Sentenze Cassazione

Chiamare troppo spesso le forze dell’ordine potrebbe costituire reato

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Chiamare troppo spesso le forze dell’ordine potrebbe costituire reato
Corte di Cassazione Sezione V Penale
Sentenza 13 maggio – 21 ottobre 2015, n. 42392
Presidente Lombardi – Relatore Miccoli

Ritenuto in fatto

1. Con la sentenza impugnata la Corte d’appello di Firenze, in data 11 dicembre 2013, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato estinto il reato di molestie contestato a R.C. e ha confermato la sua affermazione di responsabilità per il reato di lesioni in danno di C.S. (fatti commessi in data 17 marzo 2007), di conseguenza rideterminando la pena inflitta.
Con la sentenza di primo grado l’imputata era stata condannata anche al risarcimento dei danni e al rimborso delle spese in favore della parte civile.
2. Con atto sottoscritto dal suo difensore, R.C. ha proposto ricorso affidato ai seguenti tre motivi:
2.a. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla sussistenza del reato di cui all’art. 660 cod. pen. e con riferimento alle statuizioni civili.
Erroneamente, secondo la ricorrente, i giudici di merito avevano qualificato come “molestie” le numerose richieste di intervento rivolte alla locale stazione dei carabinieri e l’uso (peraltro consigliato dagli stessi carabinieri) di una videocamera al fine di documentare il sospetto “via vai” denunziato dall’imputata nei pressi della propria abitazione.
Peraltro non sarebbe sussistente, secondo la ricorrente, il requisito della condotta commessa “in un luogo pubblico o aperto al pubblico”, perché i fatti sono accaduti nell’abitazione della ricorrente o in quella della C. .
2.b. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla affermazione di responsabilità per il reato di lesioni.
La ricorrente si duole della mancata applicazione degli artt. 52 e 59 cod. pen., sostenendo che la corretta ricostruzione dei fatti comporterebbe la configurabilità nella sua condotta della legittima difesa o comunque l’esimente putativa di cui all’art. 59 cod. pen..
2.c. Violazione di legge in relazione alla mancata concessione delle attenuanti generiche.
La ricorrente si lamenta del fatto che la Corte territoriale ha giustificato il diniego delle attenuanti generiche solo in considerazione del suo comportamento processuale.

