In evidenza

Sentenza, Testamento olografo, valutazione prove, processi civili e penali

Signing testament

 

Sentenza, Testamento olografo, valutazione prove, processi civili e penali
Suprema Corte di Cassazione II Sezione Civile
Sentenza 22 ottobre 2013 – 14 maggio 2014, n. 10599
Presidente Triola – Relatore Petitti

Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato il 26 luglio 1995, M.E. conveniva in giudizio, dinnanzi al Tribunale di Roma, U.M.D. , esponendo che era figlia naturale riconosciuta di P.A. , deceduto in (omissis) ; che il riconoscimento era avvenuto con testamento olografo, di cui però non poteva esibire copia per essere deceduto il legale presso il quale la scheda testamentaria era stata depositata, sicché aveva dovuto proporre azione di riconoscimento di paternità; che il padre naturale aveva avuto dal suo matrimonio la figlia legittima P.E. , deceduta il (omissis) , la quale aveva lasciato superstiti la sorella naturale, nonché C.R. e C.L. , parenti in linea collaterale di quarto grado; che P.E. , con testamento olografo, aveva nominato sua unica erede universale U.M.D. , convivente more uxorio di C.L. ; che il testamento olografo era falso. Tanto premesso, l’attrice chiedeva che, una volta accertato il suo stato di figlia di P.A. , fosse dichiarata la falsità del testamento di P.E. e che le fosse riconosciuta la qualità di unica erede legittima della stessa, con conseguente condanna della U. al rilascio dei beni contenuti nell’asse ereditario.
Costituitosi il contraddittorio la U. contestava che l’attrice fosse figlia naturale di P.A. e chiedeva il rigetto della domanda.
In attesa della sentenza del Tribunale di Bologna sulla domanda di riconoscimento di paternità, il giudizio veniva sospeso per essere poi riassunto da M.E. a seguito del rinvenimento della scheda testamentaria, per effetto del quale la medesima aveva rinunciato al giudizio di riconoscimento di paternità.
Costituitosi il contraddittorio in sede di riassunzione, la U. disconosceva il testamento del P. .
Istruita la causa anche con espletamento di accertamenti tecnici, l’adito Tribunale, con sentenza del marzo 2002, rigettava la domanda della M. .
Avverso questa sentenza P.E. (già M.E. ), proponeva appello. Ricostituitosi il contraddittorio, la Corte d’appello di Roma, con sentenza depositata il 17 ottobre 2006, rigettava l’appello.
Disattese le eccezioni proposte dalla convenuta in ordine alla qualità di figlia di P.A. in capo all’appellante, la Corte d’appello, per quanto in questa sede rileva, rigettava il quarto motivo di gravame, concernente l’accertamento della non autenticità del testamento olografo di P.E. . In proposito, la Corte d’appello rilevava che la sentenza emessa dal Tribunale di Roma, con la quale era stata accertata la responsabilità penale della U. e di C.R. per avere, in concorso tra loro, redatto o fatto redigere il falso testamento olografo riferibile a P.E. , datato 7 luglio 1994, chiedendone la pubblicazione, e gli stessi erano stati condannati alla pena di dieci mesi di reclusione e al risarcimento del danno in favore delle costituite parti civili, non era divenuta definitiva, in quanto la Corte d’appello di Roma, con sentenza del 16 aprile 2003 aveva dichiarato non doversi procedere nei confronti degli imputati per essere il reato loro ascritto estinto per prescrizione, pur confermando le statuizioni civili, e la Corte di cassazione, con sentenza dell’aprile 2005, aveva poi annullato la pronuncia di appello con riferimento al capo delle statuizioni civili; sicché non poteva ritenersi intervenuta alcuna pronuncia del giudice penale vincolante per il giudice civile ai sensi dell’art. 654 cod. proc. pen..
Né, proseguiva la Corte distrettuale, poteva essere utilizzato l’accertamento eseguito in sede penale, atteso che la consulenza tecnica disposta dal P.M. non aveva lo stesso valore di una perizia, non essendo assoggettata alla disciplina degli accertamenti irripetibili.
