex officio; e di un abbreviato “condizionato”, in cui la richiesta è invece condizionata appunto ad una integrazione probatoria che il giudice deve vagliare sotto i profili della necessarietà ai fini della decisione e della compatibilità con le finalità di economia processuale.
4. In questo quadro, i cui dettagli non è necessario approfondire, non essendo gli stessi rilevanti ai fini che ne occupano, si inserisce la questione della individuazione del termine finale entro cui, nel corso dell’udienza preliminare, può essere formulata la richiesta di ammissione al giudizio abbreviato; questione la cui rilevanza è evidente ove si consideri che in caso di richiesta presentata tardivamente si verifica la definitiva preclusione per l’imputato dei benefici del rito, secondo gli schemi della decadenza.
Punto di partenza è la norma di legge di riferimento e cioè il comma 2 dell’articolo 438 cod. proc. pen., secondo cui nell’udienza preliminare la richiesta di giudizio abbreviato può essere proposta, oralmente o per iscritto, “fino a che non siano formulate le conclusioni a norma degli articoli 421 e 422”; disposizione del tutto coincidente con quella precedente alla novella del 1999, contenuta nell’allora vigente articolo 439, comma 2.
La formula, pur nell’apparente semplicità, si è prestata a differenti interpretazioni atteso che, sul mero piano letterale, essa può comprendere e pertanto riferirsi all’intero periodo che va dal momento immediatamente antecedente la formulazione delle prime conclusioni, quelle del p.m., fino all’ultimo momento in cui termina la discussione e si cristallizzano le conclusioni rassegnate da tutte le parti, cioè quello della replica da parte del difensore che parla per ultimo. Per pervenire ad una corretta interpretazione é dunque necessaria una complessiva valutazione delle esigenze sottese alla disposizione e del contesto in cui la stessa si inserisce.
Le ipotesi messe in campo dalla giurisprudenza e approfondite dalla dottrina sono sostanzialmente tre, confrontandosi una tesi restrittiva, ispirata alla ritenuta esigenza di garantire una ordinata gestione dell’udienza preliminare, secondo cui la richiesta deve intervenire prima che venga conferita la parola al pubblico ministero e basata sulla convinzione che l’espressione usata dal legislatore sia atta ad indicare l’esordio della discussione; una intermedia, che ritiene indispensabile la conoscenza della posizione assunta dal pubblico ministero e pertanto delle sue conclusioni e riferisce il termine al momento della formulazione delle conclusioni da parte del difensore del singolo imputato; ed una terza, che allarga ulteriormente lo spazio, per consentire la massima osservanza al favor nei confronti delle potenzialità deflazionistiche del rito alternativo e di tenere conto delle posizioni espresse da tutti gli imputati e in particolare dell’evenienza rappresentata dalla possibile costituzione di un contumace dopo l’intervento di una o alcuna delle altre difese, e fa coincidere il termine con il momento in cui si esaurisce la discussione con la formulazione delle conclusioni di tutte le parti e, in particolare, nei processi soggettivamente cumulativi, dei difensori di tutti gli imputati.
5. È opportuno preliminarmente chiarire che vanno tenuti distinti i due piani relativi, da un lato, alla corretta individuazione del termine di cui si discute e, dall’altro, agli accertamenti probatori consentiti nell’udienza preliminare e che precedono la richiesta.
È da considerare pacifico, nonostante un risalente precedente contrario (relativo peraltro ad un procedimento celebrato prima della legge Carotti) che la richiesta di giudizio abbreviato può essere formulata anche per la prima volta a seguito dell’attività di integrazione probatoria svolta dal giudice nell’udienza preliminare. Da tempo è stato invero opportunamente chiarito che già nel vigore del testo originario del codice ben erano consentite sia ai fini della richiesta di rinvio a giudizio sia ai fini di un eventuale pronuncia di sentenza di non luogo a procedere integrazioni probatorie nel corso dell’udienza preliminare ove il giudice ritenesse di non poter decidere allo stato degli atti, e che le stesse, se svolte prima della richiesta del giudizio abbreviato, erano pienamente utilizzabili anche in tale prospettiva, potendo addirittura giustificare la presentazione di una richiesta in precedenza non formulata dall’imputato che poteva aver ritenuto opportuno “accettare il rischio” che il giudice dichiarasse chiusa la discussione e precludesse così definitivamente l’accesso al giudizio abbreviato.
