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Testo sentenza, rapina impropria, tentativo

Testo sentenza, rapina impropria, tentativo
Corte di Cassazione II Sezione Penale
Sentenza 16 ottobre – 11 novembre 2014, n. 46412
Presidente Gentile – Relatore Lombardo

Ritenuto in fatto

1. R.P. fu tratto a giudizio per rispondere del delitto di rapina impropria aggravata dall’uso dell’arma (capo a: artt. 628, commi 2 e 3 n. 1 cod. pen.) e della contravvenzione di porto ingiustificato di coltello (capo b: art. 4 della legge n. 110/1975). In particolare, l’imputato fu accusato di avere sottratto un paio di scarpe e un paio di pantaloni presso il centro commerciale “City Moda” di Modugno, prelevandoli dagli scaffali ove erano esposti per la vendita; secondo l’accusa contestata, il prevenuto, dopo aver rimosso il dispositivo antitaccheggio dalla confezione delle scarpe e dopo essere stato sorpreso da una dipendente del negozio, che gli chiese spiegazioni, abbandonò la merce all’interno del magazzino, fuoriuscì dallo stesso e – inseguito da alcuni dipendenti dell’esercizio commerciale – si diede alla fuga nelle campagne circostanti, fino a che – raggiunto – minacciò i suddetti dipendenti con un coltello al fine di procurarsi l’impunità.

antitaccheggio-furto

2. Con sentenza del 15.10.2008, il G.I.P. del Tribunale di Bari assolvette il R. dal delitto di rapina contestato, perché il fatto non sussiste; dichiarò, invece, l’imputato colpevole della contravvenzione di cui al capo b) della rubrica e – concesse le attenuanti generiche e con la diminuente del rito – lo condannò alla pena di giorni venti di arresto (poi convertita nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell’art. 53 n. 689/1981) ed Euro 40 di ammenda.

3. Avverso tale pronunzia propose gravame il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bari e la Corte di Appello della stessa città, con sentenza del 22.10.2012, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarò il R. colpevole anche del delitto di rapina impropria di cui al capo a) della rubrica e, concesse le attenuanti generiche ritenute prevalenti sull’aggravante contestata, unificati i reati col vincolo della continuazione e applicata la diminuente per il rito, lo condannò alla pena di anni uno, mesi quattro di reclusione ed Euro 400 di multa, con i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale.

4. Ricorrono per cassazione i difensori dell’imputato, formulando diversi motivi di ricorso.

4.1. Col primo motivo di ricorso, si deduce l’inosservanza e l’erronea applicazione degli artt. 628 e 52 cod. pen., 380 e 383 cod. proc. pen., con riferimento alla ritenuta sussistenza della violenza o minaccia al fine di assicurarsi il possesso della cosa mobile altrui ovvero l’impunità; si deduce, in particolare, che l’imputato uscì dal centro commerciale senza portare nulla con sé, sicché l’inseguimento per le campagne da parte dei dipendenti del detto esercizio commerciale, prolungatosi per oltre due chilometri, sarebbe stato slegato dal tentativo di impossessamento compiuto all’interno del grande magazzino; non sarebbe configurabile, così, il delitto di rapina impropria, perché i detti dipendenti non sarebbero stati legittimati a fermarlo per legittima difesa, né – in ogni caso – sarebbero stati sussistenti i presupposti cui la legge subordina la facoltà di arresto in flagranza da parte dei privati;

4.2. Col secondo motivo, si deduce l’inosservanza e l’erronea applicazione degli artt. 533 cod. proc. pen. e 628 comma 2 cod. pen., nonché la manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata con riferimento alla ritenuta sussistenza dell’intento dell’imputato di procurarsi l’impunità; si deduce, in particolare, che il R. – nel fuggire – non sarebbe stato affatto mosso dall’intento di procurarsi l’impunità, tanto è vero che egli, spontaneamente e prima ancora di essere identificato da alcuno, telefonò – una volta raggiunto dai suoi inseguitori e in presenza degli stessi – alla Polizia di Stato (in persona di un collega di sua conoscenza, essendo il R. Assistente della Polizia di Stato) e, successivamente, si presentò di sua iniziativa presso la caserma dei Carabinieri per spiegare l’accaduto;

4.3. Col terzo motivo di ricorso, si deduce l’inosservanza e l’erronea applicazione degli artt. 56 e 628 cod. pen.; si deduce, in particolare, la erronea qualificazione giuridica del fatto da parte della Corte di Appello, la quale – nonostante abbia accertato che le scarpe e i pantaloni non sfuggirono mai all’occhio attento della commessa del negozio e furono lasciati dall’imputato all’interno dell’esercizio commerciale – ha però qualificato il fatto come rapina consumata, anziché come rapina tentata;

