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Allusioni e frasi sottintese, si al risarcimento del danno

Si al risarcimento del danno per frasi sottintese e allusioni
Suprema Corte di Cassazione III Sezione Civile
Sentenza 23 giugno – 25 agosto 2014, n. 18174
Presidente Salmè – Relatore Ambrosio

tapiro d'oroLa Cassazione, con la sentenza in commento, ha stabilito che anche con frasi sottintese e allusioni si può danneggiare la reputazione professionale di una persona e, pertanto, ha deciso di riconoscere ad un dirigente di laboratorio di fisica dell’Istituto superiore di Sanità nonchè esperto di radio protezione ed effetti nocivi delle onde elettromagnetiche, il risarcimento per i danni subiti.

L’attore conveniva in giudizio Mediaset s.p.a., R.T.I. s.p.a. e Codacons (Coordinamento di Associazioni per la tutela dell’ambiente e dei diritti degli utenti e dei consumatori) per quello che era stato letto nel corso del programma “Striscia la notizia” e pubblicato anche sui rispettivi siti internet che, a parer dei giudici contenevano informazioni false e lesive dell’onore e della reputazione del clinico.

Più nello specifico, veniva rappresentata una situazione che faceva credere che l’attore subordinasse il proprio operato e le proprie tesi scientifiche agli interessi delle multinazionali produttrici di telefonini, per avere ricevuto una somma, pari a L. 20.000.000, dalla Motorola in favore di un’associazione privata di cui era presidente.

Il Tribunale, ritenuto il carattere diffamatorio dei fatti ascritti, condannava G.E. e R.T.I., in solido tra loro, al pagamento, a titolo risarcimento danni non patrimoniali in favore dell’attore, in ragione di Euro 10.000,00 e il Codacons, allo stesso, titolo al pagamento della somma di Euro 35.000,00; con rivalsa delle spese; dichiarava, invece, il difetto di legittimazione passiva di Mediaset s.p.a., con compensazione delle spese. La Corte d’Appello di Roma confermava la decisione del giudice di primo grado. 

Sul punto, la Suprema Corte ha osservato che “in punto di diritto la cronaca ha per fine l’informazione e, perciò, consiste nella mera comunicazione delle notizie, mentre se il giornalista, sia pur nell’intento di dare compiuta rappresentazione, opera una propria ricostruzione di fatti già noti, ancorché ne sottolinei dettagli, all’evidenza propone un’opinione. Il che non vuoi dire che non vi possa essere una commistione tra informazione e critica; piuttosto vale ad evidenziare che, anche in ragione di siffatta commistione, il controllo del giudice sul rispetto dei limiti nell’esercizio del diritto di critica, da un lato, richiede il riferimento al parametro di veridicità della cronaca, per stabilire se l’articolista abbia assunto una corretta premessa per le sue valutazioni, dall’altro implica quello di continenza ed interesse sul metro delle valutazioni che sono il fine dell’articolo.
Invero questa Corte è costante nel ritenere che l’esimente di cui all’art. 51 cod. pen. è riconoscibile sempre che sia indiscussa la verità dei fatti oggetto della pubblicazione, quindi il loro rilievo per l’interesse pubblico e, infine, la continenza nel darne notizia o commentarli. Il che spiega la rilevanza del criterio dell’allusività, nell’accertamento del carattere diffamatorio di uno scritto, con una formula che viene normalmente riferita come il rapporto di interazione tra testo e contesto, giacché l’evento lesivo della reputazione altrui può ben realizzarsi, oltre che per il contenuto oggettivamente offensivo della frase autonomamente considerata, anche perché il contesto, in cui la stessa è pronunziata, determina un mutamento del significato apparente della frase altrimenti non diffamatoria, dandole quanto meno un contenuto allusivo, percepibile dall’uomo medio (cfr. Cass. pen. 26 marzo 1998, n. 9839).
In particolare il risarcimento dei danni da diffamazione è escluso dall’esimente dell’esercizio del diritto di critica quando i fatti narrati corrispondano a verità e l’autore, nell’esposizione degli stessi, seppur con terminologia aspra e di pungente disapprovazione, si sia limitato ad esprimere l’insieme delle proprie opinioni (Cass. 19 giugno 2012, n. 10031). Se è vero, infatti, che il diritto di critica non si concreta, come quello di cronaca, nella narrazione veritiera di fatti, ma si esprime in un giudizio che, come tale, non può che essere soggettivo rispetto ai fatti stessi, resta fermo che il fatto presupposto ed oggetto della critica deve corrispondere a verità, sia pure non assoluta, ma ragionevolmente putativa per le fonti da cui proviene o per altre circostanze oggettive, così come accade per il diritto di cronaca (cfr. Cass. 06 aprile 2011, n. 7847), con la precisazione che, qualora la narrazione di determinati fatti sia esposta insieme alle opinioni dell’autore dello scritto, in modo da costituire nel contempo esercizio di critica, stabilire se lo scritto rispetti il requisito della continenza verbale è valutazione che non può essere condotta sulla base di criteri solo formali, richiedendosi, invece, un bilanciamento dell’interesse individuale alla reputazione con quello alla libera manifestazione del pensiero, costituzionalmente garantita (art. 21 Cost.), bilanciamento ravvisabile nella pertinenza della critica all’interesse dell’opinione pubblica alla conoscenza non del fatto oggetto di critica, ma di quella interpretazione del fatto, che costituisce, assieme alla continenza, requisito per l’esimente dell’esercizio del diritto di critica (Cass. 20 giugno 2013, n. 15443)“.

Sempre secondo i giudici della Cassazione “la Corte di appello non ha affatto accordato il risarcimento della “reputazione personale”, nell’ottica dell’esistenza di diversi danni (conseguenza) non patrimoniali, bensì ha confermato la liquidazione (unitaria) operata in prime cure, tenendo conto dei diversi profili del caso concreto e individuando precisi elementi indiziari della lesione della reputazione, identificata con il senso della dignità personale (non già quam suis, ma) in conformità a quella acquisita nel contesto sociale e, quindi, anche (ma non solo) nell’ambito professionale. Non vi è, dunque, alcuna violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato che, del resto, (se del caso), avrebbe dovuto essere fatto valere avverso la sentenza di primo grado.

Inoltre, conclude la Corte, “l’inciso contenuto nella sentenza impugnata, laddove si fa riferimento al danno in re ipsa, non assume altro rilievo che quello di valorizzare l’evento, quale sofferenza patita dalla sfera morale del soggetto leso che si realizza, nel caso di diffamazione, nel momento in cui la parte lesa ne viene a conoscenza, mentre le valutazioni espresse sulle sue conseguenze sono coerenti con i principi sopra richiamati in punto di ricorso al notorio e alla prova presuntiva in ordine al relativo accertamento”.

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About Avv. Giuseppe Tripodi (1645 Articles)
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