L’integrazione istruttoria è seguita, come è logico, atteso il mutato quadro di riferimento che ne consegue, da una nuova discussione nel corso della quale le parti sono legittimate a formulare conclusioni che ben possono essere diverse da quelle precedenti; secondo una schema che può, in ipotesi, ripetersi anche più volte. Tale conclusione è conforme al chiaro dettato dell’art. 438 cod. proc. pen., che sia al comma 2 (non modificato sul punto) che al comma 6 (introdotto dalla legge Carotti) richiama gli artt. 421 e 422 e dunque evidentemente anche il terzo periodo del comma 3 dell’art. 422, dove è stabilito che a seguito dell’attività di integrazione probatoria, il pubblico ministero ed i difensori “formulano e illustrano le rispettive conclusioni”. Il meccanismo risulta oggi tanto più razionale dopo che la Corte costituzionale (sentenza n.77 del 1994) ha reso praticabile l’incidente probatorio anche nell’udienza preliminare, e dopo che la legge Carotti ha notevolmente ampliato il campo dell’integrazione probatoria in essa assumibile, attribuendo esplicitamente al giudice un potere di iniziativa ex officio, e sono stati definitivamente chiariti i caratteri del giudizio abbreviato nel senso che la funzione acceleratoria del medesimo si esprime con riguardo alla esclusione della fase del dibattimento e non rispetto alla celebrazione più o meno dilatata dell’udienza preliminare (v. Corte cost. sent. n.115 del 2001). Né può trarsi elemento in contrario dal fatto che il testo dell’art. 438, comma 2, è rimasto invariato dopo la riforma del 1999, non essendosi provveduto a inserire in esso il richiamo anche all’art. 421 bis, dovendosi ritenere, come già è stato affermato (Sez. 1, n. 12887 del 19/02/2009, Iervasi, Rv. 243041, alla quale è conforme la dottrina unanime) che si tratta di una mera svista redazionale da parte del legislatore del 1999, che non implica la volontà di escludere la rilevanza della eventuale fase di integrazione delle indagini ai fini della possibilità di chiedere il giudizio abbreviato; una diversa conclusione sarebbe peraltro assurda atteso che con l’art. 421-bis il legislatore ha in realtà recepito il contenuto del precedente art. 422, comma 1, dando ad esso una più razionale e puntuale disciplina.
6. Tale puntualizzazione non risolve tuttavia la specifica questione sulla quale le Sezioni Unite sono state chiamate a pronunciarsi: ritenere tempestiva la domanda di giudizio abbreviato presentata per la prima volta dopo l’integrazione ex artt. 421-bis o 422 cod. proc. pen. non significa aver risolto la questione della individuazione dell’esatto ambito temporale in cui nell’udienza preliminare, prima o dopo la integrazione probatoria o investigativa, si verifica la scadenza del termine per la presentazione del giudizio abbreviato.
Nell’affrontare la questione devono essere tenute presenti anche le ragioni sistematiche collegate al complessivo impianto codicistico.
Le norme processuali sono, in via generale, scritte con riferimento all’ipotesi del procedimento che riguarda un singolo imputato, parte del rapporto con lo Stato, che con il processo assicura a lui, e nei procedimenti cumulativi a ciascuno e a tutti gli imputati, il miglior sistema di garanzie per accertare fatti e responsabilità; non assumono di norma rilevanza ai fini strettamente processuali i rapporti tra i vari imputati se non nei limiti in cui ciò è espressamente previsto. Anche nel disciplinare i procedimenti deflativi del dibattimento il legislatore del 1988, al pari di quello della novella del 1999, ha avuto come riferimento solo il caso che a chiedere la semplificazione delle forme processuali sia un singolo imputato.