4.4. Col quarto motivo, si deduce poi l’inosservanza e l’erronea applicazione degli artt. 56 comma 3 e 628 cod. pen., per avere la Corte territoriale ritenuto l’idoneità della minaccia necessaria ai fini della consumazione della rapina impropria, nonostante che la minaccia dell’imputato verso i suoi inseguitori ebbe a cessare spontaneamente, in quanto il R. ripose il coltello e si dichiarò disponibile a far rientro nel centro commerciale per chiarire l’accaduto; non ricorrerebbe, perciò, nel caso di specie, un fatto sussumibile nella fattispecie criminosa di cui all’art. 628 cod. pen. o – quantomeno – si sarebbe verificata una desistenza volontaria ai sensi dell’art. 56 comma 3 cod. pen.;

4.5. Col quinto motivo di ricorso, si deduce ancora l’inosservanza e l’erronea applicazione dell’art. 62 n. 4 cod. pen., per avere la Corte distrettuale – nonostante il valore assolutamente esiguo dei beni (un paio di scarpe e un paio di pantaloni) di cui l’imputato avrebbe tentato la sottrazione – negato l’attenuante del fatto di speciale tenuità, senza fornire motivazione alcuna di tale diniego; irrilevante sarebbe l’assenza di una specifica richiesta dell’attenuante da parte dell’imputato, non potendo questi ritenersi onerato a richiederla, essendo stato assolto in primo grado dal reato di rapina;

4.6. Col sesto motivo (contenuto nel separato atto depositato in cancelleria il 24.4.2014) si deduce, infine, l’erronea applicazione della legge penale, con riferimento agli artt. 628 cpv. e 56 cod. pen.; si deduce in particolare, che – nel caso di specie – non sarebbe configurabile la rapina impropria, neppure sotto forma di tentativo; ciò perché il tentativo di rapina impropria, presupporrebbe che l’imputato consumi la sottrazione, non riuscendo poi a guadagnarsi col ricorso alla violenza o alla minaccia l’impunità, mentre la condotta del R. si esaurì in un duplice tentativo: egli, infatti, tentò la sottrazione della merce senza riuscirci e tentò pure senza successo di procurarsi l’impunità; si sarebbe, perciò, in presenza di un “tentativo di tentata rapina impropria”, che non sarebbe penalmente punibile.

5. Con ordinanza in data 9.5.2014, questa Sezione ha rimesso il ricorso alle Sezioni Unite Penali di questa Corte, per la soluzione, in presenza di contrasto di giurisprudenza sul punto, della seguente questione di diritto: “Quali siano i requisiti che consentono di ritenere reato consumato la sottrazione di merce avvenuta all’interno di un supermercato sotto la sorveglianza del personale addetto”.

Con nota del Primo Presidente del 4.6.2014, gli atti del procedimento venivano restituiti a questa Sezione, atteso che la questione giuridica sottoposta era stata già rimessa da altra Sezione alle Sezioni Unite e il relativo ricorso era stato fissato per l’udienza del 17 luglio 2014.

Tale ricorso è stato ora deciso dalle Sezioni Unite e, sebbene non si disponga ancora della motivazione della sentenza, dalla “notizia di decisione” risulta che “deve qualificarsi come furto tentato, e non consumato, la condotta di sottrazione di merce dai banchi di vendita di un supermercato, avvenuta sotto il costante controllo del personale di vigilanza, anche nel caso in cui l’autore sia fermato dopo il superamento delle casse senza aver pagato la merce prelevata”.

Considerato in diritto

6. Ciò premesso, va osservato che – secondo la ricostruzione del fatto compiuta dai giudici di merito – l’imputato venne sorpreso dal personale di vigilanza del detto centro commerciale, prima di varcare la barriera delle casse, dopo che aveva rimosso il “dispositivo antitaccheggio” da una scatola di scarpe e il c.d. “codice a barre” dai pantaloni esposti per la vendita; egli – allora – consegnò al personale del negozio la scatola contenente le scarpe, abbandonò poi i pantaloni su uno scaffale e si avviò verso l’uscita., superando le barriere antitaccheggio e determinando l’avvio del sistema sonoro di allarme; uscì, infine, di corsa dal grande magazzino, dandosi alla fuga; inseguito dai dipendenti dell’esercizio commerciale, una volta raggiunto da uno di essi (tale N.G. ), estrasse un coltello e lo minacciò al fine di procurarsi l’impunità.

Questo essendo il fatto, come ricostruito dai giudici di merito, possono prendersi in esame i motivi di ricorso, secondo il seguente ordine logico.

6.1. Il secondo motivo (par. 4.2.) – col quale si deduce l’inosservanza e l’erronea applicazione degli artt. 533 cod. proc. pen. e 628 comma 2 cod. pen., nonché la manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata con riferimento alla ritenuta sussistenza dell’intento dell’imputato di procurarsi l’impunità – è infondato.

Dalla ricostruzione del fatto compiuta dei giudici di merito risulta con chiarezza che il R. – tra le ore 11,00 e le ore 12,00 del (…) – fu sorpreso dalla dipendente M.G. a compiere operazioni sospette su una scatola di scarpe e su un paio di pantaloni esposti per la vendita, operazioni che – come poi si accerterà – consistettero nella rimozione del “dispositivo antitaccheggio” dalla scatola di scarpe e del c.d. “codice a barre” dai pantaloni. Il fatto che il R. , intimato dalla M. di fermarsi, non si fermò, ma si diede a precipitosa fuga è sicuro indice del fatto che egli era mosso dall’intento di procurarsi l’impunità, come – con motivazione esente da vizi logici – ha ritenuto la Corte territoriale.
Tale intento fu quello che mosse ancora il R. , quando lo stesso (fino ad allora non identificato da alcuno), raggiunto da N.G. (dipendente del centro commerciale), gli intimò di non avvicinarsi, minacciandolo con un coltello.

