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Differenze tra dolo eventuale e colpa cosciente

Suprema Corte di Cassazione I Sezione Penale Sentenza 14776/2018

Differenze tra dolo eventuale e colpa cosciente
Suprema Corte di Cassazione I Sezione Penale
Sentenza 14776/2018
 
corte di cassazione civile
 
La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza che di seguito si riporta, ha avuto modo di spiegare le differenze esistenti tra il cd. dolo eventuale e la colpa cosciente:
 
Sentenza 22 giugno 2017 – 3 aprile 2018, n. 14776
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
 
Dott. NOVIK Adet Toni – Presidente –
 
Dott. VANNUCCI Marco – Consigliere –
 
Dott. SANDRINI Enrico G. – rel. Consigliere –
 
Dott. BONI Monica – Consigliere –
 
Dott. COCOMELLO Assunta – Consigliere –
 
ha pronunciato la seguente: SENTENZA
 
sul ricorso proposto da:
 
B.M.P.P., nato il (OMISSIS);
 
P.P.F., nato il (OMISSIS);
 
ISTITUTO CLINICO CITTA’ STUDI SPA (I.C.C.S.);
 
avverso la sentenza del 21/12/2015 della CORTE ASSISE APPELLO di MILANO;
 
visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsI;
 
udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. ENRICO GIUSEPPE SANDRINI;
 
Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dr. ANIELLO ROBERTO che conclude per il rigetto dei ricorsi di B.M.P.P., P.P.F. e del responsabile civile ricorrente.
 
Uditi i difensori:
 
L’Avv. Gianluca Sala, difensore della parte civile costituita Z.S., deposita in udienza,conclusioni, nota spese con decreto di ammissione al patrocinio a spese dello stato e note di udienza e insiste per il rigetto dei ricorsi con conseguente condanna al pagamento delle ulteriori spese sostenute in questo grado di giudizio.
 
L’Avv. Giovanna Lamantia, difensore delle parti civili costituite S.M., C.G.G. e Ca.An. eredi di C.P., deposita in udienza atto di nomina e procura speciale della parte civile S.M., conclusioni e nota spese e insiste per il rigetto di tutti i ricorsi con conseguente condanna al pagamento delle ulteriori spese sostenute nel presente grado di giudizio.
 
L’Avv. Paolo Sorlini, difensore della parte civile costituita Be.Em., deposita in udienza
comparsa conclusionale della parte civile, conclusioni e nota spese e insiste per il rigetto di tutti i ricorsi con conseguente condanna al pagamento delle ulteriori spese sostenute nel presente grado di giudizio. L’Avv. Antonella Forloni, difensore della parte civile costituita Regione Lombardia e in qualità di sostituto processuale dell’Avv. Marco Marzari difensore della parte civile costituita G.G., dell’Avv. Simona Norreri difensore della parte civile costituita ATS Milano (già ASL città di Milano) e dell’Avv. Giuliano Pisapia difensore della parte civile costituita Medicina Democratica ONLUS, deposita in udienza per tutti conclusioni e nota spese e anche note di udienza per conto dell’avvocato Marco Marzari e insiste per il rigetto di tutti i ricorsi con conseguente condanna al pagamento delle ulteriori spese sostenute nel presente grado di giudizio.
 
L’Avv. Paolo Veneziani difensore del responsabile civile Istituto Clinico Città Studi S.p.A. conclude per l’annullamento della sentenza impugnata con ogni conseguente statuizione.
 
L’Avv. Titta Madia, difensore di B.M.P.P., insiste per l’accoglimento del ricorso.
 
L’Avv. Luigi Fornari, difensore di B.M.P.P., insiste per l’accoglimento del ricorso.
 
L’Avv. Mauro Mocchi, difensore di P.P.F., insiste per l’accoglimento del ricorso.
 
Svolgimento del processo
 
La sentenza d’appello.
 
1. Con sentenza in data 21.12.2015 la Corte d’assise d’appello di Milano, in parziale riforma della sentenza pronunciata il 9.04.2014 dalla Corte d’assise di Milano, ha statuito come segue per quanto riguarda gli imputati e le imputazioni agli stessi ascritte che interessano nella presente sede di legittimità.
 
1.1. Ha condannato l’imputato B.M.P. alla pena dell’ergastolo, con isolamento diurno per la durata di anni 1 e mesi 6, in relazione a quattro episodi di omicidio volontario, aggravati ex art. 61 c.p., n. 2 dal nesso teleologico col reato di truffa aggravata (dichiarato prescritto all’esito del giudizio di merito) consistito nella percezione di indebiti rimborsi per prestazioni sanitarie fornite dalla casa di cura di appartenenza, mediante la falsa rappresentazione che le patologie per le quali erano stati ricoverati i pazienti avevano un’univoca indicazione chirurgica, costituita in particolare dall’esecuzione di interventi di chirurgia toracica, privi di giustificazione in ordine alla reale patologia e alle condizioni fisiche del paziente; nonchè in relazione a tre episodi di lesioni personali dolose, aggravate dal medesimo nesso teleologico e dalla messa in pericolo della vita dei pazienti.
 
1.2. In particolare gli omicidi ascritti a B.M. sono quelli di:
 
– S.A., di anni (OMISSIS), ascritto al capo 46;
 
– V.C.G., di anni (OMISSIS), ascritto al capo 47;
 
– Sc.Ma.Lu., di anni (OMISSIS), ascritto al capo 48;
 
– D.G.E., di anni (OMISSIS), ascritto al capo 49.
 
1.3. Gli episodi di lesione personale aggravata, per i quali è stata confermata la condanna,
sono relativi:
 
– al secondo intervento, eseguito l’11.11.2005, su F.S., di anni (OMISSIS), ascritto al capo 22;
 
– all’intervento eseguito il 27.07.2005 su D.V.A., di anni 80, ascritto al capo 23;
 
– all’intervento eseguito il 24.05.2006 su C.P., di anni 73, ascritto al capo 31.
 
1.4. La sentenza di secondo grado ha altresì condannato P.P.F. alla pena di anni 24 mesi 4 di reclusione (l’indicazione erronea della pena di anni 25 contenuta nel dispositivo è stata emendata con la procedura di correzione di errore materiale, come dato atto nella motivazione della sentenza), a titolo di concorso negli omicidi S. e V.C., ascritti ai capi 46 e 47, e nel delitto di lesione personale aggravata di cui al capo 31 in danno di C.P..
 
1.5. I reati sono stati ascritti a B.M. in qualità di dirigente medico, responsabile dell’unità operativa di chirurgia toracica; a P. in qualità di componente della medesima equipe chirurgica, in veste di cooperatore negli interventi che avevano integrato le condotte incriminate ai capi 31, 46 e 47.
 
1.6. La sentenza d’appello ha individuato il reato più grave a carico di B.M. nell’omicidio D., unificando tutti i fatti sotto il vincolo della continuazione; ha negato all’imputato le attenuanti generiche in ragione della sistematicità delle condotte, del tentativo di fuorviare le indagini nei propri confronti, dell’assenza di elementi positivi ravvisabili nel comportamento processuale, della finalità di lucro che aveva orientato l’attività illecita; reato più grave a carico di P. è stato ritenuto l’omicidio V.C., previa conferma delle attenuanti generiche già riconosciute in primo grado con giudizio di equivalenza all’aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 2.
 
1.7. Sono state applicate inoltre le pene accessorie di legge e confermate le statuizioni civili (salvo la revoca di quelle per le quali erano intervenute transazioni con le parti civili) a carico degli imputati e del responsabile civile I.C.C.S. (nuova denominazione assunta dalla Casa di cura Santa Rita s.p.a.).
 
1.8. La sentenza ha inoltre dichiarato non doversi procedere per intervenuta estinzione del reato per prescrizione nei confronti di B.M. e di P. (oltre che degli altri originari imputati) con riguardo a una serie di reati di truffa aggravata e falso ideologico, nonchè per numerosi altri episodi di lesioni personali dolose, per i quali sono state confermate le statuizioni civili.
 
I fatti oggetto del processo e le valutazioni compiute dalla sentenza d’appello.
 
2. I reati ascritti agli imputati hanno tratto origine dalle indagini svolte in relazione all’attività svolta da B.M. e da P. (oltre che da Pa.Ma., chirurgo toracico nei cui riguardi le imputazioni sono state dichiarate prescritte) in qualità di medici del reparto di chirurgia toracica delle case di cura milanesi Santa Rita, prima, e San Carlo (quanto ai soli B.M. e P.), poi; l’accusa era quella di aver eseguito gli interventi incriminati in assenza di indicazione chirurgica e di valido consenso informato dei pazienti, al fine di far conseguire in modo fraudolento alla casa di cura presso cui i chirurghi operavano rimborsi non dovuti dalla Regione Lombardia, mediante richieste di SDO ideologicamente false, cagionando lesioni dolose ai pazienti e in alcuni casi il loro volontario decesso.
 
2.1. Le indagini avevano condotto alla formulazione di una prima serie di imputazioni per lesioni volontarie anche pluriaggravate, truffa e falso a carico di B.M. e P., con riferimento alla
medesima attività da essi svolta presso la Casa di cura Santa Rita, relativamente a 88 interventi chirurgici, che hanno costituito oggetto di altro processo penale conclusosi con sentenza definitiva di condanna degli imputati, acquisita al presente giudizio.
 
Le indagini erano scaturite dai dubbi insorti sulla correttezza delle richieste di rimborso degli interventi di chirurgia presentate dalla Casa di cura Santa Rita, presso la quale negli anni 2004-2005 era stato riscontrato un aumento anomalo degli interventi operatori e del valore di produzione, ritenuto inspiegabile a fronte dell’aumento accreditato di soli sette posti letto; era emerso altresì un numero elevato di decessi di pazienti, la cui impennata trovava rispondenza nell’aumento degli interventi chirurgici; l’attività di intercettazione aveva consentito di accertare che gli interventi chirurgici erano stati effettivamente eseguiti, e che non si trattava di prestazioni simulate.
 
2.2. Gli accertamenti contenuti nella sentenza di condanna che aveva definito il primo processo avevano confermato la natura sistematica dell’omissione degli step diagnostici, l’assenza di confronto coi medici di altre specialità prima di eseguire gli interventi chirurgici, le informazioni lacunose e fuorvianti fornite ai pazienti in sede di raccolta del consenso informato, la sistematicità del ricorso agli interventi chirurgici più invasivi e ai regimi di prestazione più onerosi, tutti elementi riscontrati anche nel presente giudizio.
 
