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Cassazione, licenziamento legittimo se il dipendente patteggia un processo per violenza sessuale

licenziamento plurimo e collettivoCassazione, licenziamento legittimo se il dipendente patteggia un processo per violenza sessuale
Corte di Cassazione Sezione Lavoro – Sentenza 30 gennaio 2013, n. 2168

La Sezione Lavoro della Suprema Corte di Cassazione trattando un caso di licenziamento ha concluso stabilendo che in sede civile può legittimamente darsi una piena efficacia probatoria alla sentenza di patteggiamento, nel caso in cui l’imputato non contesti la propria responsabilità ma anzi accetti la condanna chiedendone e permettendone l’applicazione.

Per gli ermellini, nel caso in cui il processo penale sia stato definito ai sensi dell’art. 444 c.p.p. (applicazione della pena su richiesta), le risultanze delle indagini preliminari possono essere valutata dal giudice di merito ai fini del proprio convincimento e, nel caso in cui costituiscano violazione dei doveri fondamentali nascenti dal rapporto di lavoro, possono legittimamente permettere al datore di lavoro di licenziare senza preavviso il dipendente.

Il caso esaminato dalla Corte riguardava un dipendente delle Poste Italiane che era stato licenziato senza preavviso perchè aveva patteggiato un processo in cui era imputato per il delitto di violenza sessuale.

Nel merito il ricorso del lavoratore basava la propria difesa sul fatto che in mancanza dell’accertamento probatorio, le questioni scaturenti dal processo penale non potessero avere valenza probatoria in sede civile poiché, a seguito del patteggiamento, i “fatti penali” restavano congelati in una posizione meramente indiziaria, incapaci pertanto di essere assunti a fondamento di una giusta causa di licenziamento anche per il fatto che i fatti contestati, comunque, non avevano alcun riflesso sul rapporto di lavoro.

Questa tesi non è stata condivisa dai Giudici di Piazza Cavour ma neppure da quelli del merito in quanto il ricorso presentato dal lavoratore avverso il licenziamento senza preavviso era stato rigettato sia in primo grado che in appello.

La Cassazione nel respingere le doglianze del lavoratore ha richiamando la sentenza emessa dalla Corte Costituzionale il 18 dicembre 2009, (la n. 336) dove veniva richiamata a sua volta una sentenza delle S.U. Penali della Corte di Cassazione (17781/06), veniva sottolineata l’erroneità della tesi di chi voglia ritenere che gli effetti del patteggiamento debbano ontologicamente differenziarsi da quelli della sentenza ordinaria e, in cui veniva chiaramente rappresentato dal Collegio che la sentenza penale ex art. 444 c.p.p. costituisce elemento di prova per il giudice di merito il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegarne le ragioni.

Sulla base di questo principio la Sezione Lavoro della Suprema Corte di Cassazione ha fondato le motivazioni della sentenza n. 2168 del 30 gennaio 2013 con cui ha respinto le richieste del lavoratore.

Inoltre, la Corte ha precisato che i fatti addebitati al lavoratore nel processo penale, anche se si sono verificati al di fuori del contesto lavorativo, per il forte disvalore sociale che li connota, sono indubbiamente idonei ad avere riflessi negativi sull’immagine dell’Azienda e sulla fiducia della clientela nella correttezza dei suoi dipendenti.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Sentenza 18 dicembre 2012 – 30 gennaio 2013, n. 2168

(Presidente Coletti De Cesare – Relatore Blasutto)

Svolgimento del processo

D.D.A. ha impugnato il licenziamento senza preavviso intimatogli in data 16.5.03 da Poste Italiane in base alla contestazione con cui gli era stato ascritto di essere stato riconosciuto colpevole, con sentenza del Tribunale di Napoli, passata in giudicato del delitto continuato di cui agli artt. 609 bis e 609 septies, comma 4 n. 2, c.p. perché, in esecuzione di un medesimo disegno criminoso in tempi diversi, abusando della qualità di responsabile della comunità religiosa della Chiesa cattolica “(omissis) ” e comunque con violenza consistita in azioni rapide e insidiose tale da superare la contraria volontà delle parti lese, costringeva le predette a subire atti sessuali…”, fatti per i quali era stato condannato alla pena di anni uno e mesi dieci di reclusione. I medesimi fatti, aventi rilevanza non solo penale ma anche disciplinare, riflettendosi indirettamente sul rapporto di lavoro, integravano gravissima violazione dei doveri di cui agli artt. 2104 e 2015 c.c., espressamente richiamati dall’art. 51 c.c.n.l. dell’11.1.2001.