La circostanza che l’imputato (assistente della polizia di Stato) telefonò poi alla Polizia di Stato e, successivamente, si presentò di sua iniziativa presso la caserma dei Carabinieri per spiegare l’accaduto, non esclude certo il suo intento di procurarsi l’impunità. Invero, per un verso l’imputato, piuttosto che autodenunciarsi alla Polizia, telefonò ad un suo collega amico, verosimilmente per chiedere aiuto o per chiedere consigli circa la condotta da tenere; per altro verso poi, la presentazione presso la caserma dei Carabinieri avvenne solo nelle ore pomeridiane, quando la possibilità di procurarsi l’impunità era ormai sfumata, dal momento che il N. lo aveva privato (oltre che del coltello in suo possesso, anche) del telefono cellulare (col quale aveva effettuato la suddetta telefonata), tramite il quale sarebbe stato possibile identificarlo.

6.2. Il quarto motivo (par. 4.4.) – col quale si deduce l’inosservanza e l’erronea applicazione degli artt. 56 comma 3 e 628 cod. pen., per avere la Corte territoriale ritenuto l’idoneità della minaccia necessaria ai fini della consumazione della rapina impropria e per avere la stessa escluso la sussistenza della desistenza volontaria ai sensi dell’art. 56 comma 3 cod. pen. – è parimenti infondato.

Dalla ricostruzione del fatto compiuta dai giudici di merito, risulta che il R. estrasse il coltello e minacciò il N. , intimandogli di non avvicinarsi, allorquando – sfinito per la lunga corsa nelle campagne, per circa due chilometri – si fermò, finendo per essere raggiunto dal suo inseguitore. Dunque, l’imputato non si fermò spontaneamente e non acconsentì a farsi identificare: egli, al contrario, minacciò il N. col coltello in suo possesso proprio per non farsi identificare. Dal che l’idoneità della minaccia rivolta al N. ; tanto idonea fu quella minaccia che il N. da essa dovette difendersi, raccogliendo un grosso sasso da terra e brandendolo verso il R. .

È vero poi che l’imputato ripose spontaneamente il coltello; ma ciò fece – come risulta dalla ricostruzione dei fatti in atti – solo per prendere tempo e poter effettuare quella telefonata che il N. gli consentì, convinto che fosse diretta alle forze dell’ordine.

D’altra parte, la dichiarata disponibilità dell’imputato a far rientro nel centro commerciale per chiarire l’accaduto non superò il piano puramente verbale, in quanto il R. non fece ritorno all’esercizio commerciale col N. e si dileguò per le campagne, fino alla sua presentazione presso la Caserma dei Carabinieri nel pomeriggio di quel giorno.

In tale condotta non possono ravvisarsi gli estremi della invocata desistenza di cui all’ari:. 56 comma 3 cod. pen..

Secondo l’insegnamento di questa Corte suprema, in tema di desistenza dal delitto, la volontarietà non deve essere intesa come spontaneità, per cui la scelta di non proseguire nell’azione criminosa deve essere non necessitata, ma operata in una situazione di libertà interiore, indipendente da fattori esterni idonei a menomare la libera determinazione dell’agente (Cass., Sez. 2, n. 7036 del 29/01/2014 Rv. 258791; Sez. 4, n. 32145 del 24/06/2010 Rv. 248183); in particolare, la desistenza dall’azione delittuosa può ritenersi volontaria solo quando la prosecuzione dell’azione non sia impedita da fattori esterni che ne renderebbero estremamente improbabile il compimento dell’impresa criminosa (Sez. 6, n. 203 del 20/12/2011 – dep. 10/01/2012 – Rv. 251571).

Sul punto, va precisato che la volontarietà che deve connotare la desistenza dall’azione, ai sensi dell’art. 56 comma 3 cod. pen., presuppone che l’agente abbia la possibilità di una libera scelta – non condizionata da fattori esterni – tra due condotte: portare avanti l’azione criminosa o interrompere l’azione stessa. Tale possibilità di scelta manca, non solo quando la prosecuzione dell’azione criminosa è divenuta impossibile, ma anche quando la detta prosecuzione presenta svantaggi o rischi tali che da non potersi attendere da una persona di comune ragionevolezza. Quando, dunque, per lo svolgersi degli eventi, all’agente appare esser divenuto difficile o improbabile riuscire a portare a termine utilmente la commissione del reato, l’interruzione dell’azione criminosa – seppure spontanea – non può ritenersi volontaria a sensi dell’art. 56 comma 3 cod. pen., essendo piuttosto il frutto di un calcolo utilitaristico che gli fa ritenere troppo rischioso proseguire nella condotta criminosa.