2.3. La sentenza d’appello riportava i contenuti salienti della decisione di primo grado e delle risultanze istruttorie sulle quali la stessa si fondava, nonchè i contenuti degli atti di impugnazione degli imputati e del responsabile civile.
 
2.4. La Corte distrettuale ha esaminato anzitutto le questioni proposte dal responsabile civile I.C.C.S., rigettandole; ha rigettato le questioni sollevate sulla ammissibilità ed utilizzabilità delle consulenze tecniche del pubblico ministero; ha respinto l’istanza di rinnovazione del dibattimento mediante espletamento di perizia sulla fondatezza delle analisi tecniche dei consulenti dell’accusa, richiamando le motivazioni con cui questa Corte Suprema aveva rigettato l’analogo motivo di doglianza proposto dalla difesa degli imputati nell’altro processo definito con sentenza irrevocabile.
 
2.5. La sentenza d’appello ha dato conto dei criteri generali, mutuati dalla giurisprudenza di legittimità e specificamente dalla precedente sentenza di questa Corte (sia pure pronunciata con esclusivo riguardo a fattispecie di lesioni dolose, e non di omicidio) ai quali si è attenuta nella valutazione della condotta medico-chirurgica degli imputati, al fine di escluderne la liceità e di vagliarne il relativo elemento psicologico.
 
Le risultanze istruttorie avevano consentito di accertare il meccanismo di funzionamento del c.d. “sistema Santa Rita”, in cui la massimizzazione dei profitti, attraverso il sistema dei rimborsi pubblici delle prestazioni, era stata perseguita non già simulando l’esecuzione di interventi chirurgici in realtà mai effettuati, ma ricorrendo in modo sistematico ed esasperato alla chirurgia anche quando essa non era utile o necessaria, in particolare su pazienti anziani, defedati o affetti da gravi patologie, con aspettative di vita brevi o non particolarmente elevate, subordinando all’interesse economico quello della salute del paziente ricoverato, eseguendo interventi inutili e privi di qualsiasi indicazione operatoria, scegliendo sistematicamente l’approccio chirurgico, anche in sede diagnostica, in luogo di altri meno invasivi e meno remunerativi, ed escludendo a priori il ricorso ad accertamenti e terapie meno aggressive; la sentenza ha valorizzato sul punto anche i contenuti delle conversazioni captate riguardanti gli imputati, in particolare il B.M..
 
2.6. La Corte distrettuale ha dato conto della corretta esecuzione tecnica di molti interventi in regime di VATS o altre metodiche specifiche, ma ha censurato il dato rilevante rappresentato dalla non necessità del relativo intervento operatorio, riscontrata in una elevata percentuale di casi scrutinati, che aveva trovato conforto nelle risultanze dell’attività di captazione, dimostrative, secondo i giudici di merito, dell’esercizio doloso di un’attività chirurgica animata da esclusivo fine di profitto economico e non di tutela della salute del paziente o da finalità curative o anche solo palliative.
 
2.7. La sentenza d’appello ha esaminato nel dettaglio i singoli fatti oggetto del processo, per categorie di interventi, a partire dalle fattispecie imputate a titolo di lesioni dolose, per la maggior parte delle quali ha dichiarato la prescrizione del reato nel frattempo maturata, confermando le relative statuizioni civili.
 
Ha quindi esaminato i quattro episodi di omicidio volontario, confermando la condanna pronunciata in primo grado e ritenendo provato il nesso causale tra l’operato dei chirurghi e la morte dei pazienti, nonchè l’animus necandi nella forma del dolo eventuale, in conformità alle condotte descritte nei relativi capi di imputazione.
 
I ricorsi per cassazione degli imputati e del responsabile civile.
 
3. Avverso la sentenza d’appello hanno proposto ricorso per cassazione, a mezzo dei rispettivi difensori, gli imputati B.M.P. e P.P.F., nonchè il responsabile civile Istituto Clinico Città Studi s.p.a. (I.C.C.S.), nuova denominazione assunta dalla Casa di cura Santa Rita.
 
3.1. Il ricorso proposto nell’interesse di B.M.P. dall’avv. Titta Madia deduce sette motivi di doglianza.
 
Il primo motivo lamenta vizio di motivazione in relazione agli artt. 603 e 215 c.p.p., con riguardo all’immotivato diniego della rinnovazione dell’istruzione dibattimentale per procedere alla perizia medico-chirurgica chiesta dalla difesa dell’imputato; lamenta la mancata nomina di un collegio peritale da parte tanto del giudice di primo che di secondo grado, nonostante l’importanza fondamentale dei requisiti di imparzialità, e indipendenza di giudizio, degli esperti ai quali era affidata la soluzione di questioni tecniche in una materia estremamente specialistica come l’attività medico-chirurgica; rileva che i consulenti del pubblico ministero, le cui valutazioni erano state valorizzate sul piano probatorio dai giudici di merito, avevano partecipato alle indagini ed erano influenzati dalla finalità accusatoria perseguita dall’organo requirente che aveva affidato loro l’incarico; censura l’argomento con cui la sentenza impugnata aveva ritenuto inutile la perizia affermando di essere in grado di risolvere con gli ordinari strumenti logici il contrasto tra i consulenti delle parti ravvisabile nei singoli casi, contrasto che in realtà era stato sempre risolto mediante il passivo recepimento delle tesi dei consulenti della pubblica accusa; rileva che i consulenti della difesa erano altrettanto esperti e prestigiosi di quelli dell’accusa; lamenta il diniego della richiesta di esame dei consulenti tecnici d’ufficio nominati nelle cause civili riguardanti i casi dei pazienti D.P., Z. e L., oggetto del precedente giudizio penale, i quali in tutti e tre i casi avevano contraddetto le conclusioni dei consulenti del pubblico ministero, escludendo profili di colpa nella condotta del ricorrente e riconoscendo che gli interventi erano provvisti di indicazione chirurgica; la motivazione con cui era stata rigettata la richiesta di perizia era perciò manifestamente illogica, fino a rivelarsi inesistente, perchè compendiata in frasi di stile che non tenevano conto dell’eccezionale complessità e della delicatezza della materia demandata al giudizio tecnico dei consulenti, rappresentata dalla misura del rischio consentito in chirurgia toracica, in rapporto al bilanciamento rischi-benefici; il radicale contrasto esistente tra i consulenti dell’accusa e quelli
della difesa esigeva l’espletamento di una perizia, alla stregua del disposto dell’art. 220, non possedendo il giudice di merito le complesse informazioni specialistiche necessarie per dirimere il relativo contrasto.
 
Il secondo motivo lamenta mancanza di motivazione sulla ritenuta responsabilità dell’imputato per i reati di lesioni personali e omicidio volontario, con riguardo all’individuazione del discrimine tra un intervento chirurgico imprudente o imperito, anche gravemente, e un intervento del tutto abnorme, scriteriato e avulso da ogni logica chirurgica, riconducibile perciò a un elemento soggettivo di natura dolosa, che la sentenza gravata aveva ritenuto sulla base di giudizi di valore immotivati; rileva che l’assenza di una ragionevole indicazione terapeutica dell’intervento, valorizzata dai giudici di merito, non eccede la soglia del comportamento imprudente o imperito, e lamenta l’omessa indicazione del criterio valutativo seguito per stabilire il superamento del limite della colpa e lo sconfinamento nel dolo; censura la mancata risposta ai criteri indicati dalla difesa nella memoria presentata prima della discussione orale; rileva che la giurisprudenza aveva attribuito natura di lesioni volontarie ai soli interventi chirurgici assolutamente privi di giustificazione terapeutica; la sentenza impugnata aveva ricondotto la responsabilità professionale del chirurgo all’ipotesi dolosa, in luogo di quella colposa, con riguardo a ciascun caso di intervento effettuato in violazione, anche grave, di regole di prudenza, in termini generici e indeterminati, riscontrabili in più punti della motivazione (riportati dal ricorrente nelle parti ritenute più significative); nessuno degli altri medici coinvolti nei singoli interventi chirurgici, in particolare gli anestesisti, era mai intervenuto, del resto, a bloccare l’intervento che si supponeva abnorme; il ricorrente censura l’omesso confronto col tema della distinzione tra chirurgia aggressiva e imprudente, accettata da tutto il personale medico che aveva collaborato con l’imputato, e quella macroscopicamente estranea a ogni scelta terapeutica.
 
Il terzo motivo lamenta mancanza di motivazione sulle deduzioni difensive volte a contestare la causale di profitto o di ambizione personale che avrebbe animato la condotta dell’imputato, il numero elevato e la sistematicità delle condotte incriminate, l’assenza di consenso informato dei pazienti, tutti elementi che i giudici di merito avevano valorizzato a titolo di prova indiziaria del dolo.
 
Il ricorrente censura la pedissequa reiterazione degli assunti della sentenza di primo grado da parte del giudice d’appello, senza confrontarsi con gli argomenti difensivi; deduce la riconducibilità della venalità dell’azione, o comunque del suo fine egoistico, a una causale solo colposa, richiamando sul punto i principi affermati dalle Sezioni Unite di questa Corte nella sentenza sul caso Thyssen; anche la sistematicità della condotta dimostrava solo un’imprudenza seriale, mentre era stata provata l’esistenza dei modelli di consenso informato, ritualmente firmati, per ciascun intervento chirurgico; rileva la scarsa attendibilità delle dichiarazioni dei familiari dei pazienti operati sulla mancata comprensione del rischio chirurgico.
 