È inoltre opportuno richiamare l’attenzione sul fatto che lo svolgimento ordinario dell’udienza preliminare vede susseguirsi, secondo quanto risulta dal dettato normativo, diversi momenti, tra loro concettualmente distinti e separati, se pur nella pratica a volte ciò possa risultare meno evidente. Si possono distinguere la costituzione delle parti, l’ammissione di atti e documenti, la eventuale modifica dell’imputazione, le eventuali dichiarazioni spontanee o l’interrogatorio dell’imputato, l’esposizione dei difensori delle parti private, la replica per una sola volta del pubblico ministero e dei difensori, la decisione del giudice, che può essere definitiva o interlocutoria, quest’ultima ove il giudice ritenga necessaria l’attività di integrazione probatoria o investigativa; in tal caso si terrà una nuova udienza preliminare con nuova discussione. Alla necessità di fare attenzione a tale scansione si è richiamata la Corte costituzionale, sia pure con riferimento ad una diversa questione (sent. n.117 del 2011 relativa alla posizione del pubblico ministero a seguito del deposito del fascicolo delle investigazioni difensive); e l’esigenza di rispettare un ordine nell’udienza preliminare è stata sottolineata dalla sentenza n.18820 del 2011 della Terza Sezione, di cui sopra si è riferito.
7. Tanto premesso ritiene il Collegio che il richiamo alle conclusioni contenuto nell’art. 438 debba essere inteso con riferimento alla definitiva formulazione delle conclusioni di ogni singola parte.
Una tale affermazione non solo non contrasta con il tenore letterale della norma e con le potenzialità deflative del rito ma appare anche maggiormente rispettosa dell’impianto sistematico del codice nonché del diritto di difesa dell’imputato.
Deve infatti escludersi che possa essere considerato momento preclusivo quello della formulazione delle conclusioni da parte del pubblico ministero; e ciò non solo e non tanto per il raffronto con altre disposizioni del codice in cui il legislatore non ha avuto difficoltà a specificare il diverso momento cui intendeva riferirsi; quanto e soprattutto per ragioni di ordine sostanziale che, specialmente dopo le modifiche introdotte con la citata legge del 1999, rendono imprescindibile l’esigenza che l’imputato abbia conoscenza delle conclusioni del pubblico ministero, il quale può tra l’altro anche modificare l’imputazione a norma dell’art. 423, prima di formulare o meno la richiesta del rito abbreviato. Le richieste finali dell’accusa assumono infatti un evidente rilievo ai fini della decisione dell’imputato di avanzare o meno la richiesta di giudizio abbreviato.
Una conferma si rinviene dall’esame dei lavori parlamentari relativi all’approvazione della legge Carotti, da cui risulta che nel corso della seconda lettura del testo in esame da parte della Camera dei Deputati è stata abbandonata l’originaria espressione “appena concluse le formalità di apertura del dibattimento”, sostituendola con quella attuale.
Deve altresì escludersi la tesi secondo cui momento finale, unico per tutti gli imputati, sarebbe quello in cui l’ultimo difensore prende la parola. Tale soluzione viene sostenuta con il richiamo alla opportunità di dare il massimo spazio possibile alle potenzialità deflative del rito e alla necessità di evitare disparità tra gli imputati, osservandosi che il soggetto il cui difensore interloquisce per primo avrebbe una conoscenza più limitata rispetto a quello il cui difensore interviene per ultimo, potendo questi ad esempio usufruire delle dichiarazioni o degli interrogatori di contumaci che decidessero, per scelta o perché prima impossibilitati, di presentarsi dopo gli interventi di una o di alcune delle difese.
L’osservazione non può essere condivisa. La conoscenza delle conclusioni degli altri imputati non è elemento cui può fondatamente riconoscersi l’efficacia di influenzare le scelte di ciascun imputato. La pretesa esigenza di parità pare impropriamente invocata, atteso che ciò che deve essere assicurato, trovando anche tutela costituzionale, è la parità tra le parti contrapposte del processo, e cioè tra accusa e difesa. Agli imputati devono invece essere garantiti uguali diritti e uguali opportunità, il che certamente avviene quando, rispettando le scansioni dell’udienza preliminare e l’ordine dei relativi interventi, agli stessi si riconosce il diritto di richiedere l’accesso al rito dopo le conclusioni del pubblico ministero.