La Corte riteneva poi che non potesse avere efficacia probatoria neanche la perizia giurata allegata all’atto di citazione, trattandosi di una mera consulenza di parte, e che la consulenza tecnica effettuata dalla dott.ssa Pi.Id. in una causa civile vertente tra C.L. e U.M.D. non potesse essere utilizzata, in quanto il giudizio civile in cui era stata eseguita era stato abbandonato e la relazione di consulenza tecnica d’ufficio si sostanziava in un documento, soggetto alle regole di produzione dei documenti; e nella specie, la detta c.t.u. era stata prodotta in sede di precisazione delle conclusioni e quindi tardivamente.
La Corte rilevava quindi che l’unica c.t.u. della quale si poteva tenere conto era quella espletata in primo grado, la quale aveva accertato l’autenticità del testamento olografo impugnato sulla base di considerazioni tecniche immuni da errori logici o scientifici. Da qui la conclusione che l’appellante, in quanto esclusa dai diritti dei legittimari, non poteva partecipare alla successione della sorella, regolata per intero dal testamento del quale doveva ritenersi accertata la autenticità.
Per la cassazione di questa sentenza ha proposto ricorso P.E. (già M. ) sulla base di quattro motivi; ha resistito con controricorso U.M.D. , la quale ha anche depositato memoria in prossimità dell’udienza di discussione.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 61, 121, 156, 184 cod. proc. civ., in relazione all’art. 2699 cod. civ., dolendosi del fatto che la Corte d’appello, da un lato, abbia ritenuto che la consulenza tecnica d’ufficio (e segnatamente quella eseguita nel diverso processo civile) non sia un mezzo di prova, e dall’altro, ne abbia ritenuto la assoggettabilità alla disciplina propria dei documenti, che sono invece mezzi di prova.
A conclusione del motivo la ricorrente formula il seguente quesito di diritto: “la c.t.u., anche ove svolta in distinto giudizio e prodotta in altro, avente ad oggetto il medesimo accertamento, non costituisce mezzo di prova e documento, bensì mezzo di valutazione della prova, ai sensi degli artt. 61 e segg. c.p.c. e 191 e segg. c.p.c., nonché atto processuale a forma libera ai sensi dell’art. 121 c.p.c. e 156 c.p.c. da considerarsi argomentazione, osservazione tecnica o conoscenza scientifica del giudicante, da utilizzarsi comunque ai fini della decisione sia in primo grado che in secondo grado?”.
1.1. Il motivo è infondato.
Non sussiste, in primo luogo, la denunciata contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata per avere, da un lato, affermato che la c.t.u. non è un mezzo di prova, e, dall’altro, ritenuto che la produzione della relazione svolta da un consulente tecnico d’ufficio in un altro giudizio fosse soggetta alle regole proprie della produzione documentale. Invero, la denunciata contraddizione è insussistente, atteso che una cosa è una consulenza tecnica d’ufficio svolta nel corso di un procedimento, altra cosa è la relazione di un consulente tecnico d’ufficio nominato in altro giudizio che, per poter essere prodotta in un diverso giudizio, non può non essere considerata altro che come un documento e assoggettata quindi alle regole proprie delle produzioni documentali.
Peraltro, se è vero che “il giudice di merito può utilizzare, in mancanza di qualsiasi divieto di legge, anche prove raccolte in un diverso giudizio fra le stesse anche altre parti, come qualsiasi altra produzione delle parti stesse, al fine di trarne non solo semplici indizi o elementi di convincimento, ma anche di attribuire loro valore di prova esclusiva, il che vale anche per una perizia svolta in sede penale o una consulenza tecnica svolta in altre sedi civili” (Cass. n. 8585 del 1999; Cass. n. 28855 del 2008), è altresì vero che “tale prova può valere, come indizio idoneo a fornire elementi di giudizio, solo una volta che la relativa documentazione sia ritualmente esibita dalla parte interessata, secondo le regole dell’allegazione” (Cass. n. 7518 del 2001).
La sentenza impugnata si è attenuta a tale principio e quindi il motivo di ricorso in esame deve essere rigettato.
2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 345, terzo comma, cod. proc. civ. e omessa motivazione, sostenendo che la Corte d’appello avrebbe omesso ogni esame in ordine alla indispensabilità della consulenza della dott.ssa Pi. ai fini della decisione della causa; valutazione che ne avrebbe consentito la produzione anche tardiva e anche in grado di appello.