Il quarto motivo lamenta mancanza di motivazione sulle deduzioni difensive riguardanti le intercettazioni telefoniche, nonchè l’illogicità della motivazione sulle cartelle cliniche c.d. “pompate”, falsificate (in tesi accusatoria) al fine di ottenere e massimizzare rimborsi non spettanti; censura l’omesso esame in dibattimento del prof. L., le cui dichiarazioni al telefono erano state valorizzate come fondamentale elemento d’accusa, nonchè l’errata valutazione dei contenuti delle frasi pronunciate al telefono dalla dott.ssa Ga. e dal coimputato Pa., il cui reale significato era stato spiegato in sede di esame in termini che ne elidevano la valenza accusatoria; deduce l’incongruenza dell’ipotizzato ricorso a interventi chirurgici abnormi, a fronte della ritenuta consuetudine di falsificare le cartelle cliniche a scopo di profitto.
 Il quinto motivo (che è stato rubricato, nuovamente, come quarto dal ricorrente) lamenta mancanza e manifesta illogicità della motivazione con riguardo alla ritenuta sussistenza del reato di omicidio volontario e dell’elemento psicologico del dolo eventuale, censurando la valorizzazione dello scopo di profitto perseguito dall’imputato come prova dell’animus necandi e l’abnormità di ritenere animata da dolo omicidiario una condotta del chirurgo diretta a perseguire (in tesi) solo un fine truffaldino; il ricorrente richiama i principi affermati da questa Corte nella sentenza Thyssen sull’errore logico di trarre elementi di prova della personalità dell’imputato dalla venalità e dall’ambizione che ne avevano connotato la condotta, rilevando l’assenza di un’indagine psichiatrica sul prevenuto, che sarebbe stata necessaria a fronte dell’ipotesi di una serie di omicidi commessi per lucrare somme modeste di denaro o per mantenere i ritmi della sala operatoria; ribadisce l’apparenza e la genericità della motivazione sulla ritenuta accettazione dolosa della morte dei pazienti come effetto della condotta chirurgica, sulla base di addebiti tipicamente significativi di un comportamento solo imprudente, negligente e azzardato; censura l’illogicità della pretesa di trarre elementi di prova dell’elemento soggettivo del reato dalla volgarità delle espressioni utilizzate al telefono dall’imputato, significative solo di un approccio spregiudicato alla professione; deduce l’incongrua valorizzazione della morte post operatoria di altri pazienti per i quali era stato escluso il nesso causale con la condotta dell’imputato.
 
Il ricorrente censura l’omessa considerazione da parte della sentenza impugnata di un indice importante del dolo eventuale, rappresentato dalle conseguenze negative destinate a prodursi anche per l’agente in caso di verificazione dell’evento, nonchè del rischio lecito connaturato all’attività chirurgica, la cui esasperazione è idonea a integrare un atteggiamento colposo, ma non necessariamente l’accettazione dell’evento letale; l’eccessiva autostima e fiducia, anche irragionevole, nelle proprie capacità, fino a rasentare l’incoscienza, nutrita dall’imputato, che era stata valorizzata dalla sentenza impugnata, non eccedeva la colpa grave, e i giudici di merito non si erano confrontati con la c.d. formula di Frank, secondo cui può ravvisarsi il dolo eventuale solo se sia possibile ritenere che l’agente non si sarebbe trattenuto dalla condotta illecita neppure se avesse avuto contezza della sicura verificazione dell’evento.
 
Il sesto motivo (rubricato come quinto nel ricorso) lamenta mancanza di motivazione con riguardo al diniego delle attenuanti generiche, frutto di giudizi sommari che non avevano tenuto conto che l’incentivo alla ricerca del profitto mediante l’attività chirurgica costituiva oggetto di una direttiva dei vertici della clinica, alla quale il personale medico non poteva sottrarsi, nè dell’incidenza della minore intensità del dolo eventuale nel giudizio ex art. 133 c.p..
 
Il settimo motivo (rubricato come sesto nel ricorso), infine, sollecita l’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite della Corte, in virtù della speciale importanza e della novità del problema giuridico posto sui limiti della scelta chirurgica, in relazione al rispetto del principio di gradualità, alla mancata opzione per terapie meno invasive, alla distinzione tra condotte dolose e colpose nell’esercizio dell’attività medico chirurgica, con riguardo al precedente destinato a formarsi su tali argomenti.
 
3.2. Il ricorso proposto nell’interesse di B.M. Pierpaolo dall’avv. Luigi Fornari deduce una serie di doglianze, che ai sensi dell’art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1, possono essere sintetizzate nei termini che seguono.
 
Il ricorso premette che il profilo fattuale rappresentato dall’assenza di un valido consenso informato dei pazienti agli interventi chirurgici incriminati non aveva fatto parte della
contestazione mossa all’imputato nei capi d’imputazione, essendo la condotta addebitata sotto l’esclusivo profilo dell’assenza di indicazione chirurgica degli interventi effettuati dall’equipe dell’imputato; deduce che l’impostazione dichiarata della sentenza impugnata (in sè astrattamente condivisibile), di verificare nei singoli casi concreti la validità delle conclusioni dei consulenti dell’accusa, non aveva avuto reale applicazione, essendosi il giudice d’appello limitato a recepire e riassumere i contenuti della sentenza di primo grado, senza confrontarsi coi rilievi difensivi, così violando il principio del contraddittorio scientifico e rendendo una motivazione illogica; l’imputato e la sua equipe operatoria avevano compiuto nel periodo esaminato diverse centinaia di interventi, per gran parte dei quali lo scrutinio investigativo degli stessi consulenti dell’accusa aveva confermato l’indicazione chirurgica; deduce la necessità di acquisire la prova scientifica ogni oltre ragionevole dubbio della mancanza di qualsiasi plausibile indicazione chirurgica degli interventi censurati; rilevando che solo dopo aver conseguito, con scrutinio rigoroso, la relativa prova, incidente sulla sussistenza del fatto, era legittimo accertare le finalità che avevano animato l’attività del chirurgo e indagarne l’elemento psicologico; lamenta il disinteresse manifestato dalla sentenza impugnata, tradottosi in un’omessa motivazione, per la formazione chirurgica dell’imputato e per la casistica delle sue esperienze operatorie precedenti presso l’istituto dei tumori di Milano, dove si svolgevano interventi analoghi a quelli incriminati e dove la chirurgia diagnostica costituiva parte integrante della routine operatoria.
 
Il ricorso procede quindi all’esame delle singole imputazioni di omicidio, deducendo per tutte i vizi di omessa, illogica e contraddittoria motivazione sui presupposti della responsabilità dell’imputato, con particolare riguardo ai temi dell’indicazione chirurgica e dell’affidamento riposto nella correttezza delle pregresse valutazioni dei colleghi; lamenta violazione degli artt. 40, 43 e 575 c.p., con riferimento all’elemento soggettivo del reato e al travisamento del quadro probatorio, nonchè l’inosservanza dell’art. 533 c.p.p..
 
Il ricorrente, con argomentazioni dettagliate, censura, con specifico riferimento all’oggetto dei singoli interventi e alle relative metodiche, sia l’omessa, incongrua o erronea valutazione della questione decisiva riguardante la presenza o meno di un’indicazione chirurgica, alla stregua dei principi e delle linee guida in materia, da apprezzarsi in relazione alla concreta patologia del paziente, tenendo conto dell’indicazione non solo diagnostica, ma anche curativa, risolutiva o palliativa dell’intervento chirurgico (che costituisce strumento di cura dei tumori mediante la loro asportazione, indubbiamente destinata a incidere sulle aspettative di vita del paziente) rispetto alle alternative esistenti, nonchè delle controindicazioni di eventuali metodiche alternative; censura il ricorso della sentenza impugnata a elementi di scienza privata, l’omesso confronto con le deduzioni difensive e con le osservazioni dei consulenti della difesa, l’acritico recepimento delle motivazioni della sentenza di primo grado e delle conclusioni dei consulenti del pubblico ministero; censura l’ascrivibilità della natura erronea, imperita, imprudente, o comunque non conforme alle leges artis, della scelta chirurgica a una determinazione dolosa del chirurgo e della sua equipe; contesta gli elementi dai quali i giudici di merito avevano ricavato la prova della natura volontaria dell’omicidio, nonostante il presidio cautelare rappresentato dalla presenza di altri operatori, in primis gli anestesisti, preposti a monitorare le condizioni del paziente e l’operato del chirurgo, durante l’intervento e la fase postoperatoria; sotto tale profilo, il ricorso deduce l’assenza di prova dell’animus necandi, postulante la dimostrazione che l’imputato avesse un tale interesse ad eseguire l’intervento e a conseguirne il relativo profitto economico da essersi determinato ad agire nonostante la rappresentazione e l’accettazione preventiva della morte del paziente come evento ingiusto, decidendo razionalmente di dare prevalenza comunque all’interesse economico; ciò appariva particolarmente illogico nel caso Sc., dove la censura dell’operato dell’imputato, consistito nell’esecuzione contestuale di un duplice intervento di talcaggio, che aveva ridotto in maniera
eccessiva la capacità respiratoria del paziente, contrastava apertamente con l’ipotizzato fine di tornaconto economico della condotta, che, se esistente, avrebbe postulato l’esecuzione di due interventi distinti, in conformità alle linee guida, che avrebbero consentito di lucrare un duplice DRG chirurgico.
 
Il danno alla propria immagine professionale e a quella della struttura in cui l’imputato operava, nonchè i rischi giudiziari e risarcitori derivanti dalla morte del paziente a seguito dell’intervento, erano elementi di cui si doveva tenere conto nella valutazione in ordine alla consapevole accettazione dell’evento da parte, dell’agente, il cui esame era stato completamente omesso dalla sentenza impugnata, che non aveva valutato l’assenza di controindicazioni all’intervento chirurgico provenienti dagli altri medici, specialisti, che avevano avuto in cura il paziente o ne avevano segnalato il caso all’imputato.
 
Il ricorrente lamenta che la sentenza d’appello non aveva preso una posizione scientificamente motivata, mediante l’ausilio di esperti da essa nominati, sulle questioni tecniche controverse, affidandosi acriticamente alle valutazioni dei consulenti dell’accusa, e talora addirittura a elementi di scienza privata; lamenta l’omessa risposta alle censure difensive in ordine alla sussistenza del nesso causale tra la condotta del chirurgo e la morte del paziente; censura, in particolare, l’illogicità dell’assoluzione del coimputato Pa. per assenza di dolo dall’omicidio Sc., nonostante la partecipazione all’intervento operatorio, del quale avrebbe dovuto condividere necessariamente l’assoluta abusività ipotizzata dall’accusa e ritenuta dalla sentenza impugnata.
 
Con riferimento ai tre episodi di lesioni personali per i quali era stata pronunciata condanna, il ricorso lamenta, oltre all’assenza di motivazione sulla natura abusiva degli interventi e sulla sussistenza del dolo, la violazione dell’art. 583 c.p., n. 1 con riguardo al ritenuto pericolo di vita corso dai pazienti, postulante la prova di un crollo effettivo dei parametri vitali.
 
Il ricorrente deduce infine l’avvenuta prescrizione dei fatti di lesione volontaria già al momento della decisione di secondo grado, censurando l’erronea applicazione dell’art. 63 c.p., comma 4.
 
4. Il ricorso proposto dall’avv. Mauro Mocchi nell’interesse di P.P.F. deduce quattro motivi di doglianza, che possono a loro volta essere di seguito sintetizzati ex art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1.
 
I primi tre motivi deducono censure speculari e in larga misura sovrapponibili a quelle dei ricorsi proposti nell’interesse del coimputato B.M. (in particolare dall’avv. Fornari), con riferimento ai tre fatti – due di omicidio volontario e uno di lesioni personali aggravate dall’aver messo in pericolo la vita della vittima – per i quali il P. è stato condannato in concorso.
 