La necessità di tenere conto delle dichiarazioni del coimputato contumace, costituitosi a discussione già iniziata non può indurre ad accogliere una soluzione che si allontana dal modello fornito dal legislatore con le scansioni dell’udienza preliminare, finendo a spostare il termine in questione al momento in cui il giudice dichiara chiusa la discussione; ma precisazione delle conclusioni e dichiarazione di chiusura della discussione sono momenti letteralmente e concettualmente distinti, costituendo il primo atto di parte e il secondo atto del giudice, e non può essere ignorata la volontà del legislatore espressa con il riferimento letterale alle conclusioni. Peraltro l’eventualità della costituzione tardiva del contumace laddove la stessa si risolva nella introduzione nel processo di elementi nuovi, rilevanti anche per altri imputati, è situazione di cui, ove si verifichi, il giudice potrà eventualmente tenere conto o in sede di replica o autorizzando nuove conclusioni, analogamente a quanto è espressamente previsto dopo le integrazioni investigative e istruttorie.
8. Deve pertanto essere formulato il seguente principio di diritto:
“Nell’udienza preliminare la richiesta di giudizio abbreviato può essere presentata dopo la formulazione delle conclusioni da parte del pubblico ministero e deve essere formulata da ciascun imputato al più tardi nel momento in cui il proprio difensore formula le proprie conclusioni definitive”.
9. I motivi di ricorso attinenti la responsabilità e il trattamento sanzionatorio sono infondati.
9.1. Sostiene la difesa che la ritenuta responsabilità si basa soltanto sul contenuto di una serie di intercettazioni telefoniche relative a una utenza cellulare dell’imputato da cui unico elemento certo desumibile sarebbe l’esistenza di contatti tra il ricorrente e B.L. , Z.M. e H.N. ; contatti dai quali sarebbe stata fatta discendere del tutto arbitrariamente la sua partecipazione alla rete di spaccio debellata con l’operazione “(OMISSIS) “; ma le intercettazioni di cui si discute riguarderebbero conversazioni che non provano nulla ovvero conversazioni in cui non è dimostrato che si parli del F. , ovvero ancora conversazioni da cui non può in alcun modo discendere prova della sua responsabilità o che al più possono attestare una eventuale disponibilità di stupefacente da parte del F. in epoche pregresse ma irrilevanti ai fini della prova dei reati di cui è processo, perché nelle stesse l’interessato afferma chiaramente di non avere nulla. Neppure la responsabilità potrebbe essere desunta dal fatto che dopo l’arresto della B. egli abbia parlato dell’avvenimento con altre persone, dimostrando ciò solo un comprensibile interessamento alle sorti della donna, ma non una sua responsabilità in merito al possesso e alla cessione di sostanze stupefacenti. Evidenzia ancora il ricorrente che non sono mai stati effettuati sequestri di stupefacenti a suo carico e nemmeno esistono sommarie informazioni che lo chiamano direttamente in causa, e che anche il possesso della somma di Euro 1.490 è privo di significato in mancanza di qualsiasi considerazione volta ad escludere che tale somma possa essere stata legittimamente posseduta dal ricorrente che in quel periodo lavorava.
9.2. Rileva il Collegio che tali doglianze mostrano chiaramente la loro natura di contestazioni non consentite, non essendo dalle stesse evidenziata una illogicità manifesta della giustificazione che i giudici di merito hanno fornito in ordine alla ritenuta responsabilità.
Ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., i vizi della motivazione (anche il travisamento dei fatti deducibile sotto questo profilo) devono risultare “dal testo del provvedimento impugnato”, mentre non possono derivare da un controllo della Corte di cassazione sulla interpretazione e valutazione delle prove, che è compito del giudice di merito. Pur dopo le modifiche introdotte in tale disposizione dalla legge 20 febbraio 2006, n. 46, non è consentito sollecitare alla Corte di cassazione una rilettura degli elementi di fatto, atteso che tale valutazione è riservata in via esclusiva al giudice del merito; essendo il sindacato della Cassazione limitato alla sola legittimità, sì che esula dai poteri della stessa quello di una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione.