Il lavoratore aveva dedotto l’illegittimità del provvedimento espulsivo in primo luogo perché i fatti oggetto del procedimento penale non potevano considerarsi provati in quanto l’accusa si basava solo sulle dichiarazioni rese dalle due presunte parti lese, non suffragate da alcun elemento di prova e di scarsa attendibilità in considerazione del contesto di abbandono e di degrado socio-culturale in cui vivevano i due dichiaranti, né tali fatti potevano considerarsi accertati in sede penale, in quanto il relativo procedimento era stato definito con sentenza di patteggiamento, la quale non implicava alcuna affermazione di responsabilità; in secondo luogo, perché non poteva affermarsi che i fatti addebitati rivestissero quel carattere di grave negazione degli elementi del rapporto o integrassero una giusta causa di recesso, considerato che le mansioni espletate – di coordinatore di una squadra di circa 27 portalettere – non implicavano contatti con terzi e con il pubblico e venivano espletate esclusivamente all’interno dell’azienda, né avevano alcuna relazione con l’episodio oggetto del procedimento penale, il quale aveva comunque carattere isolato, sicché dal medesimo non poteva desumersi una “mancanza di rettitudine” o una inaffidabilità definitiva all’espletamento delle mansioni ovvero una lesione dell’immagine dell’azienda postale, i cui equilibri interni non potevano essere stati turbati dalla particolare vicenda; infine, perché la sanzione comminata era sproporzionata rispetto ai fatti addebitati, tenuto conto dell’assenza di precedenti disciplinari e del carattere eccezionale dell’episodio, avvenuto al di fuori dell’ambito lavorativo.

La domanda veniva respinta sia in primo grado che in appello.

La sentenza emessa il 1 luglio 2008 dalla Corte di appello di Napoli, è ora impugnata dal D.D. che ne chiede la cassazione articolando cinque motivi, accompagnati da memoria ex art. 378 cod. proc. civ., cui resiste con controricorso la società Poste Italiane, che ha anch’essa depositato memoria illustrativa.

Motivi della decisione

Con il primo motivo si denuncia violazione dei principi di diritto contenuti negli artt. 1 e 6, comma 1 e 3, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nonché degli artt. 2, 3, 24 e 111 Cost. per erronea e falsa applicazione degli artt. 101, 115 e 116 cod., proc. civ. e dell’art. 2797 cod. civ., nonché vizio di motivazione. Il ricorrente formula quesito di diritto con cui chiede a questa Corte se le sommarie informazioni testimoniali raccolte riassuntivamente a verbale nella fase preliminare di un processo penale senza alcun contraddittorio e in assenza del difensore di un imputato che ha ripetutamente negato i fatti, articolando anche una prova del contrario, possano essere da sole assunte in sede civile, senza violare il diritto di difesa e le regole del giusto processo, come prove del commesso reato, per il solo fatto che l’imputato abbia patteggiato la pena o se ciò violi i principi espressi dagli artt. 1 e 6, commi 1 e 3, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e le libertà fondamentali nonché art. 2,3 e 24 della Carta costituzionale e le disposizioni degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. e 2729 c.c. anche in relazione al mancato prudente apprezzamento del giudice, con conseguente nullità della sentenza. Si chiede, inoltre, se il giudice civile, vincolato al sistema normativo delle prove in forza di quanto disposto dall’art. 111 della Costituzione e dell’art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, allorché debba procedere ad un autonomo accertamento con pienezza di cognizione, possa limitarsi, a tale scopo, al semplice riesame del materiale indiziario raccolto in altro processo o se non sia invece obbligato, oltre allo specifico interrogatorio della parte sui fatti contestati, ad ammettere in ordine agli stessi fatti una prova con le garanzie del contraddittorio, in mancanza del quale la sentenza deve ritenersi nulla.

Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione degli artt. 1 e 6 della C.e.d.u. e artt. 2, 3, 24 e 111 Cost., in connessione agli artt. 101 cod. proc. civ., 445 cod. proc. pen., chiedendo a questa Corte se la richiesta di patteggiamento e la conseguente sentenza emessa ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen. implicano sempre per l’imputato un riconoscimento di responsabilità per i fatti contestatigli, tale che essa sentenza possa essere assunta come indiscutibile elemento di prova, da equiparare a confessione di responsabilità dei fatti stessi, nel conseguente processo civile o se invece non debba essere equiparata a un semplice indizio che richiede ulteriori accertamenti probatori in sede civile, ove i fatti contestati non siano stati assunti nel processo penale con le garanzie di legge e nel rispetto del contraddittorio, essendo rimasto integro il suo diritto di difesa e nel rispetto, per quanto attiene alle ipotesi di licenziamento per giusta causa e/o giustificato motivo soggettivo, alle regole sulla prova fissate dalla legge n. 604/66.

Con il terzo motivo si denuncia violazione di legge per erronea interpretazione e falsa applicazione degli art. 115 e 116 cod. proc. civ., nonché degli artt. 2697 e 2729 cod. civ., oltre che vizio logico di motivazione. Il relativo quesito di diritto chiede di stabilire se integri la violazione del combinato disposto di tali norme l’ipotesi in cui il giudice, fondando la sentenza su dichiarazioni rese da parti lese minorenni, non abbia provveduto alla disamina delle dette dichiarazioni ponendo in essere un controllo particolarmente rigoroso, più severo rispetto ad un generico vaglio di credibilità dei testimoni, previa ricostruzione della personalità e della psicologia dei minori e dell’ambiente sociale nel quale sono maturate le accuse e dopo avere condotto un accurato esame, motivando circa l’insussistenza di ogni possibile – nei limiti del ragionevole – ipotesi contraria alla credibilità delle affermazioni e svolgendo, altresì, tutte le necessarie indagini al fine di accertarne la veridicità. Si chiede ulteriormente a questa Corte se, in funzione del prudente apprezzamento cui il giudice è tenuto, in ipotesi di minore imputato per abuso sessuale su altro minore, debba considerarsi logicamente sospetta di credibilità, perché effettuata a tutela di un proprio interesse, la dichiarazione del minore di avere recentemente subito a sua volta violenza sessuale che lo abbia indotto al comportamento di cui è stato imputato, allorché risulti che lo stesso ha subito molestie in famiglia fin dalla più tenera età e se in caso di difforme valutazione non sia venuta meno per il giudice la possibilità di giudicare tra diverse possibili scelte decisionali.

Con il quarto motivo il ricorrente denuncia violazione dell’art. 54 del c.c.n.l. di categoria, nonché degli artt. 1322, 1362, 1363, 1366, 1371 e 1374 cod. civ. e art. 445 cod. proc. civ., chiedendo a questa Corte se, in mancanza di un positivo accertamento della veridicità del fatto reato che ha portato alla sentenza di patteggiamento, l’art. 54 del contratto collettivo di categoria dell’11 gennaio 2001 possa essere interpretato nel senso che consenta sempre il licenziamento del dipendente per il solo fatto che egli abbia patteggiato la pena o se, invece, una tale interpretazione non sia in contrasto, per effetto di quanto previsto dall’art. 1374 cod. civ., con il disposto imperativo dell’art. 445 cod. proc. civ..