A conclusione del motivo la ricorrente formula il seguente quesito di diritto: “Secondo il disposto dell’art. 345, 3 comma, c.p.c. il giudice d’appello – a seguito della produzione di documenti nel corso del primo grado di giudizio oltre il termine di cui all’art. 184 c.p.c. – è tenuto a valutare ex officio l’indispensabilità del nuovo documento e di motivare la conseguente decisione a riguardo, nel caso in cui l’appellante non abbia richiesto la remissione in termini ex art. 184-bis c.p.c. ma abbia fondato il gravame proprio sulle risultanze di tale documento?”.
3. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia insufficienza e contraddittorietà della motivazione. Sotto il primo profilo, la ricorrente si duole del fatto che la Corte d’appello abbia fondato il proprio convincimento unicamente sulle risultanze della c.t.u. svolta dalla dott.ssa S. , non prendendo in considerazione le argomentazioni svolte dal consulente di parte, alle quali la c.t.u. non aveva in alcun modo replicato. La ricorrente si duole altresì del fatto che la Corte d’appello non abbia in alcun modo preso in considerazione la sentenza penale non irrevocabile, la quale pure costituiva fonte di prova che avrebbe dovuto essere esaminata e valutata unitamente alle altre risultanze istruttorie.
Sotto il secondo profilo, la ricorrente rileva la contraddittorietà della motivazione atteso che, nella sentenza impugnata si afferma che “il quarto motivo di lamentela è fondato e va di conseguenza accolto”, mentre nel dispositivo viene pronunciato il rigetto dell’appello.
3.1. Il secondo e il terzo motivo di ricorso, che per ragioni di connessione possono essere esaminati congiuntamente, sono fondati.
Deve essere innanzitutto disattesa la eccezione di inammissibilità del motivo, formulata dalla controricorrente sul rilievo che la ricorrente, in appello, non avrebbe formulato istanza di ammissione di prove documentali nuove, della cui mancata acquisizione, in quanto indispensabili, si duole in questa sede.
In proposito, deve rilevarsi che, se è vero che una richiesta di ammissione di prove nuove non risulta formulata in sede di conclusioni, come riportate nella sentenza impugnata e nello stesso ricorso, è altrettanto vero che le prove della cui mancata ammissione si discute erano dalla ricorrente state introdotte in primo grado ed erano quindi state acquisite agli atti del giudizio. Le stesse, peraltro, non erano state valutate in alcun modo, e neanche dichiarate inammissibili dal Tribunale, atteso che quel giudice, secondo la condivisa ricostruzione del contenuto della sentenza di primo grado effettuata sia dalla ricorrente che dalla resistente, non ebbe a pronunciarsi sulla questione oggetto del presente giudizio, avendo ritenuto la odierna ricorrente non legittimata ad impugnare il testamento di P.E. .
La ricorrente, quindi, posto che quel materiale probatorio era acquisito al fascicolo di parte di primo grado, nel proporre appello ha fatto riferimento allo stesso e sulla base di quelle prove documentali ha articolato il quarto motivo di gravame, rigettato dalla Corte d’appello. Dunque, in assenza di una decisione in primo grado in ordine alla produzione delle dette prove (e segnatamente della c.t.u. Pi. e della sentenza penale) la Corte d’appello, lungi dal potersi limitare a valutare la tempestività della produzione in primo grado, avrebbe dovuto qualificare i detti documenti come nuove prove e dunque svolgere in ordine ad essi la valutazione di indispensabilità ai fini della decisione della causa. Del resto, “in tema di prove nuove in appello, la valutazione di indispensabilità dei nuovi documenti, ai sensi dell’art. 345, terzo comma, cod. proc. civ., può risultare dalla motivazione della sentenza di appello, presupponendo unicamente che i nuovi documenti siano depositati con l’atto di appello ed indicati nell’elenco a corredo, senza che occorra una richiesta espressamente rivolta al giudice affinché ne autorizzi la produzione” (Cass. n. 8877 del 2012).
La detta valutazione è invece del tutto mancata nel caso di specie, sicché sussiste la denunciata violazione dell’art. 345, terzo comma, cod. proc. civ..