In particolare, il ricorrente deduce violazione degli artt. 192 e 238 bis c.p.p., art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e) e artt. 40, 41, 43 e 59 c.p., art. 61 c.p., n. 3, art. 582 c.p., art. 583 c.p., comma 1, art. 584 c.p., nonchè vizio della motivazione, lamentando – da parte della sentenza impugnata – la violazione dei principi dettati in tema di elemento soggettivo del reato, l’inosservanza dei criteri ricavabili dalle leggi scientifiche di copertura e dalle norme tecniche in ordine agli interventi chirurgici eseguiti, alla loro indicazione e liceità, al relativo rischio operatorio, alla sussistenza del nesso causale con la morte (o le lesioni) del paziente, all’esistenza di un consenso informato all’operazione chirurgica; censura il mancato espletamento della perizia richiesta dalla difesa e lamenta, infine, la violazione degli artt. 62 bis e 69 c.p., nonchè il vizio di motivazione relativo al diniego della prevalenza delle attenuanti generiche.
 5. Il ricorso proposto nell’interesse del responsabile civile Istituto Clinico Città Studi s.p.a. (I.C.C.S.) dal difensore e procuratore speciale avv. Paolo Veneziani deduce sette motivi di doglianza (che di seguito si sintetizzano ex art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1), coi quali lamenta, limitatamente alle posizioni delle parti civili A.S.L. Milano, Be.Em., C.G.G. e Ca.An., G.G., Medicina Democratica, Regione Lombardia e S.M.:
 
– l’erroneità della ritenuta sussistenza della legittimazione passiva del responsabile civile nel processo penale, in quanto potenziale destinatario di condanna risarcitoria ex art. 185 c.p. per i reati commessi dai medici operanti nella struttura ospedaliera, sotto il profilo della natura contrattuale della responsabilità dell’ente nei confronti dei pazienti curati nella struttura in forza del contratto d’opera professionale stipulato con gli stessi al momento del ricovero, preclusiva della concorrente soggezione a responsabilità extracontrattuale per fatto illecito del terzo, azionata dalle parti civili nel presente giudizio;
 
– la violazione degli artt. 83 e 84 c.p.p. con riguardo alla condanna del responsabile civile al risarcimento dei danni in favore della parte civile Be.Em., che non aveva provveduto alla vocatio in ius;
 
– difetto di giurisdizione, violazione di legge e vizio di motivazione con riguardo alla condanna del responsabile civile al risarcimento dei danni in favore delle parti civili Regione Lombardia e A.S.L. di Milano, con particolare riferimento al danno all’immagine patito dall’ente pubblico, il cui eventuale riconoscimento rientrava nella giurisdizione della Corte dei Conti e non in quella del giudice ordinario;
 
– erroneità della decisione e vizio di motivazione con riguardo alla condanna del responsabile civile al risarcimento dei danni in favore della parte civile Medicina Democratica, sotto il profilo dell’insussistenza della prova di un danno risarcibile subito dal predetto ente esponenziale;
 
– violazione di legge, in relazione agli artt. 40 e 43 c.p., e vizio di motivazione con riguardo all’affermazione di responsabilità degli imputati B.M. e P. per l’omicidio di S.A., e alla conseguente condanna del responsabile civile al risarcimento dei danni in favore della parte, civile S.M., sotto il profilo dell’insussistenza della condotta illecita ascritta ai medici-chirurghi;
 
– violazione di legge, in relazione all’art. 582 c.p., e vizio di motivazione con riguardo all’affermazione di responsabilità degli imputati B.M. e P. per il reato di lesione personale in danno di C.P., e alla conseguente condanna del responsabile civile al risarcimento dei danni in favore delle parti civili C.G.G. e Ca.An., sotto il profilo dell’insussistenza della condotta illecita ascritta ai medici-chirurghi;
 
– violazione di legge, in relazione all’art. 582 c.p., e vizio di motivazione con riguardo alla declaratoria di estinzione per prescrizione del reato di lesione personale in danno di G.G., ascritto agli imputati B.M., P. e Pa., e alla conseguente condanna del responsabile civile al risarcimento dei danni in favore della persona offesa costituita parte civile, che era stata confermata dalla sentenza d’appello, sotto il profilo dell’insussistenza della condotta illecita ascritta ai medici-chirurghi.
 
6. Con successiva memoria, depositata il 6.06.2017, i difensori dell’imputato B.M.P. hanno insistito, in via subordinata, per l’annullamento della sentenza d’appello sotto il profilo del vizio di motivazione e dell’inosservanza degli artt. 43 c.p. e art. 192 c.p.p., comma 2 relativamente al dolo eventuale di omicidio, censurando l’omessa risposta della Corte distrettuale alle
deduzioni difensive basate sulla sopravvenienza della sentenza n. 38343 del 24/04/2014 delle Sezioni Unite di questa Corte e sui principi in essa affermati, con particolare riguardo al punto relativo alla necessità dell’accertamento storico che l’agente avesse accettato, prestando un’adesione psicologica effettiva, la possibilità di verificazione dell’evento mortale, accertamento che risultava del tutto carente nella sentenza impugnata.
 
Motivi della decisione
 
Il ricorso proposto nell’interesse dell’imputato B.M. dall’avv. Titta Madia.
 
1. Il primo motivo di ricorso è infondato.
 
1.1. Premesso che il riferimento alla violazione dell’art. 215 c.p.p. (in tema di ricognizione di cose), contenuto nell’intestazione del motivo di impugnazione, appare del tutto inconferente, il vizio di motivazione lamentato dal ricorrente con riguardo all’omesso espletamento della perizia medico-chirurgica chiesta dalla difesa, mediante la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale nel giudizio d’appello, non sussiste.
 
Costituisce orientamento consolidato di questa Corte che la perizia rappresenta un mezzo di prova per sua natura neutro e sottratto alla disponibilità delle parti, estraneo alla nozione di prova decisiva e rimesso alla discrezionalità del giudice nell’esercizio della sua prudente valutazione, tanto che il relativo diniego non è censurabile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d) (ex plurimis, Sez. 2 n. 52517 del 3/11/2016, Rv. 268815; Sez. 4 n. 14130 del 22/01/2007, Rv. 236191; Sez. 4 n. 4981 del 5/12/2003, Rv. 229665); consegue che la valutazione compiuta dal giudice d’appello, in ordine alla completezza dell’istruttoria dibattimentale e alla sua idoneità a consentire di decidere allo stato degli atti senza necessità di disporre un accertamento peritale, costituisce esplicazione di un tipico giudizio di fatto, rimesso all’apprezzamento del giudice di merito, che non è sindacabile dalla Corte di cassazione se sorretto da una congrua e coerente motivazione.
 
In particolare, anche quando occorre procedere a un apprezzamento probatorio implicante la valutazione di dati tecnico-scientifici, il giudice di merito, nel prudente esercizio del proprio libero convincimento, è legittimato a scegliere, tra le diverse tesi prospettate dai consulenti tecnici delle parti, quella che ritiene fondata e condivisibile alla stregua delle complessive risultanze istruttorie, pur in assenza di una perizia d’ufficio e senza necessità di disporne l’espletamento ex art. 220 c.p.p., purchè dia conto, con motivazione particolarmente accurata e approfondita, delle ragioni della scelta operata, nonchè del contenuto della tesi disattesa e delle deduzioni contrarie delle parti; con la conseguenza che, ove il relativo apprezzamento sia effettuato in modo congruo e adeguato, alla Corte di cassazione non è consentito procedere a una differente valutazione, trattandosi di un accertamento di fatto che non è sindacabile in sede di legittimità (Sez. 4 n. 8527 del 13/02/2015, Rv. 263435; Sez. 4 n. 34747 del 17/05/2012, Rv. 253512).
 
Ciò che si richiede al giudice di merito, in definitiva, è l’esistenza di una specifica e coerente motivazione sulle ragioni dell’adesione all’una, piuttosto che all’altra, valutazione scientifica, fondata sui dati processuali, espressa dai consulenti tecnici delle parti, mentre rimane incensurabile – in sede di legittimità – la decisione di non dare corso a un incarico peritale, argomentata sulla scorta di un giudizio di esaustività del materiale acquisito e di sicura affidabilità probatoria delle conclusioni su tali basi raggiunte.
 
1.2. La sentenza impugnata, la cui motivazione si salda sul punto a quella della decisione di
primo grado concorrendo a formare con essa un unico, conforme, corpo argomentativo (Sez. 3 n. 44418 del 16/07/2013, Rv. 257595; Sez. 2, n. 5606 del 10/01/2007, Rv. 236181), ha dato ampio e congruo conto, con argomentazioni logiche e dettagliate, delle ragioni per le quali non ha giudicato necessario disporre perizia sull’esistenza – o meno – di una giustificazione medicochirurgica degli interventi operatori incriminati eseguiti dagli imputati, ritenendo acquisita la prova della loro estraneità a qualsiasi finalità diagnostica, terapeutica o (anche solo) palliativa sulla scorta delle complessive emergenze istruttorie, costituite anche (ma non solo) dalle indicazioni, di natura sia fattuale che valutativa e supportate da letteratura scientifica, fornite dai consulenti tecnici del pubblico ministero nel corso delle rispettive deposizioni, provenienti da specialisti delle singole tipologie di interventi chirurgici esaminati, muniti di indiscussa autorevolezza scientifica ed esperienza professionale nel settore (in ragione tanto dei titoli accademici e di studio, quanto del numero e della casistica degli interventi chirurgici effettuati), ritenuti tali da legittimarne l’oggettiva affidabilità probatoria.
 
Le critiche rivolte nel ricorso all’indipendenza di giudizio dei consulenti nominati dal pubblico ministero sono state formulate in termini generici e di stile, basate sull’assioma di un pregiudizio accusatorio che non si è tradotto nella concreta indicazione delle valutazioni tecniche che ne sarebbero risultate condizionate; sul punto, deve essere ribadito il principio, più volte affermato da questa Corte, secondo cui il consulente tecnico nominato dal pubblico ministero, ex art. 359 c.p.p., in quanto soggetto estraneo all’amministrazione della giustizia che non assume la qualità di ausiliario, non è incompatibile con l’ufficio di testimone (Sez. 3 n. 8377 del 17/01/2008, Rv. 239282; Sez. 6 n. 33810 del 26/04/2007, Rv. 237156; Sez. 3 n. 14794 del 17/02/2004, Rv. 228530) e può perciò essere esaminato nel dibattimento ai sensi dell’art. 501 del codice di rito, rendendo dichiarazioni che, indipendentemente dallo svolgimento dell’incarico in ambito peritale ovvero extraperitale (come nella specie), hanno il medesimo valore probatorio di quelle testimoniali (Sez. 3 n. 8377 del 17/01/2008, Rv. 239281) e sono soggette alle stesse regole di valutazione.
 