Con il quinto motivo si denuncia violazione dell’art. 2119 cod. civ., in relazione all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., chiedendo se possono essere assunti a fondamento di una giusta causa di licenziamento i comportamenti costituenti oggetto di indagine preliminare in un processo conclusosi con sentenza di patteggiamento, senza che gli stessi siano stati prima accertati e confermati in sede civile.

Il ricorso è destituito di fondamento.

Nella sentenza 18 dicembre 2009 n. 336 la Corte Costituzionale ha affermato che la circostanza che l’imputato, nello stipulare l’accordo sul rito e sul merito della regiudicanda penale, accetti una determinata condanna, chiedendone o consentendone l’applicazione, sta univocamente a significare che il medesimo ha ritenuto, a quei fini, di non contestare il fatto e la propria responsabilità. Nel richiamare la sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte 29 novembre 2005, n. 17781/06, ha osservato che con tale pronuncia, all’esito di una diffusa analisi delle mutazioni subite dall’istituto del patteggiamento, le S.U. sono “pervenute alla conclusione di ritenere che, pur non potendosi affermare che quei mutamenti abbiano condotto ad un “processo di vera e propria identificazione tra i due tipi di pronuncia”, gli stessi stanno comunque “univocamente a significare che il regime della equiparazione….. non consente di rifuggire dall’applicazione di tutte le conseguenze penali della sentenza di condanna che non siano categoricamente escluse”. Spetta dunque al legislatore, in questa prospettiva, prescegliere, nei confini che contraddistinguono il normale esercizio della discrezionalità legislativa, quali siano gli effetti che – in deroga al principio “di sistema” che parifica le due sentenze diversificano, fra loro, la sentenza di condanna pronunciata all’esito del patteggiamento rispetto alla condanna pronunciata all’esito del giudizio ordinario”. La Corte costituzionale ha quindi evidenziato l’erroneità della tesi di chi voglia “ritenere che gli effetti del patteggiamento debbano “ontologicamente” differenziarsi da quelli della sentenza ordinaria, salvo le deroghe – espressamente previste – che “assimilino” le conseguenze derivanti dai due tipi di pronunce” (sent. cit.). Ha pure affermato, con riferimento agli artt. 24, secondo comma, e 111, secondo comma, Cost. che “la scelta del patteggiamento, rappresenta un diritto per l’imputato – espressivo, esso stesso del più generale diritto di difesa (…) -, al quale si accompagna la naturale accettazione di tutti gli effetti – evidentemente, sia favorevoli che sfavorevoli – che il legislatore ha tassativamente tracciato come elementi coessenziali all’accordo intervenuto tra l’imputato ed il pubblico ministero ed assentito dalla positiva valutazione del giudice. (….) La circostanza, invero, che l’imputato, nello stipulare l’accordo sul rito e sul merito della regiudicanda, “accetti” una determinata condanna penale, chiedendone o consentendone l’applicazione, sta infatti univocamente a significare che l’imputato medesimo ha ritenuto, a quei fini, di non contestare “il fatto” e la propria “responsabilità” (sent. cit.).

Deve dunque affermarsi che anche la scelta del patteggiamento costituisca essa stessa esercizio del diritto di difesa, da cui consegue che è radicalmente da escludersi che le conseguenze di ordine processuale e sostanziale indotte da tale scelta costituiscano al contempo lesione del diritto di difesa.

Quanto alla valenza probatoria della sentenza di patteggiamento nel giudizio disciplinare, secondo costante giurisprudenza di questa Corte, la sentenza penale di applicazione della pena ex art. 444 cod. proc. pen. costituisce indiscutibile elemento di prova per il giudice di merito il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione (v. tra le più recenti, Cass. n.15889 del 2011). Detto riconoscimento, pur non essendo oggetto di statuizione assistita dall’efficacia del giudicato, ben può essere utilizzato come prova nel corrispondente giudizio di responsabilità in sede civile (Cass. civ., 21 marzo 2003, n. 4193; nello stesso senso, 10 novembre 1998, n. 11301; 24 febbraio 2001, n. 2724; 19 dicembre 2003, n. 19505; 5 maggio 2005, n. 9358; 30 settembre 2005, n. 19251; 26 ottobre 2005, n. 20765).