Ora, nel caso di specie, risulta che il R. ripose il coltello non perché spontaneamente decise di farsi identificare, ma perché, essendo minacciato a sua volta dal N. che alzò un grosso sasso contro di lui per difendersi e non conoscendo le intenzioni del N. , constatò essere divenuto troppo rischioso per lui proseguire nella condotta criminosa e più utile scendere a patti col N. , chiedendogli di poter fare una telefonata, con la quale egli tentò di chiedere l’ausilio del collega-amico della polizia di Stato.

Alla luce dei principi richiamati, la desistenza del R. non può ritenersi volontaria, secondo quanto previsto dall’art. 56 comma 3 cod. pen..
6.3. Il sesto motivo (par. 4.6.) – col quale si deduce l’erronea applicazione degli artt. 628 comma 2 e 56 cod. pen., per avere i giudici di merito ritenuto la sussistenza della rapina impropria consumata, nonostante che il R. non riuscì, tramite la minaccia, a procurarsi l’impunità, così ponendo in essere un “tentativo di tentata rapina impropria” (tentativo di sottrazione della merce e tentativo di procurarsi l’impunità) che non sarebbe penalmente punibile – è anch’esso privo di fondamento.

Invero, nella fattispecie della rapina impropria, di cui all’art. 628 comma 2 cod. pen., l’assicurazione a sé o ad altri del possesso della cosa sottratta o il procurare a sé o ad altri l’impunità non costituiscono eventi del reato, ossia componenti dell’elemento oggettivo del delitto di rapina, ma costituiscono elementi soggettivi del delitto de quo. In particolare, nella rapina impropria, l’elemento soggettivo del reato è costituito, oltre che dal “dolo generico” consistente nella coscienza e volontà di adoperare violenza o minaccia dopo l’illecita sottrazione della cosa mobile, anche dal “dolo specifico”, consistente nella finalizzazione della violenza o della minaccia adoperata verso il definitivo impossessamento della cosa o verso l’ottenimento della impunità.

Poiché l’impossessamento e l’impunità non costituiscono eventi del reato, ma sono componenti del “dolo specifico” richiesto (quali fini dell’azione), è evidente che, perché il reato si consumi, non è necessario che l’agente consegua effettivamente il possesso o l’impunità: è sufficiente che egli abbia agito al fine di conseguire l’uno o l’altro. In altre parole, la rapina impropria si consuma nel momento in cui, dopo la sottrazione della cosa mobile altrui, si adoperi violenza o minaccia ai fini suddetti, senza che sia necessario che i detti scopi siano conseguiti.

Ne deriva che non può parlarsi di tentativo quando, dopo la sottrazione della cosa mobile altrui e dopo l’uso della violenza o della minaccia per procurarsi l’impunità, l’agente venga poi identificato e denunciato, dovendosi ritenere in tal caso il reato consumato.
Nella specie, pertanto, deve escludersi che possa ravvisarsi il tentativo di rapina impropria con riferimento al mancato conseguimento dell’impunità da parte del R. dopo l’uso della minaccia verso il N. ; altro discorso è la configurabilità del tentativo con riferimento alla sottrazione, tema oggetto del terzo motivo di ricorso, che sarà vagliato infra a par. 6.6.

6.4. Anche il primo motivo di ricorso (par. 4.1.) – col quale si deduce l’inosservanza e l’erronea applicazione degli artt. 628 e 52 cod. pen., 380 e 383 cod. proc. pen., per avere la Corte territoriale ritenuto la sussistenza della minaccia finalizzata ad assicurarsi il possesso della cosa mobile altrui ovvero l’impunità, nonostante che il ricorso alla minaccia non fosse avvenuto “immediatamente dopo la sottrazione” (come richiesto dall’art. 628 comma 2 cod. pen.) e nonostante che gli inseguitori non fossero legittimati a fermare il R. , non ricorrendo la legittima difesa né ricorrendo i presupposti per l’arresto in flagranza del R. da parte dei privati – non è fondato.

Quanto alla pretesa non immediatezza della minaccia posta in essere dal R. rispetto alla sottrazione, va ricordato che – secondo la giurisprudenza di questa Corte – la violenza o la minaccia, nella rapina impropria, possono realizzarsi anche in luogo diverso da quello della sottrazione della cosa e in pregiudizio di persona diversa dal derubato, sicché, per la configurazione del reato, non è richiesta la contestualità temporale tra sottrazione e uso della violenza o minaccia, essendo sufficiente che tra le due diverse attività intercorra un arco temporale tale da non interrompere l’unitarietà dell’azione volta ad impedire al derubato di tornare in possesso delle cose sottratte o di assicurare al colpevole l’impunità (Cass., sez. 2, n. 43764 del 04/10/2013 Rv. 257310).