Dalla lettura della sentenza d’appello emerge che la Corte distrettuale non ha proceduto ad alcun generalizzato e acritico recepimento delle valutazioni dei consulenti del pubblico ministero, ma si è confrontata in ogni singolo caso esaminato con le diverse prospettazioni e valutazioni della difesa e dei suoi consulenti, pervenendo alla formulazione del proprio giudizio finale sull’assenza di giustificazione dell’intervento chirurgico, in concreto eseguito, sulla scorta di un apprezzamento e di un vaglio complessivo di tutti gli elementi di prova – di natura dichiarativa, storica e critica – acquisiti, in termini logicamente coerenti che non sono sindacabili dalla Corte di legittimità.
 
1.3. Parimenti infondata è la censura secondo cui l’espletamento della perizia chiesta dalla difesa sarebbe stato imposto dalla complessità delle questioni scientifiche oggetto di giudizio, rispetto alle quali il giudice di merito deve ritenersi privo degli indispensabili strumenti specialistici di cognizione:
 
occorre, invero, ribadire l’incensurabilità della decisione con cui il giudice, nel contrasto tra opposte tesi scientifiche, all’esito di un accurato e completo esame delle diverse posizioni, ne privilegi una, purchè dia congrua ragione della scelta compiuta e dimostri di aver vagliato le tesi non accolte (Sez. 4 n. 15493 del 10/03/2016, Rv. 266787), motivando in modo adeguato la propria decisione in sintonia con gli elementi probatori acquisiti, specie se – come nel caso in esame la tesi accolta sia sostenuta da esperti autorevoli, partecipi del dibattito processuale in veste di consulenti di una delle parti (Sez. 4 n. 46428 del 19/04/2012, Rv. 254073), così da giustificare l’esclusione della necessità della perizia all’esito di un coerente percorso argomentativo.
 Dalla motivazione della sentenza impugnata non emerge, del resto, l’esistenza, nei casi concretamente esaminati, di punti di vista scientifici inestricabilmente contrapposti, sulle questioni relative alla giustificazione o meno del ricorso all’intervento chirurgico in presenza delle patologie riscontrate o sospettate nei pazienti, che non fossero sceverabili dal giudice di merito con l’ausilio degli ordinari strumenti logici e degli elementi di valutazione apportati dagli esami dei consulenti tecnici, dati i presupposti storici e di fatto probatoriamente acquisiti; così che, anche sotto questo profilo, il mero richiamo alla diversità delle conclusioni dei propri consulenti, rispetto a quelli del pubblico ministero, operato dalla difesa del ricorrente, non è idoneo a intaccare la tenuta logica della decisione della Corte distrettuale di non disporre perizia.
 
1.4. Inconferente si rivela, infine, la deduzione difensiva che lamenta il mancato esame, nel presente giudizio, dei consulenti tecnici d’ufficio nominati nelle cause civili concernenti i casi dei pazienti D.P., Z. e L., in quanto le condotte ascritte all’imputato con riguardo ai predetti tre soggetti hanno costituito oggetto di contestazione e sono state definitivamente giudicate in altro processo penale a carico di B.M., come dato atto nel ricorso (alla pagina 6), così che l’eventuale approfondimento istruttorio sul punto, invocato dal ricorrente, sarebbe destinato a risolversi in un’indagine sul contrasto tra il relativo giudicato penale e le (diverse) conclusioni raggiunte dai CTU in sede civile, correttamente ritenuta superflua nel presente giudizio.
 
2. Il secondo motivo di ricorso è infondato nella parte in cui lamenta l’omessa motivazione della sentenza impugnata sulla – ritenuta – assenza di giustificazione degli interventi chirurgici incriminati e sulla conseguente natura dolosa dell’attività del medico-chirurgo, sostanziatasi in una mera condotta lesiva dell’integrità fisica del paziente riconducibile al paradigma legale dell’art. 582 c.p. censura che è stata dedotta con specifico riguardo alla mancata individuazione da parte dei giudici di merito del discrimen esistente tra, l’elemento psicologico di natura (anche gravemente) colposa e quello di natura dolosa.
 
2.1. Sul punto, occorre rilevare che la Corte distrettuale ha fatto esatto richiamo ed applicazione dei principi di diritto già affermati da questa Corte Suprema nella sentenza n. 35104 del 22.06.2013 (che è stata acquisita formalmente, come dato atto alla pagina 2 della motivazione della sentenza impugnata) pronunciata in altro processo celebrato per condotte del tutto analoghe a quelle oggetto del presente giudizio, conclusosi con la condanna definitiva degli imputati B.M. e P. per il reato (tra gli altri) di cui all’art. 582 c.p. con riferimento a una serie numerosa di interventi chirurgici similari, eseguiti dai prevenuti nel medesimo arco temporale presso la casa di cura Santa Rita di Milano e caratterizzati da identiche modalità e finalità, costituite dall’assenza di qualsiasi indicazione chirurgica e dall’esclusivo scopo di profitto che aveva animato la condotta e la scelta operatoria: si tratta di principi che devono essere qui ribaditi, in presenza degli stessi – accertati – presupposti di fatto ed elementi costitutivi della condotta.
 
In particolare, è stato affermato il principio che l’intervento chirurgico, se non è posto in essere con finalità terapeutica, non costituisce più un atto medico, e la condotta operatoria non si differenzia, perciò, in tal caso, da quella di chiunque leda in modo consapevole e volontario l’integrità fisica di una persona, così che l’atto operatorio – il quale non si inserisca quale segmento di una più ampia condotta terapeutica idonea di per sè a legittimarlo ex art. 32 Cost. riprende la sua autonomia al fine della valutazione della capacità di cagionare una lesione personale rilevante ex art. 582 c.p.; la finalità terapeutica, propria dell’attività medicochirurgica, connota infatti, in maniera determinante, la stessa oggettività dell’atto, prima ancora della sua soggettività, perchè è quella che lo rende orientato alla realizzazione di un
beneficio per la salute del paziente con l’effetto di rendere lecito l’intervento, mentre – di contro l’estraneità dell’atto a ogni scelta terapeutica si traduce sempre in una condotta produttiva di una (non consentita) alterazione funzionale dell’organismo del paziente, indipendentemente dalla finalità concretamente perseguita dall’agente.
 
La motivazione della sentenza impugnata risulta, dunque, corretta ed esaustiva nella parte in cui – in conformità ai principi sanciti nel citato, e sovrapponibile, precedente giurisprudenziale specifico di questa Corte (n. 35104 del 2013) – ha affermato che solo nel caso in cui l’attività medico-chirurgica sia sorretta da una ragionevole indicazione terapeutica, o tale indicazione sia ritenuta in buona fede dall’agente comunque sussistente, con valutazione ex ante, la relativa attività deve considerarsi in via di principio lecita e sindacabile sotto l’esclusivo profilo della colpa, in ipotesi di errore operatorio ascrivibile a negligenza, imprudenza o imperizia; nel caso, invece, in cui l’intervento operatorio sia posto in essere in assenza di qualsiasi ragionevole indicazione terapeutica, con condotta consapevolmente estranea o distorta rispetto alle finalità diagnostiche o di cura, la condotta del medico-chirurgo è destinata a risolversi in un’ordinaria attività lesiva di natura dolosa; l’intervento chirurgico non orientato a una finalità terapeutica, anche solo di natura palliativa, non costituisce un atto medico trovante la sua legittimazione nell’art. 32 Cost., così che non si differenzia dalla condotta di chiunque leda volontariamente l’integrità fisica altrui; in particolare, la natura consapevolmente lesiva della condotta deve ravvisarsi non solo nei casi in cui l’intervento chirurgico non sia contemplato, alla stregua dei criteri generalmente accettati dalla comunità scientifica, tra le prestazioni somministrabili in relazione alla patologia da cui è affetto il paziente, ma anche nel caso di deliberato allontanamento dalle linee guida accreditate scientificamente, procedendo come prima scelta e in assenza di accertamenti diagnostici propedeutici a un intervento invasivo, ovvero saltando tutti gli step previsti senza attendere l’esito degli esami di laboratorio ed effettuando resezioni o biopsie del tutto inutili, ovvero ancora ricorrendo in modo indiscriminato alla chirurgia diagnostica senza prima aver affrontato la patologia del paziente con le tecniche e i presidi meno afflittivi prescritti dalla scienza medica.
 
2.2. La prova della volontà di ricorrere a interventi chirurgici privi di ogni indicazione terapeutica è stata puntualmente ricavata anche dalla concorrente assenza di un valido consenso informato all’atto operatorio da parte del paziente, la cui corretta formazione postula la previa rappresentazione delle alternative diagnostiche o terapeutiche possibili, in mancanza della quale l’efficacia scriminante del consenso risulta neutralizzata; la contrarietà dell’intervento operatorio alla volontà effettiva del paziente, a fronte di un consenso acquisito in maniera indebita e arbitraria, che sia funzionale all’esecuzione di un intervento estraneo a finalità terapeutiche, priva la condotta del medico-chirurgo del requisito dell’autolegittimazione, travalicando i limiti della colpa e integrando l’elemento psicologico del dolo, che consiste nell’accettazione piena e consapevole, in via preventiva, dell’evento lesivo concretamente verificatosi, realizzando il delitto di cui all’art. 582 c.p. (Sez. 4 n. 21799 del 20/04/2010, Rv. 247341, secondo cui integra il reato di lesione personale dolosa la condotta del medico che sottoponga, con esito infausto, il paziente a un trattamento chirurgico al quale costui abbia espresso il proprio dissenso).
 
Il dolo necessario e sufficiente per la configurazione del delitto di lesione personale è, infatti, quello generico, che prescinde dall’individuazione della finalità (non terapeutica) perseguita dall’agente (dal medico-chirurgo, nel caso in esame), che può rilevare invece sul (diverso) terreno della prova, bastando allo scopo l’accertata estraneità a ogni indicazione e scelta terapeutica dell’intervento operatorio, destinato a incidere, alterandola, sull’integrità fisica del paziente.
 2.3. I giudici di merito hanno esaminato e argomentato, in modo dettagliato e puntuale, la ricorrenza del medesimo modus e animus operandi, di natura dolosa, con riguardo alle diverse tipologie di interventi chirurgici eseguiti oggetto di giudizio, per i quali è stata riscontrata l’assenza di qualsiasi giustificazione e utilità diagnostica o terapeutica, nei termini indicati.
 