Nella specie, le censure sopra riferite non attengono, come imposto dalla legge, a manifeste carenze o illogicità della motivazione, rese immediatamente palesi dalla lettura della sentenza impugnata, ma si risolvono nella possibile diversa interpretazione degli elementi probatori senza tenere conto in particolare che già dalla sentenza di primo grado sono state dettagliatamente riportate le conversazioni intercettate e indicate le ragioni, poi confermate dal giudice di appello, per le quali si è ritenuta provata, senza possibilità di dubbio o equivoci, l’attivo interessamento dell’imputato nei diversi episodi di cessione di sostanze stupefacenti, tanto da trovare solida base il ritenuto concorso in una consolidata attività di vendita di stupefacente a varie persone; attività che è stata peraltro dallo stesso imputato sostanzialmente ammessa nell’interrogatorio reso il 10 dicembre 2011 al pubblico ministero, il cui contenuto, in questa sede, si vorrebbe sminuire.
9.3. Del tutto generica è la censura attinente alla quantificazione della pena, la cui determinazione nella misura base di sei anni e sei mesi di reclusione e 40.000 Euro di multa, assai prossima all’allora minimo edittale, risulta sufficientemente motivata dai giudici di merito.
10. La pena deve però essere ricalcolata, con la considerazione della riduzione di un terzo prevista dall’art. 442 cod. proc. pen..
Nel codice sussiste una evidente lacuna circa i rimedi che l’ordinamento dovrebbe apprestare all’imputato a fronte dell’ordinanza negativa del giudice, se ingiustificata o illegittima, pur essendo la stessa idonea a pregiudicare non solo l’accesso al rito alternativo ma anche l’aspettativa di una riduzione premiale della pena; lacuna che è stata superata, con specifico riferimento all’abbreviato condizionato, attraverso un intervento additivo della Corte costituzionale, che con la sentenza n. 169 del 2003 ha consentito all’imputato di rinnovare la richiesta prima della dichiarazione di apertura del dibattimento; cui ha fatto seguito la sentenza Sez. U, n. 44711 del 27/10/2004, Wajib, che ha riconosciuto all’imputato il diritto al “recupero” della riduzione di pena anche quando, all’esito del dibattimento o nei successivi gradi di giudizio, si riconosca che il diniego al rito era stato ingiustificato.
Ritiene il Collegio, come peraltro questa Corte ha già avuto modo di stabilire (Sez. 6, n. 14454 del 15/03/2013, Lomazzi, Rv. 254542; Sez. 5, n. 7127 del 01/12/2011, dep. 2012, Aracri, Rv. 251946), che un analogo meccanismo di recupero dello sconto di pena possa valere per il caso dell’abbreviato puro, stante l’analogia della situazione sostanziale che viene in rilievo e la minor complessità del vaglio di ammissibilità rimesso al giudice che riguarda solo la valutazione dei presupposti formali di legittimazione e tempestività della domanda.
Nella specie, la richiesta di ammissione al rito abbreviato, formulata dal difensore dell’imputato all’atto delle formulazioni delle proprie conclusioni, dopo che erano state già raccolte quelle del pubblico ministero, non poteva essere considerata tardiva; la stessa è stata reiterata prima dell’apertura del dibattimento di primo grado ed in quella sede nuovamente rigettata; infine la richiesta in oggetto è stata posta alla base dei motivi di appello, ma il giudice di secondo grado ha confermato quanto deciso dal Tribunale di Lecco.
11. In conclusione la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio relativamente alla misura della pena; la quale, trattandosi di mero calcolo matematico, può essere rideterminata in questa sede ex art. 620, comma 1, lett. l), cod. proc. pen., in quella di quattro anni di reclusione e 26.666 Euro di multa.
Il ricorso nel resto è da rigettare.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata relativamente alla misura della pena, che ridetermina in anni quattro di reclusione e 26.666 Euro di multa.
Rigetta nel resto il ricorso.

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