Considerato in diritto

Il ricorso va accolto nei limitati termini qui di seguito indicati.
1. Manifestamente infondati sono i primi due motivi di ricorso, giacché sono finalizzati ad una inammissibile rilettura dei fatti come ricostruiti dai giudici di merito.
A questa Corte non possono essere sottoposti giudizi di merito, non consentiti neppure alla luce del nuovo testo dell’art. 606, lettera e), cod. proc. pen.; la modifica normativa di cui alla legge 20 febbraio 2006 n. 46 lascia inalterata la natura del controllo demandato alla Corte di cassazione, che può essere solo di legittimità e non può estendersi ad una valutazione di merito. Il nuovo vizio introdotto è quello che attiene alla motivazione, la cui mancanza, illogicità o contraddittorietà può essere desunta non solo dal testo del provvedimento impugnato, ma anche da altri atti del processo specificamente indicati; è perciò possibile ora valutare il cosiddetto travisamento della prova, che si realizza allorché si introduce nella motivazione un’informazione rilevante che non esiste nel processo oppure quando si omette la valutazione di una prova decisiva ai fini della pronunzia. Attraverso l’indicazione specifica di atti contenenti la prova travisata od omessa, si consente nel giudizio di cassazione di verificare la correttezza della motivazione.
Più approfonditamente, si è affermato che la specificità dell’art. 606, lett. e), cod. proc. pen., dettato in tema di ricorso per Cassazione al fine di definirne l’ammissibilità per ragioni connesse alla motivazione, esclude che tale norma possa essere dilatata per effetto delle regole processuali concernenti la motivazione, attraverso l’utilizzazione del vizio di violazione di legge di cui al citato articolo, lett. c). E ciò, sia perché la deducibilità per Cassazione è ammessa solo per la violazione di norme processuali stabilita a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza, sia perché la puntuale indicazione di cui al punto e) ricollega ai limiti in questo indicati ogni vizio motivazionale; sicché il concetto di mancanza di motivazione non può essere utilizzato sino a ricomprendere ogni omissione od errore che concernano l’analisi di determinati, specifici elementi probatori (Sez. 3, n. 44901 del 17/10/2012, F., Rv. 253567).
Tanto premesso, occorre rilevare che i motivi proposti dalla ricorrente in relazione alla responsabilità per entrambi i reati a lei ascritti si limitano a censurare la sentenza impugnata, che avrebbe ritenuto sulla base di erronea valutazione delle risultanze processuali sussistente la sua responsabilità sia per i fatti di molestie che per quello di lesioni.
In sede di legittimità non è consentita una diversa lettura ed interpretazione delle risultanze processuali finalizzata alla ricostruzione dei fatti. Né la Corte di cassazione può trarre valutazioni autonome dalle prove o dalle fonti di prova, neppure se riprodotte nel provvedimento impugnato. Solo l’argomentazione critica che si fonda sugli elementi di prova e sulle fonti indiziarie contenuta nel provvedimento impugnato può essere sottoposto al controllo del giudice di legittimità, al quale spetta di verificarne la rispondenza alle regole della logica, oltre che del diritto, e all’esigenza della completezza espositiva (Sez. 6, n. 40609/2008, Rv. 241214, Ciavarella).
L’esame del provvedimento impugnato consente di apprezzare come la motivazione sia congrua ed improntata a criteri di logicità e coerenza. La Corte territoriale ha risposto specificamente a tutte le censure della ricorrente in ordine alla ricostruzione dei fatti, con argomenti in relazione ai quali non si ravvisano vizi di “travisamento delle prove”.
Né va trascurato nel caso in esame che la sentenza impugnata ha confermato in punto di responsabilità quella di primo grado, sicché vanno ricordati i principi secondo i quali, in tema di ricorso per cassazione, quando ci si trova dinanzi a una “doppia pronuncia conforme” e cioè a una doppia pronuncia (in primo e in secondo grado) di eguale segno (vuoi di condanna, vuoi di assoluzione), l’eventuale vizio di travisamento può essere rilevato solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti (con specifica deduzione) che l’argomento probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado (Sez. 4, n. 4060 del 12/12/2013, Capuzzi e altro, Rv. 258438).
Va giusto precisato in ordine al profilo contestato dalla ricorrente in relazione alla fattispecie di cui all’art. 660 cod. pen., che, ai fini della configurabilità del reato di molestia o disturbo alle persone, si intende aperto al pubblico il luogo cui ciascuno può accedere in determinati momenti ovvero il luogo al quale può accedere una categoria di persone che abbia determinati requisiti. Ne consegue che devono essere considerati luoghi aperti al pubblico l’androne di un palazzo e la scala comune a più abitazioni. (Sez. 1, n. 28853 del 16/06/2009, Leonini, Rv. 244301).
Nel caso in esame e secondo la ricostruzione dei fatti evincibile dalle sentenze dei giudici di merito, l’imputata ha morbosamente controllato, effettuando anche videoriprese, quanto avveniva nell’abitazione delle persone offese e nelle aree circostanti quest’ultima.