In particolare, relativamente agli interventi al seno, la Corte distrettuale ha confermato la sussistenza di tutti i reati, dichiarandoli prescritti ad eccezione del secondo intervento concernente la paziente F., valorizzando le conclusioni del consulente Gr., presidente all’epoca dell’associazione italiana di senologia, sull’assoluta trascuratezza delle linee guida nell’operato dei chirurghi, sull’assenza di qualsiasi accertamento diagnostico preventivo all’intervento, sulla mancanza nella casa di cura della strumentazione e del personale medico per eseguire l’agoaspirato o l’agobiopsia; anche con riguardo ai casi di TBC è stato riscontrato un analogo modus procedendi, che ha condotto alla declaratoria di prescrizione dei reati; per quanto concerne gli interventi sui traumi toracici, anch’essi dichiarati prescritti, anche sulla scorta della valorizzazione delle conclusioni del consulente S., presidente della società italiana di chirurgia toracica e autore di oltre 10.000 interventi operatori, la sentenza impugnata ha dato atto della costante omissione degli step previsti dalle linee guida e contemplanti l’osservazione, la toracentesi con ago, il drenaggio del paziente, privilegiando invece il ricorso immediato alla VATS, implicante un intervento in anestesia totale, un postoperatorio di rilievo e un drenaggio prolungato; la Corte di merito non ha contestato la metodica della VATS, in sè, e la sua utilità in determinati casi, ma ne ha rilevato l’assenza di qualsiasi giustificazione nei casi esaminati; del pari ingiustificati con conseguente prescrizione dei reati (salvo per il fatto riguardante la paziente D.V.) sono stati giudicati gli interventi chirurgici sui versamenti correlati a patologie cardiologiche, sulla base delle conclusioni del consulente O., già presidente della società Europea di pneumologia, che hanno evidenziato l’inutilità della VATS e del talcaggio eseguiti su pazienti anziani, portatori di cardiopatie gravi, inutilmente aggrediti chirurgicamente senza alcun vantaggio per le loro condizioni compromesse di salute; prescritti, per le stesse ragioni, sono stati dichiarati i fatti relativi ai casi di bullectomia.
 
Anche con riguardo agli interventi eseguiti sui pazienti interessati da neoformazioni oncologicamente sospette, tutti deceduti in un breve lasso di tempo successivo all’operazione, la sentenza impugnata ha verificato il consueto modus operandi, caratterizzato da un approccio sistematicamente chirurgico alla patologia, con resezioni ritenute prive di qualsiasi significato (anche sulla scorta delle conclusioni del consulente S.), funzionali solo a massimizzare la redditività economica delle prestazioni erogate, mediante l’inutile accanimento terapeutico su malati terminali defedati e sottoposti a sofferenze inutili; i reati sono stati dichiarati prescritti, salvo per il fatto riguardante il paziente C., per il quale è stata confermata la condanna pronunciata in primo grado.
 
2.4. L’esistenza di un congruo apparato argomentativo, coerente ai principi di diritto sopra enunciati, che ha dato conto – caso per caso – delle ragioni per le quali la condotta dell’imputato è stata ritenuta priva di qualsiasi giustificazione medico-chirurgica e idonea a integrare il delitto doloso di cui all’art. 582 c.p. (e non la mera violazione colposa dell’art. 590 c.p.), esclude, dunque, il vizio di motivazione lamentato dal ricorrente, le cui deduzioni si risolvono nel proporre una diversa ricostruzione, sul piano eminentemente teorico, della linea di demarcazione tra l’elemento psicologico di natura dolosa e quello di natura colposa nell’esercizio dell’attività chirurgica concretizzatasi nella lesione della integrità fisica del paziente, basata anche su argomentazioni meramente fattuali (come quella relativa alla mancata opposizione all’intervento operatorio da parte dell’anestesista e del personale medico coinvolto diverso da quello appartenente alla componente chirurgica), intese a ricondurre le
scelte operatorie compiute dall’imputato nell’alveo della semplice imprudenza o imperizia, secondo una lettura alternativa che lambisce valutazioni di merito e si risolve in una mera contrapposizione argomentativa rispetto alle incensurabili valutazioni effettuate dalla Corte distrettuale.
 
La presenza, nella sentenza impugnata, di un percorso motivazionale che ha affrontato in modo logico e completo la tematica, dedotta nei motivi d’appello, riguardante la connotazione dolosa della condotta dell’imputato, vanifica anche la doglianza che lamenta l’assenza di una specifica risposta della Corte territoriale ai contenuti della memoria riassuntiva presentata dalla difesa prima della discussione finale.
 
Costituisce, infatti, principio consolidato nell’elaborazione giurisprudenziale di questa Corte Suprema che il giudice di merito non è tenuto, nell’adempimento del dovere di motivazione della sentenza, a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e risultanze, spieghi in modo congruo e adeguato le ragioni del proprio convincimento, dimostrando che ogni fatto decisivo è stato tenuto presente, così da potersi considerare implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (Sez. 4 n. 26660 del 13/05/2011, Rv. 250900; Sez. 6 n. 20092 del 4/05/2011, Rv. 250105); con specifico riguardo al giudizio d’appello, la motivazione della sentenza di secondo grado non è censurabile ogniqualvolta abbia esaminato e confutato gli argomenti che costituiscono l’ossatura dei motivi di gravame, senza che la sua tenuta logica possa essere inficiata dall’apparente silenzio su talune deduzioni prospettate dalla parte appellante, quando le stesse risultino comunque disattese dalla motivazione considerata nel suo complesso, sotto il profilo dell’incompatibilità logica con la decisione (Sez. 1 n. 27825 del 22/05/2013, Rv. 256340).
 
2.5. Il vizio di motivazione dedotto con riguardo alla giustificazione argomentativa della condanna dell’imputato per il reato di omicidio volontario sarà invece infra esaminato in sede di trattazione del quinto motivo di ricorso, al quale è strettamente connesso.
 
3. Il terzo e il quarto motivo di ricorso, che possono essere esaminati in modo congiunto, sono a loro volta infondati, nella misura in cui si risolvono esclusivamente nel prospettare una lettura alternativa del significato di una serie di elementi logico-fattuali, e di talune risultanze istruttorie, che sono stati valorizzati – sul piano probatorio – dai giudici di merito in relazione alla loro ritenuta efficacia indiziante delle finalità distorte ed estranee a scopi diagnosticoterapeutici perseguite dall’imputato con le attività chirurgiche incriminate, con motivazione logica che non presta il fianco a censure in sede di legittimità.
 
3.1. Le deduzioni difensive in ordine alla compatibilità (anche) con un atteggiamento psichico di natura imprudente e colposa del carattere di sistematicità seriale delle condotte poste in essere dall’imputato e delle finalità venali e animate da mera ambizione personale che le avevano connotate, nonchè dei vizi che fossero riscontrabili nella raccolta del consenso informato dei pazienti, propongono – e sollecitano a questa Corte – una diversità di valutazione tipica del giudizio di merito, che non inficia la tenuta logico-dimostrativa delle argomentazioni in forza delle quali la sentenza impugnata ha attribuito ai predetti elementi valenza sintomatica agli effetti della prova del dolo dei reati di lesione personale, ex art. 582 c.p., ascritti all’imputato.
 
Il ricorso al criterio della sistematicità degli interventi operatori privi di indicazione e finalità
terapeutica – riscontrata in parecchie decine di casi, su pazienti diversi e affetti da patologie diversificate, accomunate solo da un approccio chirurgico privo di giustificazione alla stregua delle linee guida e della letteratura scientifica accreditata – come ulteriore elemento indicatore della volontarietà della condotta lesiva, da un lato, e la valorizzazione della finalità preminente di profitto economico perseguita dall’imputato con tali condotte, dall’altro, corrispondono ad altrettante, tipiche, valutazioni di fatto riservate all’apprezzamento del giudice di merito, che non sono rivisitabili, in quanto congruamente argomentate, dal giudice di legittimità.
 
Deve essere qui ribadito che la Corte di cassazione è giudice della motivazione e dell’osservanza della legge, e non del contenuto e del significato della prova, e dunque ad essa è normativamente precluso di procedere a una rinnovata valutazione degli elementi di fatto che i giudici di merito hanno posto a fondamento della decisione, o all’autonoma adozione di nuovi o diversi parametri di lettura dei fatti e delle risultanze istruttorie, prospettati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa di quelli adottati dal giudice di merito, che trasformerebbero la Corte di legittimità nell’ennesimo giudice del fatto (ex plurimis, Sez. Un. n. 47289 del 24/09/2003, Rv. 226074, Petrella).
 
3.2. Parimenti insindacabile in questa sede, per le medesime ragioni, è la valorizzazione operata dalla Corte distrettuale della concludenza indiziaria, sotto il profilo della consapevolezza dell’assenza di giustificazione medico-chirurgica degli interventi eseguiti dal prevenuto e dalla sua equipe operatoria, attribuita ai contenuti dichiarativi delle conversazioni intercettate del B.M., del coimputato Pa., del prof. L. e della dott.ssa Ga., nonchè al fenomeno di falsificazione delle cartelle cliniche funzionale al conseguimento di rimborsi non dovuti di prestazioni sanitarie, da parte della clinica di appartenenza dell’imputato; del tutto generica, infine, sotto il profilo assorbente della mancata indicazione del carattere di decisività della prova, è la doglianza relativa all’omessa assunzione dell’esame testimoniale del prof. L., che rende la censura inammissibile.
 
4. Alla stregua di tutte le considerazioni che precedono, non sussistono pertanto i presupposti per rimettere la decisione del ricorso alle Sezioni Unite di questa Corte, come sollecitato dal difensore dell’imputato nel settimo motivo di impugnazione, in quanto il criterio distintivo tra condotta dolosa e condotta colposa, nell’esercizio dell’attività medico-chirurgica lesiva dell’integrità fisica del paziente, è stato nitidamente – e correttamente – individuato e applicato dai giudici di merito, in termini inequivoci, nel presente processo, riconducendo alla tipologia dolosa esclusivamente le condotte connotate dall’assenza di qualsiasi finalità terapeutica o di cura, in conformità a un principio di diritto sul quale non sussiste e non appare configurabile alcun contrasto interpretativo.
 
5. Il quinto motivo di ricorso proposto dall’avv. Titta Madia sarà infra esaminato nel capitolo relativo alle censure riguardanti il dolo di omicidio, restando assorbito l’esame del sesto motivo di impugnazione per le ragioni che saranno ivi indicate.
 
