Sentenze Cassazione

Calciopoli, direttore e giornalista condannati per aver diffamato Moggi e Giraudo

Calciopoli, direttore e giornalista condannati per aver diffamato Moggi e Giraudo
Suprema Corte di Cassazione V Sezione Penale
Sentenza 11 febbraio – 28 maggio 2014, n. 21845
Presidente Lombardi – Relatore Bevere

La sentenza in commento si riferisce a un episodio particolare della vicenda meglio conosciuta come “calciopoli” scandalo che ha investito il mondo del calcio italiano nel 2006 e che ha coinvolto diverse società professionistiche oltre ad alcuni arbitri ed assistenti.

Tra i vari dirigenti risultavano coinvolti anche Luciano Moggi e Antonio Giraudo (Juventus) che sono stati definiti da un giornalista “killer” e “latitanti” e, proprio per queste parole, la corte di appello di Torino, in parziale riforma della sentenza del tribunale di Torino, confermata la concessione delle attenuanti generiche con giudizio di equivalenza, ha ridotto la pena inflitta agli imputati a €. 450 di multa e a €. 300 di multa confermando nei loro confronti la responsabilità del primo in ordine al reato ex artt. 595 co. 1 e 3 c.p. e 13 L. 47/48 e la responsabilità del secondo in ordine al reato ex artt. 57 e 595 co. 1 e 3 c.p. e 13 L. 47/48, nonché le statuizioni civili in favore dei dirigenti juventini.

Veniva proposto ricorso alla Corte di Piazza Cavour ma gli ermellini che hanno esaminato il caso, dalle risultanze costituite dall’acquisito testo dell’articolo, hanno considerato il contenuto ” lesivo della reputazione dei due personaggi del mondo calcistico“.

Nello specifico, con riferimento alle parole incriminate, la Corte ha affermato che “trattasi di apprezzamenti critici espressi con parole (killer impunita essersi adoperati malavitosamente, ben conosciuti latitanti per via di una giustizia sportiva molto ingiusta), che correttamente la corte di merito ha ritenuto essere stati scelti all’insegna dell’invettiva e del dileggio superando i limiti della continenza. Questo requisito dell’esimente del diritto di critica non può equivalere ad obbligo di utilizzare un linguaggio grigio e anodino, essendo consentito l’uso di espressioni aspre e polemiche, specialmente quando oggetto della censura siano argomenti di ampio e diffuso interesse pubblico. Confine invalicabile è però costituito dal rispetto del bene fondamentale previsto dall’art. 3 della Costituzione per cui la liceità delle espressioni polemiche va esclusa quando si travalichi questo limite della correttezza del linguaggio , calpestando quel minimo di dignità che va riconosciuto ad ogni essere ungano. Nel caso in esame , i giudici di merito con argomentazione logica e costituzionalmente orientata, hanno affermato che il giornalista non ha svolto il corretto ruolo di informazione e di critica, ma ha svolto la funzione di aggressore dell’altrui reputazione con termini inappropriati, slealmente estranei al lessico usuale della polemica sportiva, facilmente sostituibili con altri, ugualmente critici, ma compatibili con civili relazioni umane e sociali“.

Pertanto, dichiarando inammissibile il ricorso, i giudici hanno concluso osservando che “secondo un condivisibile orientamento interpretativo, la valutazione effettuata dai giudici di merito, essendo affidata ad apprezzamenti discrezionali ed equitativi, è incensurabile in sede di legittimità sotto il profilo del vizio della motivazione, in quanto essa non difetta di giustificazione né si discosta macroscopicamente dai dati di comune esperienza, né presenta alcuna contraddittorietà“.

Articolo 595 Codice Penale
Diffamazione

Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a milletrentadue euro.
Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a duemilasessantacinque euro.
Se l’offesa è recata col mezzo della stampa [57-58bis] o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico [c.c. 2699], la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a cinquecentosedici euro.
Se l’offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza, o ad una Autorità costituita in collegio [342], le pene sono aumentate

(Importi incrementati a norma dell’art. 113, c. 1, l. n. 689/1981. Qualora proceda il giudice di pace, si applicano le sanzioni previste ex art. 52, c. 2, lett. a), d.lgs. 274/2000)

In relazione al reato appena citato si consiglia anche di visionare il contributo video della rubrica “L’avvocato risponde” in cui si parla del reato di ingiuria, calunnia e diffamazione – Vai alla pagina

Per conoscere i motivi della decisione

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