Questa Corte ha infatti affermato che “in tema di nuova produzione documentale in appello, la valutazione di non indispensabilità, che ne provoca la mancata ammissione, deve essere espressamente motivata dal giudice del gravame, quanto alla ritenuta mancanza di attitudine dei nuovi documenti a dissipare lo stato di incertezza sui fatti controversi, così da consentire, in sede di legittimità, il necessario controllo sulla congruità e sulla logicità del percorso motivazionale seguito e sull’esattezza del ragionamento adottato nella decisione impugnata” (Cass. n. 19608 del 2013). Invero, “l’art. 345, terzo comma, cod. proc. civ., come modificato dalla legge 26 novembre 1990, n. 353, nell’escludere l’ammissibilità di nuovi mezzi di prova, ivi compresi i documenti, consente al giudice di ammettere, oltre alle nuove prove che le parti non abbiano potuto produrre prima per causa ad esse non imputabile, anche quelle da lui ritenute, nel quadro delle risultanze istruttorie già acquisite, indispensabili, perché dotate di un’influenza causale più incisiva rispetto a quella che le prove rilevanti hanno sulla decisione finale della controversia; indispensabilità da apprezzarsi necessariamente in relazione alla decisione di primo grado e al modo in cui essa si è formata, sicché solo ciò che la decisione afferma a commento delle risultanze istruttorie acquisite deve evidenziare la necessità di un apporto probatorio che, nel contraddittorio in primo grado e nella relativa istruzione, non era apprezzabile come utile e necessario. Tale facoltà deve essere esercitata in modo non arbitrario, in quanto il giudizio di indispensabilità, positivo o negativo, deve essere comunque espresso in un provvedimento motivato (Cass. n. 26020 del 2011).
3.2. Nella specie, posto che la Corte d’appello ha fondato la propria decisione sulla c.t.u. svolta nel corso del giudizio di primo grado, ritenuta “congruamente motivata per essere fondata su preciso esame obiettivo e su considerazioni tecniche legali, immuni da errori logici e scientifici”, appare evidente la decisività dei documenti in questione, atteso che gli stessi, ponendosi in stridente contrasto con quanto affermato dal c.t.u., attestavano la falsità del testamento impugnato nel presente giudizio, sicché si sarebbe resa quanto meno necessaria la rinnovazione della consulenza tecnica d’ufficio, pure sollecitata dall’appellante.
Segnatamente, poi, per quanto attiene alla sentenza penale e agli accertamenti svolti in quella sede, giova qui ricordare che “il materiale probatorio raccolto nell’ambito di un procedimento penale può costituire fonte, anche esclusiva, del convincimento del giudice civile, ancorché sia mancato il vaglio critico del dibattimento perché il procedimento penale si è concluso con dichiarazione di estinzione del reato per amnistia, senza che perciò sia violato il diritto di difesa della parte” (Cass. n. 16592 del 2005; Cass. n. 6502 del 2001). In particolare, questa Corte ha chiarito che “la sentenza penale non irrevocabile, ancorché non faccia stato nel giudizio civile circa il compiuto accertamento dei fatti materiali formanti oggetto del giudizio penale, ed attribuendo perciò al giudice civile il potere-dovere di accertarli e valutarli in via autonoma, costituisce in ogni caso una fonte di prova che il predetto giudice è tenuto ad esaminare e dalla quale può trarre elementi di giudizio, sia pure non vincolanti, su dati e circostanze ivi acquisiti con le garanzie di legge, soprattutto quando essi non risultino da mere valutazioni del giudice penale, ma trovino rispondenza, come nell’ipotesi del “patteggiamento”, nella stessa natura della pronuncia adottata, recante pur sempre un accertamento che, benché non vincolante, deve comunque essere esaminato ed apprezzato, palesandosi capace di concorrere al convincimento del detto giudice, il quale è perciò legittimato a sottoporlo a vaglio critico, utilizzandolo come elemento istruttorio emerso in sede penale o, per converso, considerandolo insufficiente per il raggiungimento della prova, ferma restando la necessità, in entrambi i casi, di dare adeguata ragione dei motivi della scelta. (Cass. n. 3626 del 2004). Ed ancora, “la possibilità per il giudice civile, a seguito dell’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, di accertare autonomamente, con pienezza di cognizione, i fatti dedotti in giudizio e di pervenire a soluzioni e qualificazioni non vincolate all’esito del processo penale, non comporta alcuna preclusione per detto giudice di utilizzare come fonte del proprio convincimento le prove raccolte in un giudizio penale e di fondare il proprio giudizio su elementi e circostanze già acquisiti con le garanzie di legge in quella sede, procedendo a tal fine a diretto esame del contenuto del materiale probatorio ovvero ricavandoli dalla sentenza penale o, se necessario, dagli atti del relativo processo, in modo da individuare esattamente i fatti materiali accertati per poi sottoporli a proprio vaglio critico svincolato dalla interpretazione e dalla valutazione che ne abbia dato il giudice penale (Cass. n. 624 del 1998).