I ricorsi proposti nell’interesse dell’imputato B.M. dall’avv. Luigi Fornari e nell’interesse dell’imputato P. dall’avv. Mauro Mocchi.
 
6. La sostanziale comunanza e sovrapponibilità delle doglianze e delle deduzioni difensive che riguardano la posizione di entrambi gli imputati, svolte tanto nel ricorso dell’avv. Fornari quanto in quello dell’avv. Mocchi, giustificano, per obiettive ragioni di economia e concentrazione della relativa trattazione, al fine di evitare inutili ripetizioni, un esame unitario e congiunto delle relative censure, con le precisazioni che si dovessero rendere necessarie con
riferimento all’esame di singole doglianze o posizioni processuali.
 
Si tratta di censure che coincidono, a loro volta e in larga misura, nei motivi e nelle argomentazioni che li supportano, con quelle dedotte nel ricorso presentato dall’avv. Titta Madia, pur essendo articolate in forma di contestazione specifica delle singole imputazioni, di omicidio e lesione personale volontaria, per le quali è stata pronunciata sentenza di condanna nei confronti del B.M. e del P. (limitatamente, quanto a quest’ultimo, ai fatti omicidiari in danno dei pazienti S. e V.C., e alle lesioni personali aggravate in danno di C.P.).
 
Devono intendersi pertanto qui integralmente richiamate le ragioni, più sopra esposte con riguardo ai primi quattro motivi del ricorso dell’avv. Titta Madia, per le quali sono infondate tutte le censure rivolte alla motivazione della sentenza impugnata sul punto relativo all’assenza di giustificazione medico-chirurgica della condotta operatoria dei prevenuti, e all’integrazione della fattispecie dolosa di cui all’art. 582 c.p. in relazione alla conseguente lesione arrecata all’integrità fisica dei pazienti, con riferimento a tutti gli episodi per i quali la responsabilità degli imputati è stata riconosciuta e confermata dalla Corte distrettuale, a titolo di condanna o di dichiarazione di prescrizione del reato, maturata dopo la decisione di primo grado, con la conferma delle statuizioni risarcitorie in favore delle parti civili costituite.
 
7. In particolare, deve ribadirsi che la sentenza d’appello non è incorsa in alcun errore di diritto o vizio logico-argomentativo nella ricostruzione dei fatti e nella valutazione degli elementi di prova acquisiti; nè i giudici di merito hanno omesso di confrontarsi con le tesi e le argomentazioni articolate dalla difesa anche per il tramite dei propri consulenti tecnici, disattendendole sulla scorta di percorsi motivazionali congrui e adeguati, che hanno dato conto, con specifico riferimento a ciascun intervento operatorio, singolarmente esaminato, delle ragioni dell’esclusione di ogni indicazione chirurgica – di natura terapeutica, diagnostica o anche solo palliativa – rispetto alla patologia esistente o ipotizzata, e della finalità distorta perseguita dagli imputati con la propria condotta animata da mero scopo di profitto economico e (per quanto riguarda particolarmente il B.M.) di affermazione personale e professionale.
 
La sentenza impugnata ha spiegato le ragioni della fondatezza riconosciuta alle conclusioni dei consulenti tecnici dell’accusa, nel raffronto con quelle rassegnate dagli esperti introdotti dalle difese, e i motivi per i quali non ha ritenuto necessario procedere all’espletamento di perizia, senza fare ricorso ad alcun elemento di scienza privata, ma facendo corretta applicazione dei principi di diritto affermati da questa Corte Suprema (e più sopra richiamati) in tema di apprezzamento probatorio dei dati acquisiti di natura tecnico-scientifica, di risoluzione ragionata degli elementi di contrasto tra le diverse tesi scientifiche rappresentate dai consulenti delle parti, di assolvimento puntuale dei relativi obblighi motivazionali.
 
L’esistenza di uno scrutinio analitico e dettagliato, caso per caso, delle censure proposte nei motivi d’appello, con riguardo a ciascuna tipologia e fattispecie concreta di intervento che è stato ritenuto privo di indicazione medico-chirurgica, secondo i criteri già individuati nella citata sentenza n. 35104 del 2013 di questa Corte, esclude dunque la paventata genericità e assertività della motivazione della sentenza impugnata, che ha calibrato sulla specifica patologia e condizione di salute personale di ogni paziente esaminato il giudizio sull’assenza di giustificazione della scelta operatoria compiuta; ciò che i giudici di merito hanno censurato, nella condotta degli imputati, non è una supposta carenza di formazione, preparazione o esperienza professionale medico-chirurgica, nè la corretta esecuzione tecnica, in sè (e salvo casi particolari), delle metodiche operatorie, astrattamente considerate, nè (ancora) la legittimità teorica del ricorso a interventi invasivi (come la VATS) in relazione a determinate patologie, quanto la radicale assenza – nei singoli casi esaminati – di qualsiasi indicazione o
utilità dell’approccio chirurgico e dell’intervento concretamente eseguito, su pazienti anziani, defedati o affetti da gravi patologie, talora con brevi aspettative di vita, che non potevano ricevere alcun beneficio (ma solo ulteriori e inutili sofferenze) dalla scelta chirurgica, sistematicamente compiuta e privilegiata dagli imputati, anche in funzione diagnostica, rispetto agli accertamenti meno invasivi (ma meno remunerativi sul piano economico) invece prescritti dalle linee guida (come il ricorso alla toracentesi e all’agobiopsia), che erano stati sempre omessi in modo aprioristico e ingiustificato, sacrificando l’interesse della salute del paziente a quello della massimizzazione del profitto mediante l’esecuzione della prestazione chirurgica più remunerativa sul piano dei rimborsi patrimoniali.
 
Le conclusioni raggiunte dalla sentenza impugnata sulla sussistenza del dolo del reato di cui all’art. 582 c.p., nella condotta operatoria degli imputati, costituiscono pertanto il risultato di un corretto ragionamento probatorio, di tipo induttivo e inferenziale, che ha valorizzato la convergenza di una pluralità di elementi dimostrativi, di natura non solo tecnico-scientifica, ma anche logica e storico-dichiarativa (come le risultanze dell’attività di captazione), apprezzati sia nella loro singola valenza qualitativa che nella loro complessiva attendibilità e idoneità a comporre un quadro unitario d’insieme, che ne pone in luce la confluenza nel medesimo risultato probatorio (secondo lo schema tipico della prova indiziaria: Sez. Un. n. 33748 del 12/07/2005, Rv. 231678).
 
Nell’ambito di un siffatto ragionamento probatorio, la Corte distrettuale ha correttamente utilizzato anche le risultanze della sentenza irrevocabile di condanna pronunciata nei confronti del B.M. e del P. all’esito dell’altro processo celebrato a loro carico per gli analoghi fatti di lesione personale aggravata, da essi commessi con le stesse modalità e per le medesime finalità in un contesto spazio-temporale sostanzialmente unitario presso la casa di cura Santa Rita di Milano; le emergenze del relativo giudicato penale, ritualmente acquisite ai sensi dell’art. 238-bis c.p.p. (come dato atto dalla sentenza qui impugnata), sono infatti utilizzabili e valutabili secondo la regola di giudizio di cui all’art. 192, comma 3, come elemento di prova la cui valenza dimostrativa deve essere corroborata da altri elementi di conferma (Sez. 1 n. 4704 dell’8/01/2014, Rv. 259414); a tale regola si è puntualmente attenuta la Corte distrettuale, che non ha proceduto ad alcun automatico recepimento del contenuto argomentativo del precedente giudicato, ma ne ha valorizzato il dato fattuale – storicamente accertato – dell’esecuzione sistematica da parte degli imputati di una numerosa serie di interventi chirurgici privi di qualsiasi giustificazione o indicazione terapeutica, corroborato dalle conformi risultanze del presente giudizio.
 
La prova del dolo (di lesione personale), del resto, riguardando la sfera interna della psiche del soggetto, deve necessariamente ricavarsi, in mancanza di confessione dell’imputato, attraverso un procedimento logico d’induzione da altri fatti certi attinenti le concrete circostanze e modalità della condotta, esternata – nei suoi intenti e finalità – dal B.M. anche in occasione delle conversazioni registrate, l’apprezzamento del cui significato probatorio implica una tipica valutazione di fatto riservata al giudice di merito.
 
Nell’ambito della ricostruzione probatoria dell’elemento psicologico del reato, la sentenza impugnata ha congruamente valorizzato anche l’elemento di giudizio rappresentato dalla riscontrata carenza sistematica (nei termini più sopra indicati) di un valido e consapevole consenso informato dei pazienti all’intervento operatorio, che è stato legittimamente considerato e valutato a titolo di dato fattuale emerso dall’istruttoria, ritenuto confermativo della volontà degli imputati di procedere comunque a un’attività priva di giustificazione medico-chirurgica, anche contro la volontà effettiva del paziente, senza che i giudici di merito siano incorsi, perciò, in alcuna esorbitanza – paventata nel ricorso dell’avv. Fornari dai limiti
della contestazione del fatto-reato formulata nei capi d’imputazione.
 
L’intera motivazione della sentenza d’appello concorre, in definitiva, a dare conto, in termini razionali e insindacabili, che gli interventi chirurgici incriminati, per quanto eseguiti nei confronti di soggetti affetti da patologie, anche gravi, e necessitanti di cure, sono risultati (consapevolmente) privi ab origine di valenza e finalità terapeutica, in ragione della loro dimostrata inutilità alla stregua dei protocolli della comunità scientifica; i dati, pacifici, evocati dai ricorrenti, rappresentati dal pregresso stato di malattia dei pazienti interessati dalla condotta illecita degli imputati, nonchè dalla concomitante esecuzione (su altri pazienti) da parte dell’equipe del B.M., nel medesimo arco temporale, anche di attività operatorie per le quali non è stata riscontrata un’analoga carenza di indicazione chirurgica, non possono valere a inficiare, perciò, un quadro probatorio munito di obiettiva capacità dimostrativa in ordine alla sussistenza degli estremi del reato di cui all’art. 582 c.p..
 
8. In particolare, l’assenza di giustificazione medico-chirurgica dell’intervento operatorio è stata verificata dalla sentenza impugnata con riferimento ai sette episodi per i quali il giudizio di responsabilità penale è stato confermato all’esito del giudizio d’appello, anche sotto il profilo della riconducibilità causale della morte (in quattro di tali casi) dei pazienti, avvenuta durante o immediatamente dopo l’intervento, alla condotta illecita del medico-chirurgo, senza incorrere in alcuno dei vizi – di motivazione, violazione di legge, o travisamento della prova – dedotti dai ricorrenti.
 