Benché la sentenza pronunciata a norma dell’art. 444 cod. proc. pen., non sia tecnicamente configurabile come una sentenza di condanna, anche se è a questa equiparata a determinati fini, tuttavia, nell’ipotesi in cui una disposizione di un contratto collettivo faccia riferimento alla sentenza penale di condanna passata in giudicato, ben può il giudice di merito, nell’interpretare la volontà delle parti collettive espressa nella clausola contrattuale, ritenere che gli agenti contrattuali, nell’usare l’espressione “sentenza di condanna”, si siano ispirati al comune sentire che a questa associa la sentenza c.d. “di patteggiamento” ex art. 444 cod. proc. pen., atteso che in tal caso l’imputato non nega la propria responsabilità, ma esonera l’accusa dell’onere della relativa prova in cambio di una riduzione di pena (Cass. n.9458 del 2010; Cass. n. 7866 del 2008).

Qualora il contratto collettivo di lavoro preveda l’applicazione della sanzione disciplinare del licenziamento nell’ipotesi di “condanna” del dipendente, l’irrogazione della sanzione medesima non è preclusa dall’assenza di una sentenza penale passata in cosa giudicata, ed è per converso sufficiente che nei confronti del dipendente sia stata pronunciata sentenza che disciplina l’applicazione della pena su richiesta delle parti (c.d. patteggiamento), ex art. 444 cod. proc. pen. (v. Cass. n. 4060 del 2011, emessa in fattispecie in cui era stata applicata la sanzione espulsiva ai sensi dell’art. 54 del c.c.n.l., di un impiegato postale che aveva “patteggiato” la pena; cfr. pure Cass. n. 12804 del 1999, n. 10318 del 2002).

Alla stregua di tali principi, le censure che involgono questioni di diritto circa la prova del fatti ascritti, sono del tutto infondate, potendosi così riassumere i principi qui espressi.

In sede civile può legittimamente attribuirsi piena efficacia probatoria alla sentenza di patteggiamento, atteso che in tal caso l’imputato non nega la propria responsabilità e accetta una determinata condanna, chiedendone o consentendone l’applicazione, il che sta univocamente a significare che il medesimo ha ritenuto di non contestare il fatto e la propria responsabilità, dovendo invece il giudice civile – nel caso in cui non intenda attribuire tale efficacia alla sentenza di patteggiamento – spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione.

Quando, come nel caso dell’art. 54 dei contratto collettivo di lavoro dei dipendenti di Poste Italiane dell’11 gennaio 2001, le parti collettive abbiano previsto l’applicazione della sanzione disciplinare del licenziamento nell’ipotesi di “condanna” del dipendente, è sufficiente che nei confronti del lavoratore sia stata pronunciata sentenza di patteggiamento ex art. 444 cod. proc. pen., dovendo ritenersi che le parti contrattuali abbiano voluto – con tale previsione – dare rilievo anche al caso in cui l’imputato non nega la propria responsabilità ed esonera l’accusa dall’onere della relativa prova in cambio di una riduzione di pena.

La questione posta con i quesiti riguardanti la possibilità di assumere come elementi di prova nel giudizio civile le sommarie informazioni assunte in sede di indagini preliminari è anch’essa infondata.

Il giudice civile, ai fini del proprio convincimento, può autonomamente valutare, nel contraddittorio tra le parti, ogni elemento dotato di efficacia probatoria e, dunque, anche le prove raccolte in un processo penale e, segnatamente (come è avvenuto nella specie), le dichiarazioni verbalizzate dagli organi di polizia giudiziaria in sede di sommarie informazioni testimoniali (Cass. n. 22020 del 2007). Nell’accertamento della sussistenza di determinati fatti e della loro idoneità a costituire giusta causa di licenziamento, il giudice del lavoro può fondare il suo convincimento sulle dichiarazioni testimoniali assunte nel corso delle indagini preliminari, anche se sia mancato il vaglio critico del dibattimento ove il procedimento penale sia stato definito ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen., potendo la parte, del resto, contestare, nell’ambito del giudizio civile, i fatti così acquisiti in sede penale (Cass. n. 132 del 2008).