Nel caso di specie, nonostante il lungo inseguimento del R. da parte del N. per le campagne, prolungatosi per due chilometri, non vi è stata alcuna soluzione di continuità tra la condotta sottrattiva posta in essere dall’imputato all’interno del centro commerciale e la minaccia usata nei confronti del N. ; al contrario, proprio all’interno del centro commerciale è iniziata quella fuga del R. che è culminata nella minaccia rivolta al N. con il coltello, allorquando l’imputato – dopo il lungo inseguimento – è stato raggiunto, dimodoché sia l’inseguimento che la minaccia risultano legati al tentativo di sottrazione della merce compiuto all’interno del grande magazzino. Sussiste, quindi, tra la condotta volta a sottrarre e quella diretta a procurarsi l’impunità, quella unitarietà temporale richiesta dall’art. 628 comma 2 cod. pen. perché la minaccia possa dirsi adoperata “immediatamente dopo la sottrazione”.

Circa la legittimità della condotta del N. , la stessa non può essere revocata in dubbio.
Va innanzitutto osservato che il N. era legittimato ad inseguire e a fermare i R. per il fatto di agire in stato di “legittima difesa”.

Tale scriminante è prevista a tutela di tutti i diritti, personali e patrimoniali, propri o altrui (Cass. sez. 4, n. 16908 del 12/02/2004 Rv. 228045; Sez. 1, n. 45425 del 25/10/2005 Rv. 233352) e ricorre in presenza di due presupposti: che vi sia un’aggressione ingiusta, nel senso che vi sia il pericolo attuale di un’offesa che, se non neutralizzata tempestivamente, sfoci nella lesione di un diritto; che vi sia una reazione legittima, una reazione cioè che inerisca alla necessità di difendersi e alla inevitabilità del pericolo e che sia proporzionata all’offesa.

Nel caso di specie, ricorrono tutte queste condizioni, essendosi il N. posto all’inseguimento del R. per tutelare il patrimonio della ditta della quale era dipendente, nella convinzione peraltro che l’imputato avesse veramente sottratto qualcosa (convinzione fondata sul grido “Al ladro, prendetelo, prendetelo!” lanciato dalla M. e dal suono dell’allarme antitaccheggio proveniente dalle barriere elettroniche poste all’uscita: cfr. p. 1 della sentenza di primo grado). La reazione del N. , peraltro, fu legittima e proporzionata all’offesa, essendosi ridotta all’inseguimento del R. , al suo disarmo e al prelevamento del suo telefono cellulare in attesa dell’arrivo dei Carabinieri, già allertati.

Con ciò rimane assorbito il profilo della censura con quale si deduce che non ricorrevano – nella specie – i presupposti cui la legge subordina la facoltà di arresto in flagranza da parte dei privati, arresto peraltro che non vi fu.

6.5. È infondato anche il quinto motivo di ricorso (par. 4.5), col quale il ricorrente deduce l’inosservanza e l’erronea applicazione dell’art. 62 n. 4 cod. pen. per non avere la Corte territoriale riconosciuto all’imputato l’attenuante del fatto di speciale tenuità del danno patrimoniale.

Sul punto va ricordato che, secondo una recente sentenza delle Sezioni unite di questa Corte suprema, nei reati contro il patrimonio, la circostanza attenuante del danno di speciale tenuità è applicabile anche al delitto tentato; ciò, tuttavia, a condizione che sia possibile desumere con certezza, dalle modalità del fatto e in base ad un preciso giudizio ipotetico che, se il reato fosse stato riportato al compimento, il danno patrimoniale per la persona offesa sarebbe stato di rilevanza minima (Cass., sez. un., n. 28243 del 28/03/2013 Rv. 255528).

Non appare censurabile, perciò, la sentenza impugnata nella parte in cui non ha riconosciuto all’imputato l’attenuante in parola, considerato che, dalla ricostruzione del fatto compiuta dai giudici di merito, non risulta alcun elemento per stabilire il valore dei pantaloni e delle scarpe oggetto dell’azione criminosa (beni che, talora, possono essere anche di cospicuo valore); e considerato altresì che, nei casi in cui la condotta sia posta in essere con violenza o minaccia (in considerazione del duplice oggetto della condotta dell’agente, che investe non soltanto il patrimonio, ma anche la persona della vittima), ai fini della valutazione della configurabilità della circostanza attenuante di cui all’art. 62 n. 4 cod. pen., il “danno patrimoniale” comprende anche il danno fisico o morale prodotto alla persona offesa (Cass., Sez. 2, n. 13575 del 20/12/2013 – dep. 24/03/2014 – Rv. 259701).

6.6. Va, infine, esaminato il terzo motivo di ricorso (par. 4.3.), col quale si deduce l’erronea qualificazione giuridica del fatto da parte della Corte di Appello, per avere la stessa – nonostante fosse risultato che le scarpe e i pantaloni non sfuggirono mai all’occhio attento della commessa del negozio e furono lasciati dall’imputato all’interno dell’esercizio commerciale – qualificato il fatto come rapina consumata, anziché come rapina tentata;

Questa censura è fondata.

Va premesso che, con sentenza n. 34952 del 2012, le Sezioni unite di questa Corte – superando il precedente contrasto giurisprudenziale – hanno stabilito che “È configurabile il tentativo di rapina impropria nel caso in cui l’agente, dopo aver compiuto atti idonei alla sottrazione della cosa altrui, non portati a compimento per cause indipendenti dalla propria volontà, adoperi violenza o minaccia per assicurarsi l’impunità” (Cass., sez. un., n. 34952 del 19/04/2012 Rv. 253153).

