Sentenze Cassazione

Approfondimento. L’atto d’appello e il “dialogo” con la sentenza

codici e leggi

Il nuovo atto di appello e il necessario “dialogo” con la sentenza

a cura dell’ Avv. Giuseppe Caristena

 

I giudici della Corte di Appello di Genova, Sez. Lav., con sentenza dell’11 gennaio 2013 (dep. 16 gennaio 2013) n. 17, al fine di valutare l’ammissibilità o meno dell’atto di appello, hanno richiamato alcuni basilari principi in tema di impugnazione.

In primo luogo, i giudici hanno ricordato le recenti modifiche apportate dal legislatore in materia. In particolare, nel nuovo art. 342, c. 1, c.p.c. (sostituito dall’art. 54 del D.L. 83/2012 convertito con L. 134/2012) si legge che, a pena di inammissibilità, la motivazione dell’appello debba contenere“l’indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado”, nonché  “l’indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata”.

Allo stesso modo è stato riformulato l’art. 434 c.p.c. concernente l’appello in relazione alle controversie in materia di lavoro.

Dunque, mancando la motivazione dell’appello (come prima i “motivi specifici”) l’impugnazionesarà dichiarata inammissibile, con conseguente preclusione dell’esame nel merito.

A ben vedere, pare che la norma non introduca un nuovo onere per l’appellante, ma piuttosto glirichieda un maggiore sforzo.

Difatti, già in base al previgente testo della norma, si riteneva pacificamente che l’appellante avesseil duplice onere sia di individuare con chiarezza quelle parti del provvedimento impugnato, sia dimuovere specifiche critiche ad esse.

Così come riformulata, quindi, la disposizione normativa in esame prevede oneri di forma più precisi, che rendono “più impegnativa” l’iniziativa dell’appellante.

Seppur con riferimento all’art. 434 c.p.c., tale visione è stata confermata dai giudici della Corte d’Appello di Roma, che hanno parlato di atto di appello simile a una sentenza. Più precisamente, essi hanno dichiarato che, alla luce delle nuove prescrizioni, l’atto di appello “deve essere redatto in modo più organico e strutturato rispetto al passato, quasi come una sentenza: occorre infatti indicare esattamente al giudice quali parti del provvedimento impugnato si intendono sottoporre a riesame e per tali parti quali modifiche si richiedono rispetto a quanto formato oggetto della ricostruzione del fatto compiuta dal primo giudice” (Corte d’Appello di Roma, sez. lav., 15-29 gennaio 2013, n. 377).

Precisamente, affinché l’impugnazione sia ammissibile il nuovo atto di appello deve presentare i seguenti profili: 1) volitivo: indicazione delle parti della sentenza che si desiderano impugnare; 2)argomentativo: indicazione delle modifiche suggerite alla sentenza pertinenti alla ricostruzione dei fatti di causa; 3) censorio: indicazione delle ragioni per cui si ritiene violata la legge; 4) di causalità: giustificazione del fatto che l’esito della controversia è la conseguenza della violazione di legge evidenziata.

Si ritiene che la norma in questione rappresenti un primo “filtro” al giudizio di appello, che va ad aggiungersi a quello di cui all’art. 348-bis, c.1, c.p.c.

Più nel dettaglio, il primo riguarda la forma ed il contenuto dell’atto richiesti ai fini dell’ammissibilità, mentre il secondo consiste in una valutazione di tipo prognostico circa una “ragionevole probabilità” che le ragioni e contestazioni avanzate dall’appellante non risultinoinfondate.

Fatte le dovute precisazioni, in relazione alla sentenza che ispira il presente contributo, è agevole notare come i giudici, nel valutare la validità dell’impugnazione, non abbiano fatto altro che ribadire quanto statuito dalla giurisprudenza di legittimità in relazione all’appello disciplinato dalla normativa previgente.

Ovviamente, il tutto è stato riaffermato alla luce delle modifiche da ultimo apportate dal legislatore.

Come già accennato, relativamente al vecchio criterio dei “motivi specifici dell’impugnazione”, i giudici della Corte Suprema avevano a più riprese affermato che secondo il principio della specificità dei motivi di impugnazione – richiesta dagli artt. 342 e 434 c.p.c. per l’individuazione dell’oggetto della domanda d’appello – fosse necessario che la domanda contenesse un’esposizione chiara e specifica delle ragioni e delle censure mosse nei confronti del provvedimento impugnato.

Ciò al fine di consentire al Collegio l’individuazione della tesi dell’appellante volta “a incrinare il fondamento logico giuridico” di quella posta a sostegno del provvedimento impugnato (Cass., sez. lav., 27 gennaio 2004, n. 1456 o la più recente Cass., sez. III, 29 maggio 2012,  n. 8548).

Addirittura, secondo gli ermellini l’appellante avrebbe dovuto assolvere un tale onere anche nel caso in cui ad essere censurata fosse stata l’intera sentenza di primo grado.

Una tale soluzione trovava, infatti, giustificazione nella ratio dell’istituto dell’appello: introdurre una “revisio prioris instantiae” e non provocare un “novum iudicium” (così Cass.. civ., sez. III, 21 maggio 2008, n. 13080).

In conclusione, alla luce delle nuove e più stringenti regole dell’impugnazione, nonché dei principi di chiarezza e specificità sanciti dalla giurisprudenza – seppur con riferimento ai vecchi “motivi specifici” – i giudici nel caso in esame hanno deciso per l’inammissibilità dell’appello, poiché “gli appellanti non [avrebbero] in alcun modo “dialogato” con la sentenza … omettendo sia di indicare i motivi specifici che di soddisfare i più gravosi oneri richiesti dalla normativa sopravvenuta nella materia de qua”.

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