Inoltre, in ordine alle censure relative alla affermazione di responsabilità per il reato di lesioni, si rileva che non risultano proposte specificatamente con l’atto di appello le questioni in ordine alla mancata applicazione degli artt. 52 e 59 cod. pen..
Peraltro, alla luce della ricostruzione dei fatti operata dai giudici di merito, non sindacabile in questa sede, non sussistono affatto i presupposti per ritenere sussistente una ipotesi di legittima difesa o comunque l’esimente putativa di cui all’art. 59 cod. pen..
2. Fondato è il motivo relativo alla mancata concessione delle attenuanti generiche, mentre di ufficio si deve rilevare che è stata applicata una pena illegale (sulla rilevabilità di ufficio della questione si veda Sez. 5, n. 3945 del 13/11/2002, De Salvo, Rv. 224220), essendo stati irrogati tre mesi di reclusione.
2.1. Partendo dall’esame di tale ultimo profilo, si evidenzia che, in seguito alla declaratoria di estinzione del reato di molestie è residuata l’affermazione della responsabilità penale per il reato di lesioni personali semplici, sicché la pena edittale da considerare doveva essere quella della multa, poiché a norma dell’art. 63 D.Lgs. n. 274 del 2000, nei casi in cui i reati indicati nell’art. 4, commi 1 e 2, sono giudicati da un giudice diverso dal giudice di pace, vanno applicate le norme del titolo secondo, riguardante le sanzioni applicabili dal giudice di pace (si veda in materia Sez. 5, n. 30523 del 09/05/2014, P S, Rv. 260490; Sez. 5, n. 13589 del 19/02/2015, P.G. in proc. B, Rv. 262943).
Non essendovi alcuna precisazione sul punto, si deve ritenere che la decisione impugnata abbia applicato la pena detentiva alla fattispecie in considerazione della connessione delle lesioni con la contravvenzione di molestie, ancorché prescritta, di competenza del Tribunale; connessione che farebbe rivivere la pena edittale della reclusione.
Tale assunto è erroneo: proprio allo scopo di evitare incertezze interpretative, il citato art. 63 estende l’applicazione delle pene più lievi introdotte dal medesimo testo normativo anche al giudizio davanti ad un giudice diverso, senza alcuna deroga in caso di connessione.
Anche se non fosse intervenuta l’estinzione della contravvenzione, il risultato non sarebbe stato diverso.
Le Sezioni Unite (Sez. U, n. 25939 del 28/02/2013, Ciabotti, Rv. 255347) hanno affermato che, in tema di reato continuato, la violazione più grave va individuata in astratto in base alla pena edittale prevista per il reato contestato ritenuto sussistente dal giudice in concreto, sia pure in rapporto alle singole circostanze in cui la fattispecie si è manifestata e all’eventuale giudizio di comparazione fra di esse. Precedentemente si era affermato che in ogni caso il delitto è da considerare sempre più grave della contravvenzione e ciò anche nel caso in cui quest’ultima sia punita con una pena edittale di maggiore quantità rispetto a quella prevista per il delitto (Sez. U, n. 4901 del 27/03/1992, Cardarilli, Rv. 191128), in relazione al quale il giudizio di maggior gravità discende direttamente dalle scelte del legislatore (Sez. U, n. 15 del 26/11/1997, Varnelli, Rv. 209485).
2.2. Come si è già detto, fondato è il motivo di doglianza riguardante il diniego delle attenuanti generiche.
La Corte territoriale si è limitata a rigettare l’analogo motivo di appello con una motivazione non esaustiva, facendo riferimento solo al “negativo comportamento processuale tenuto dalla imputata”.
Le Sezioni Unite di questa Corte hanno affermato che, ai fini del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, il pieno esercizio del diritto di difesa, se faculta l’imputato al silenzio e persino alla menzogna, non lo autorizza, per ciò solo, a tenere comportamenti processualmente obliqui e fuorvianti, in violazione del fondamentale principio di lealtà processuale che deve comunque improntare la condotta di tutti i soggetti del procedimento, e la cui violazione è indubbiamente valutabile da parte del giudice di merito. (Fattispecie nella quale il diniego delle predette circostanze attenuanti era stato motivato evidenziando il censurabile comportamento processuale dell’imputato, improntato a reticenza ed ambiguità). (Sez. U, n. 36258 del 24/05/2012, P.G. e Biondi, Rv. 253152).
Tuttavia nel caso in esame la Corte territoriale non da conto di un comportamento dell’imputata che abbia violato il principio di lealtà processuale e il generico riferimento al “negativo comportamento” non consente di controllare la correttezza della valutazione effettuata.
E in proposito giova ribadire il principio secondo cui il diniego delle circostanze attenuanti generiche non può fondarsi esclusivamente sulla valutazione negativa della mancanza di collaborazione da parte dell’imputato, che costituisce espressione di scelte difensive non valutabili, in quanto riconducibili all’esercizio del diritto di difesa (Sez. 6, n. 44630 del 17/10/2013, Faga, Rv. 256963).
3. In conclusione la sentenza impugnata va annullata, con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Firenze, per la motivazione in ordine al diniego delle attenuanti generiche e per la rideterminazione della pena secondo i principi di diritto sopra evidenziati.

P.Q.M.

La corte annulla la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Firenze per nuovo esame. Rigetta nel resto.

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