La pronuncia appena citata assume speciale importanza, non solo per il principio appena richiamato che ammette la configurabilità del tentativo di rapina impropria, ma anche per aver posto in chiaro che un’importante differenza – quanto alla consumazione del reato – tra la fattispecie della rapina propria (art. 628 comma 1 cod. pen.) e quella della rapina impropria (art. 628 comma 2 cod. pen.): mentre la rapina propria si consuma (come il furto) solo quando che si sono verificati sia la sottrazione della cosa mobile altrui sia l’impossessamento della stessa; la rapina impropria, invece, si consuma con la sola sottrazione della cosa, senza che occorra che si sia verificato anche l’impossessamento.

Sul punto, le Sezioni Unite hanno sottolineato che “il comma secondo dell’art. 628 cod. pen. fa riferimento alla sola sottrazione e non anche all’impossessamento, ciò che conduce a ritenere che il delitto di rapina impropria si possa perfezionare anche se il reo usi violenza dopo la mera apprensione del bene, senza il conseguimento, sia pure per un breve spazio temporale, della disponibilità autonoma dello stesso”; e hanno osservato che, ai fini della configurazione della rapina impropria, “il legislatore (…) non richiede il vero e proprio impossessamento della cosa da parte dell’agente, ritenendo sufficiente per la consumazione la sola sottrazione, così lasciando spazio per il tentativo ai soli atti idonei diretti in modo non equivoco a sottrarre la cosa altrui”.

Va osservato, infatti, che l’impossessamento non costituisce elemento materiale della fattispecie criminosa, ma è richiesto dalla norma incriminatrice – ai fini della configurabilità del reato di rapina impropria – solo come scopo della condotta, in alternativa allo scopo di procurare a sé o ad altri l’impunità. L’impossessamento non costituisce, cioè, l’evento del reato, necessario per la sua consumazione, ma è posto a base del “dolo specifico” richiesto dalla norma incriminatrice (art. 628 comma 2 cod. pen.), dimodoché, ai fini della consumazione del reato, non è necessario che l’agente consegua effettivamente l’impossessamento della res: è sufficiente che egli abbia usato la violenza o la minaccia al fine di conseguirlo.

Esiste, peraltro, una radicale diversità concettuale tra “sottrazione” e “impossessamento”: la prima consiste nel mero “spossessamento” altrui, ossia nel fatto che altri venga privato del possesso di una cosa; l’”impossessamento”, invece, consiste nell’acquisto del possesso sulla cosa sottratta ad altri, ossia nel fatto che l’agente acquisti su di essa una signoria indipendente e autonoma. E sebbene nella maggior parte dei casi “sottrazione” e “impossessamento” avvengono in una continuità temporale che può rendere difficile distinguerli, non sempre è così: come nell’esempio classico del ladro che, trovandosi su un camion in corsa, getta sulla strada alcune merci (consumando così la sottrazione), affinché in seguito esse vengano raccolte e fatte proprie dai suoi complici (così conseguendo solo allora l’impossessamento).

Orbene, questa distinzione tra sottrazione e impossessamento è di fondamentale rilievo ai fini della individuazione del momento consumativo della rapina impropria, giacché, una volta esclusa la rilevanza dell’impossessamento (in quanto non costitutivo dell’elemento materiale del reato), il discrimine tra “rapina impropria consumata” e “rapina impropria tentata” rimane affidato proprio alla “sottrazione”.
Si può dire, anzi, che la “sottrazione”, quale componente dell’elemento materiale del reato di rapina, assume un ruolo centrale, nella definizione della figura criminosa della rapina, sotto due profili: in primo luogo, perché il momento temporale in cui avviene la sottrazione, rispetto alla violenza o alla minaccia, segna la differenza tra la rapina propria e la rapina impropria; in secondo luogo, perché il fatto che la sottrazione sia portata a compimento o meno segna – a sua volta – la differenza tra la rapina impropria consumata e la rapina impropria tentata.

Sotto il primo profilo, va osservato che la sottrazione (e le modalità con cui essa è attuata) costituisce il punto di snodo, che consente di distinguere la rapina propria dalla rapina impropria. Infatti, mentre nella rapina propria la sottrazione deve avvenire mediante violenza o minaccia e, quindi, la sottrazione segue (e non precede) la violenza o la minaccia, configurandosi come il risultato di esse; nella rapina impropria, invece, la sottrazione deve avvenire (come nel furto) senza violenza o minaccia e, perciò, la sottrazione precede (e non segue) la violenza o minaccia, le quali sono poste in essere, non al fine di sottrarre la cosa mobile altrui, ma al fine di fine di assicurare a sé o ad altri il possesso della cosa sottratta o al fine di procurare a sé o ad altri l’impunità.
Sotto il secondo profilo, poi, la “sottrazione” – a sua volta – costituisce, a seconda che sia consumata o meno, l’elemento che consente di distinguere la rapina impropria consumata dalla rapina impropria tentata.