Orbene, la Corte d’appello, se ha correttamente escluso che la sentenza penale non divenuta irrevocabile potesse avere efficacia di giudicato nel presente giudizio in ordine alla accertata falsità del testamento qui impugnato di falso, ha tuttavia errato nell’obliterare completamente le risultanze che dalla detta sentenza emergevano, discostandosi così dagli indicati principi, finendo con l’attribuire efficacia esclusiva alla consulenza tecnica d’ufficio espletata in primo grado e contrastata, invece, dalle risultanze degli accertamenti svolti in sede penale. In relazione a questi ultimi si deve aggiungere che “il giudice civile può utilizzare come fonte del proprio convincimento anche gli elementi probatori raccolti in un giudizio penale, ed in particolare le risultanze della relazione di una consulenza tecnica esperita nell’ambito delle indagini preliminari, soprattutto quando la relazione abbia ad oggetto una situazione di fatto rilevante in entrambi i giudizi” (Cass. n. 15714 del 2010).
3.3. La sentenza impugnata è altresì viziata, come esattamente dedotto dalla ricorrente nel terzo motivo, anche dalla mancata considerazione della consulenza tecnica di parte prodotta unitamente all’atto di appello.
Premesso che “la consulenza tecnica di parte, costituendo una semplice allegazione difensiva a contenuto tecnico, priva di autonomo valore probatorio, può essere prodotta sia da sola che nel contesto delle difese scritte della parte e, nel giudizio di appello celebrato con il rito ordinario, anche dopo l’udienza di precisazione delle conclusioni” (Cass. n. 259 del 2013), deve rilevarsi che la Corte d’appello ha del tutto omesso l’esame delle deduzioni contenute nella detta consulenza di parte.
Orbene, se è vero che “la consulenza di parte, ancorché confermata sotto il vincolo del giuramento, costituisce una semplice allegazione difensiva di carattere tecnico, priva di autonomo valore probatorio, con la conseguenza che il giudice di merito, ove di contrario avviso, non è tenuto ad analizzarne e a confutarne il contenuto, quando ponga a base del proprio convincimento considerazioni con esso incompatibili e conformi al parere del proprio consulente” (Cass. n. 2063 del 2010), è altresì vero che “allorché ad una consulenza tecnica d’ufficio siano mosse critiche puntuali e dettagliate da un consulente di parte il giudice che intenda disattenderle ha l’obbligo di indicare nella motivazione della sentenza le ragioni di tale scelta, senza che possa limitarsi a richiamare acriticamente le conclusioni del proprio consulente, ove questi a sua volta non si sia fatto carico di esaminare e confutare i rilievi di parte (incorrendo, in tal caso, nel vizio di motivazione deducibile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ.)” (Cass. n. 10688 del 2008; Cass. n. 25862 del 2011).
Nella specie, appare evidente che la Corte d’appello, nel riportarsi puramente e semplicemente alle conclusioni del c.t.u., del quale ha condiviso il giudizio, ha del tutto omesso di prendere in esame le specifiche critiche rivolte alla consulenza tecnica d’ufficio, incorrendo, pertanto, nel denunciato vizio di motivazione.
4. Il secondo e il terzo motivo di ricorso devono quindi essere accolti, con assorbimento del quarto motivo, con il quale la ricorrente deduce ulteriore vizio di omessa motivazione con riferimento alla istanza di rinnovazione della c.t.u. formulata nell’atto di appello e ampiamente argomentata.
5. In conclusione, rigettato il primo motivo di ricorso, accolti il secondo e il terzo, assorbito il quarto, la sentenza impugnata deve essere cassata in relazione alle censure accolte, con rinvio, per nuovo esame, alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, la quale si atterrà agli enunciati principi di diritto ed emenderà i rilevati vizi motivazionali.
Al giudice del rinvio è demandata altresì la regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte rigetta il primo motivo di ricorso; accoglie il secondo e il terzo, assorbito il quarto; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione.

Torna all’articolo

Invia un articolo