Si evince dalla sentenza impugnata che il materiale probatorio raccolto nel procedimento penale era stato “ritualmente acquisito” nel giudizio civile per effetto del provvedimento adottato dal Tribunale, “non oggetto di contestazione alcuna ad opera delle parti” le quali ebbero la “facoltà di esaminare la relativa documentazione e di estrarne copia”. Il giudice di appello ha dunque affermato che era stato “pienamente garantito il diritto di difesa ed il principio del contraddittorio” con riguardo alla acquisizione agli atti di tali elementi di prova. (Ndr: testo originale non comprensibile)

La censura secondo cui la Corte di appello avrebbe violato i principi di diritto di cui agli artt. 115, 116 cod. proc. civ. e artt. 2697 cod. civ. non è fondata, atteso che gli elementi di prova utilizzati dal giudice per la formazione del proprio convincimento – tutti legittimamente acquisiti al giudizio civile – sono stati motivatamente valutati e raccordati tra loro secondo un ordine logico nemmeno specificamente censurato dal ricorrente.

Il giudice del merito ha esaminato in dettaglio le risultanze delle indagini preliminari ed ha altresì ritenuto non plausibile la spiegazione data dal D.D. alla sua rinuncia a contestare i fatti ascrittigli in sede penale; ha ritenuto rilevanti le dichiarazioni dei testi sentiti nel corso delle indagini ed è giunto così alla conclusione che gli elementi raccolti fossero sufficientemente precisi e concordanti, univocamente convergenti nella dimostrazione dei gravi fatti oggetto dell’imputazione; ha osservato che tutto questo comportava la violazione dei doveri fondamentali scaturenti dal rapporto di lavoro e legittimava il recesso senza preavviso.

Il giudice di merito ha dunque coordinato e valutato tutti gli elementi ritualmente acquisiti al processo per concludere che i fatti, per il “forte disvalore sociale” che li connotava, erano “indubbiamente idonei ad avere negativi riflessi sull’immagine dell’Azienda, tra l’altro titolare di un servizio pubblico capillarmente diffuso e sulla fiducia della clientela nella correttezza dei suoi dipendenti, tanto più ove si consideri il notevole rilievo dato alla vicenda dagli organi di stampa, taluni dei quali anche a diffusione nazionale, i cui articoli hanno dato particolare risalto alla qualità di dipendente delle Poste del D.D. “. Ha osservato che il D.D. , in quanto coordinatore di circa trenta unità addette al recapito, aveva una posizione di responsabilità e preminenza rispetto ai componenti della squadra e proprio in relazione a tali funzioni assumeva rilievo il fatto che le condotte poste in essere fossero connotate da un “abuso delle funzioni di guida e responsabilità connesse alla veste di capo della comunità religiosa”.

In tema di valutazione delle risultanze probatorie in base al principio del libero convincimento del giudice, la violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all’art. 360, primo comma, numero 5, cod. proc. civ., e deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità (Cass. n. 14267 del 2006; cfr. pure Cass. 12 febbraio 2004 n. 2707).

Nell’iter logico suddetto non si evidenza alcuna aporia, né incongruenza; la sentenza, ampiamente e logicamente argomentata, risulta immune da qualsiasi vizio motivazionale.

L’ultimo motivo di impugnazione è inammissibile in quanto, contestando apparentemente la definizione della giusta causa prospetta una questione che, ancora una volta, concerne la valutazione e l’apprezzamento delle prove, contestandosi che i fatti la cui conoscenza sia stata acquisita in sede di indagine preliminare possano essere assunti a fondamento di una giusta causa di licenziamento.

Il ricorso va respinto, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi ed Euro 50,00 per esborsi, oltre accessori di legge.

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About Avv. Giuseppe Tripodi (1645 Articles)
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