Infatti, alla stregua di quanto dianzi detto, non è configurabile il tentativo di rapina impropria per procurarsi l’impossessamento. Essendo invero l’impossessamento un elemento che fa parte del “dolo specifico” (quale fine dell’azione), e non costituisce l’evento del reato, perché la rapina impropria sia consumata non è necessario che l’agente consegua effettivamente l’impossessamento della res, essendo sufficiente che abbia agito al fine di conseguirlo. In altre parole, se vi è stata la sottrazione della cosa mobile altrui, l’aver adoperato violenza o minaccia per assicurare ad sé o ad altri il possesso della res, costituisce rapina impropria consumata, e non rapina impropria tentata, anche se l’impossessamento non si verifica.

Quanto detto vuoi dire che la possibilità di distinguere tra rapina impropria consumata e rapina impropria tentata dipende solo dalla avvenuta consumazione, o meno, della “sottrazione”.

Il tema della consumazione della. sottrazione ha lungamente impegnato la dottrina e la giurisprudenza, soprattutto con riferimento all’ipotesi in cui essa abbia avuto ad oggetto la merce esposta per la vendita, con il sistema c.d. “self service”, sugli scaffali di un grande magazzino quando la condotta dell’agente si sia svolta sotto la sorveglianza del personale addetto.

L’individuazione del momento consumativo della sottrazione risulta cruciale ai fini della risoluzione del caso sottoposto a questa Corte, perché proprio dalla possibilità di qualificare consumata o tentata la sottrazione della merce – seguita poi dalla minaccia posta in essere dall’imputato per procurarsi l’impunità – dipende la qualificazione del fatto contestato all’odierno imputato come rapina impropria consumata ovvero tentata.

La questione – com’è noto – è stata oggetto di numerose pronunce che hanno dato luogo a contrasto di giurisprudenza, essendo state adottate, nei diversi casi scrutinati, ben tre soluzioni diverse.

Un primo orientamento ha affermato che la condotta di sottrazione si attua solo nel momento in cui l’agente supera la barriera delle casse senza mostrare la merce ai fini del pagamento del prezzo, non rilevando la circostanza che il fatto sia avvenuto sotto il costante controllo del personale addetto all’esercizio commerciale (in questo senso, ex multis, Cass., sez. 5, n. 20838 del 7 febbraio 2013 Rv. 256499; Sez. 5, n. 7086 del 19 gennaio 2011 Rv. 249842; Sez. 5, n. 37242 del 13 luglio 2010 Rv. 248650).

Un secondo orientamento ha affermato, invece, che la condotta di sottrazione può consumarsi anche prima del superamento della barriera delle casse, ove l’agente, dopo aver prelevato la merce dagli scaffali ove è esposta (c.d. amotio), abbia poi predisposto le condizioni per superare le casse senza pagare (come quando occulti su di sé la detta merce);
riducendosi la configurabilità del tentativo alla sola eventualità in cui tale operazione sia stata effettuata in presenza di una diretta sorveglianza da parte del personale addetto alla sicurezza (in tal senso: Cass., sez. 5, n. 44011 del 28 settembre 2005 Rv. 232806; Sez. 4, n. 7235 del 16 gennaio 2004 Rv. 227347; Sez. 5, n. 3642 del 21 gennaio 1999 Rv. 213315).

Un terzo orientamento, infine, ha affermato che, quando l’avente diritto o la persona da lui incaricata sorvegli le fasi dell’azione furtiva sì da poterla interrompere in ogni momento, il delitto non si consuma neanche se l’agente abbia occultato la cosa sulla sua persona e neanche se abbia superato la linea delle casse, perché la cosa non è ancora uscita dalla sfera di vigilanza e di controllo diretto dell’offeso (in questo senso, Cass., Sez. 5, n. 11947 del 30 ottobre 1992 Rv. 192608, in una fattispecie di furto in supermercato, nella quale il ladro si era impossessato d’una pelliccia prelevata dal banco di vendita, staccando il rilevatore metallico e in cui la Suprema Corte ha escluso la consumazione, considerando che la condotta dell’agente era stata sorvegliata, a sua insaputa, ancor prima della sottrazione). Nello stesso senso, tra le più recenti, Sez. 5, n. 2151 del 12/06/2013 – dep. 17/01/2014 – Rv. 258871; Sez. 5, n. 11592 del 28 gennaio 2010 Rv. 246893; Sez. 5, n. 21937 del 6 maggio 2010 Rv. 247410; Sez. 4, n. 38534 del 22 settembre 2010 Rv. 248863; Sez. 5, n. 7042 del 20 dicembre 2010 Rv. 249835).

A fronte di tale contrasto giurisprudenziale, la questione è stata rimessa (da questa e da altre Sezioni) alle Sezioni unite e risolta infine con la recentissima sentenza del 17 luglio 2014, la quale, secondo la “notizia di decisione” diffusa (non è stata ancora pubblicata la motivazione), ha stabilito il principio secondo cui: “deve qualificarsi come furto tentato, e non consumato, la condotta di sottrazione di merce dai banchi di vendita di un supermercato, avvenuta sotto il costante controllo del personale di vigilanza, anche nel caso in cui l’autore sia fermato dopo il superamento delle casse senza aver pagato la merce prelevata”.

Il Collegio, pur non conoscendo le ragioni poste a fondamento di tale decisione, condivide la soluzione adottata dalle Sezioni unite.

Invero, nel caso in cui l’azione furtiva – consistita nel prelevamento di merce dai banchi di vendita dei grandi magazzini che adottano il sistema c.d. “self service” – sia avvenuta sotto la costante osservazione dell’avente diritto o del personale di vigilanza da lui incaricato, in grado di interromperla in ogni momento, pur essendosi verificata l’amotio della res, ossia il suo spostamento dal luogo ove si trovava, non per questo si è verificata l’ablatio, ossia lo “spossessamento” dell’offeso, inteso come perdita di “vigilanza e di controllo diretto” sulla cosa e, quindi, della disponibilità autonoma di essa. Ciò perché, superati o meno che siano le casse e gli eventuali apparecchi elettronici antitaccheggio, la cosa, anche nel caso in cui sia occultata sulla persona del colpevole, non è ancora uscita dalla sfera di vigilanza e di controllo diretto dell’offeso, che può interrompere in ogni momento l’azione delittuosa dell’agente.

In questi casi, la condotta – ove si sia concretata in atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere il delitto – non supera i confini del tentativo, non avendo il possessore perduto la sua relazione col bene e potendo egli in ogni momento interrompere l’azione delittuosa.

In sostanza, perché la sottrazione di una cosa possa dirsi consumata è necessario che l’avente diritto abbia perduto il proprio controllo su di essa, non essendo più in grado autonomamente – ossia senza l’ausilio di terzi o delle forze dell’ordine – di recuperarla. Se, invece, l’avente diritto, dopo l’amotio della res, mantiene costantemente il controllo su di essa, in modo da essere in grado autonomamente di riprenderla con sé, senza l’ausilio di estranei o delle forze dell’ordine, la sottrazione è solo tentata.
Deve perciò adottarsi, ai fini della soluzione della questione sottoposta relativa alla qualificazione giuridica del fatto, il seguente principio di diritto: ricorre fa rapina impropria nella forma del tentativo allorquando l’agente, dopo avere compiuto atti idonei diretti in modo non equivoco a sottrarre la cosa mobile altrui a chi la detiene ma non riuscendo in tale intento per la costante vigilanza della persona offesa o di un suo delegato, adoperi, immediatamente dopo, violenza o minaccia per procurare a sé o ad altri l’impunità; ricorre invece la rapina impropria consumata quando l’agente, dopo l’amotio della res, riesce a portare a termine anche l’ablatio – ossia lo spossessamento dell’avente diritto, che fa perdere a costui il controllo sulla cosa, dimodoché non è più in grado di recuperarla autonomamente, senza l’ausilio di terzi o delle forze dell’ordine – e adoperi, immediatamente dopo, violenza o minaccia per assicurare a sé o ad altri il possesso della cosa sottratta o per procurare a sé o ad altri l’impunità.

Nel caso di specie, il R. , dopo aver prelevato dagli scaffali dell’esercizio commerciale una scatola di scarpe e un paio di pantaloni ivi esposti per la vendita e dopo aver rimosso il “dispositivo antitaccheggio” dalla scatola di scarpe e il c.d. “codice a barre” dai pantaloni, venne sorpreso dal personale di vigilanza prima di varcare la barriera delle casse; egli – allora – consegnò al personale del negozio la scatola contenente le scarpe, abbandonò i pantaloni su uno scaffale prossimo all’uscita, e si allontanò dal negozio, dandosi alla fuga. Non essendo la merce mai fuoriuscita dalla costante osservazione del personale di vigilanza, che rimase costantemente in grado di interrompere autonomamente l’azione del R. (che fu effettivamente interrotta), la sottrazione della res non può dirsi consumata, essendo invece è rimasta solo tentata.

Invero, nella condotta dell’imputato – come ricostruita dai giudici di merito – sono ravvisabili quegli atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere il delitto di furto richiesti dall’art. 56 comma 1 cod. pen., che, uniti alla condotta di minaccia successivamente tenuta, configura il tentativo di rapina impropria.

3. In definitiva, risulta fondato il terzo motivo di ricorso, dovendosi il fatto contestato qualificare giuridicamente come rapina impropria tentata.
Va pertanto annullata la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui capo a), qualificato lo stesso come tentata rapina impropria, con rinvio ad altra Sezione della Corte di Appello di Bari per la rideterminazione della pena; mentre vanno rigettati gli altri motivi di ricorso.

Il giudizio di responsabilità penale dell’imputato in ordine a tale delitto di cui al capo a) come in ordine alla contravvenzione di cui al capo b) va dichiarato irrevocabile, ai sensi dell’art. 624 comma 2 cod. proc. pen..

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione annulla la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui capo a), qualificato lo stesso come tentata rapina impropria, e rinvia ad altra Sezione della Corte di Appello di Bari per la rideterminazione della pena.
Dichiara irrevocabile il giudizio di responsabilità penale in ordine a tale delitto e alla contravvenzione di cui al capo b) della rubrica. Rigetta nel resto il ricorso.

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