8.1. Quanto al fatto riguardante il paziente S.A., di anni (OMISSIS), la condotta imputata al B.M. in concorso col P. è quella di aver sottoposto la vittima a un intervento di toracotomia laterale sinistra e decorticazione polmonare, per asportazione di un nodulo sospetto in mancanza di diagnosi precisa; l’intervento è stato ritenuto inutile e inspiegabile alla stregua della storia clinica del paziente e dell’assenza degli accertamenti necessari (ago bioptico, esplicitamente consigliato dal radiologo) a confermare la natura tumorale dell’addensamento nodulare parenchimale individuato dall’esame radiologico, in presenza di un alto rischio operatorio per le condizioni personali dello S., dovute all’età, al precedente (duplice) by-pass aortocoronarico e all’esistenza di broncopneumopatia cronica ostruttiva; nel corso dell’intervento, a causa di un’errata manovra chirurgica, era stato lacerato il miocardio con conseguente rapida e massiva emorragia che aveva determinato la morte del paziente; l’operazione di nodulectomia, eseguita senza attendere l’esito degli esami diagnostici già disposti, sulla base di un consenso conseguito attraverso la minimizzazione del rischio operatorio e la rappresentazione di un’urgenza inesistente e di una diagnosi sicura, che invece non era stata ancora acquisita, è stata giudicata priva di qualsiasi giustificazione medicochirurgica, in quanto sarebbe bastato un prelievo cito-istologico mediante ago aspirato per confermare il sospetto di malattia tumorale, non accertata neppure dopo il decesso; in ogni caso, prima di procedere a un intervento chirurgico così delicato e invasivo su un paziente in quelle condizioni, era necessario impostare, alla stregua delle linee guida riconosciute, un percorso diagnostico graduale, mirato a conseguire una diagnosi certa.
 
Le deduzioni dei ricorrenti si sostanziano nell’affermare e ribadire la legittimità e l’utilità dell’approccio chirurgico, a titolo di prima scelta anche su un paziente con funzionalità cardiaca e respiratoria limitata (come lo S.), in quanto avente efficacia curativa risolutiva attraverso l’asportazione del nodulo polmonare il cui indice probabilistico di malignità era calcolabile in elevati termini percentuali, mentre l’esecuzione di un’agobiopsia presentava limiti e controindicazioni; si tratta di censure, basate su una lettura alternativa del fatto e su un diverso apprezzamento di valutazioni tecniche (espresse, in particolare, dai consulenti della difesa) e delle linee guida in materia, che lambiscono il merito della decisione, con le quali la
sentenza impugnata si è confrontata in modo adeguato e che non intaccano, perciò, la tenuta logica della motivazione con cui la Corte distrettuale ha escluso che la scelta operatoria potesse trovare giustificazione in una qualsivoglia finalità terapeutica, tale da renderla sindacabile (soltanto) sotto il profilo di una violazione colposa delle leges artis.
 
In particolare, il ricorso del P. si dilunga nel riportare le risultanze dell’istruttoria dibattimentale e i contenuti delle doglianze svolte nel giudizio d’appello, strutturandosi in larga misura su argomentazioni che, più che criticare la congruità e la tenuta logica della motivazione della sentenza impugnata, si pongono in diretto confronto col materiale probatorio acquisito, sovrapponendo un proprio diverso e alternativo apprezzamento, di cui il ricorrente sollecita l’accoglimento, alla valutazione delle acquisizioni istruttorie compiuta dal giudice d’appello, secondo lo schema tipico di un gravame di merito che esula dalle funzioni dello scrutinio di legittimità (Sez. 6 n. 43963 del 30/09/2013, Rv. 258153); anche le censure relative alla sussistenza del nesso causale tra la condotta operatoria degli imputati e la morte dello S. risultano formulate in termini che non si confrontano con la puntuale motivazione della Corte distrettuale, che ha dato conto, sulla scorta delle conclusioni della consulenza Ronchi, della collocazione intraoperatoria della morte del paziente, dovuta alla lacerazione cardiaca causata dai chirurghi durante l’intervento, che aveva determinato un’emorragia massiva e inarrestabile.
 
8.2. Quanto al fatto riguardante il paziente D.G.E., di anni (OMISSIS), la condotta imputata al (solo) B.M. è quella di aver sottoposto la vittima, sofferente di un recente infarto miocardico acuto in soggetto cardiopatico per fibrillazione atriale cronica, in assenza dei necessari approfondimenti diagnostici (agobiopsia, tac), a intervento chirurgico di segmentectomia laterale lobo medio in toracotomia laterale di minima destra previa pleurolisi, effettuato per l’asportazione di un nodulo polmonare diagnosticato poi come neoplasia squamocellulare di 1 cm, non correlato a un rischio imminente o prossimo di morte (il consulente S. ha stimato, infatti, una sopravvivenza di almeno un anno del D. alla patologia tumorale); l’approccio chirurgico trovava una controindicazione assoluta nella patologia cardiaca del paziente, tanto più in presenza dello scarso compenso cardiocircolatorio ricavabile dagli esami eseguiti al momento del ricovero, che ammetteva solo interventi salvavita; l’intervento chirurgico, complesso e invasivo, non era urgente e non era stato sospeso nonostante il peggioramento delle condizioni del paziente, infartuato, dovuto alla somministrazione degli anestetici, secondo una condotta ritenuta confermativa della volontà dell’imputato di procedere chirurgicamente a ogni costo; ciò aveva determinato la comparsa di un forte stato ipotensivo, tale da non consentire l’estubazione, fino a determinare la morte della vittima (che non si era mai ripresa) il giorno successivo all’operazione, a causa di un’insufficienza cardiorespiratoria acuta.
 
Il nesso eziologico tra l’intervento chirurgico e la morte è stato accertato dai giudici di merito in ragione della sicura efficacia causale – riscontrata dai consulenti del pubblico ministero – dell’anestesia e del travaglio operatorio nella compromissione del labile compenso cardiocircolatorio del D., che ne aveva determinato il decesso, efficacia tanto più intensa per effetto del deliberato prolungamento dell’intervento nonostante il manifesto stato di ipotensione in cui versava il paziente.
 
La decisione dell’imputato di procedere all’asportazione chirurgica del nodulo è stata ritenuta perciò priva di ogni indicazione o finalità terapeutica, anche solo palliativa, risolvendosi nel sottoporre la vittima soltanto a ulteriori e inutili sofferenze.
 
Le deduzioni del ricorrente, sul punto, si limitano a riproporre questioni, sull’inesistenza di controindicazioni all’intervento chirurgico – basate sulla funzione curativa della patologia
tumorale, sull’affidamento riposto dal chirurgo nell’operato dei medici presso il cui reparto (di medicina interna e cardiologia) il paziente era stato in precedenza ricoverato, nonchè sull’assenza di preclusioni (assolute) all’approccio chirurgico emergenti dalla scheda anestesiologica – e sull’insussistenza di nesso causale tra la condotta operatoria e il decesso della vittima, che avevano già costituito oggetto dei motivi d’appello avverso la decisione di primo grado e che sono state esaminate e ritenute infondate dalla sentenza impugnata, con argomentazioni che hanno congruamente valorizzato, tra l’altro: la conoscenza da parte dell’imputato delle precarie condizioni di salute e del rischio anestesiologico del D., tali da legittimare esclusivamente l’esecuzione di interventi salvavita; l’inesistenza di qualsiasi urgenza che potesse giustificare l’operazione chirurgica di toracotomia; la decisione di non sospendere l’intervento nonostante le difficoltà insorte nel corso della sua esecuzione, l’allungamento dei relativi tempi e il peggioramento manifestatosi delle condizioni del paziente; la pacifica inidoneità ex art. 41 c.p. di eventuali concause sopravvenute (quali un nuovo episodio ischemico miocardico e la fibrillazione ventricolare) ad escludere o interrompere il nesso causale tra lo scompenso cardiocircolatorio, determinato dall’anestesia e dalla sottoposizione a uno stress chirurgico privo di qualsiasi giustificazione, e la morte della vittima.
 
Si tratta, anche in questo caso, di doglianze, talora prospettate in modo solo generico e congetturale, destinate a risolversi nella sollecitazione di una lettura alternativa del fatto e delle risultanze istruttorie, che non compete alla Corte di legittimità.
 
8.3. Quanto al fatto riguardante la paziente V.C.G., di anni (OMISSIS), la condotta ascritta al B.M. in concorso col P. è quella di aver sottoposto la vittima, affetta da ipertensione arteriosa, cardiopatia ischemico-congestizia e da progredita malattia neoplastica con diffusa metastatizzazione, contro ogni logica e utilità diagnostica o palliativa, a intervento chirurgico di VATS destra per resezioni parziali e biopsie pleuriche più intalcamento pleurico e asportazione linfonodi sovraclaveari, a fronte di adenomegalie diffuse e di versamento pleurico bilaterale; l’intervento è stato ritenuto del tutto inutile sia sotto il profilo diagnostico, potendo le lesioni essere riconosciute con una semplice biopsia e successivo esame istologico del materiale prelevato, sia sotto quello terapeutico-palliativo, essendo il versamento pleurico trattabile con un’assai meno invasiva toracentesi, in una paziente ad altissimo rischio anestesiologico per complicanze mortali durante e dopo l’operazione; la scelta chirurgica poteva giustificarsi solo per sottrarre la paziente a un imminente pericolo di vita, inesistente nel caso di specie, in quanto la donna manifestava lieve dispnea, non necessitante di supporto ventilatorio, e versava in condizioni cardiocircolatorie stabili; l’intervento chirurgico, di natura cruenta, aveva alterato in senso peggiorativo la dinamica respiratoria, causando una grave insufficienza cardiorespiratoria, che era peggiorata fino a determinare la morte della V.C. il (OMISSIS), cinque giorni dopo l’operazione.
 
I giudici di merito hanno escluso l’esistenza di un valido consenso informato della paziente al trattamento chirurgico, in assenza di puntuale rappresentazione delle alternative possibili e stante il mancato assenso prestato, nella relativa scheda, alle resezioni e all’operazione di talcaggio, fonte di gravi sofferenze per il malato.
 
Le deduzioni dei ricorrenti si limitano a contestare la scientificità del giudizio di ritenuta inutilità dell’approccio chirurgico alla patologia della vittima, con particolare riguardo all’evacuazione del versamento di liquido pleurico di sospetta origine neoplastica e alla praticabilità di metodiche meno invasive rispetto alla VATS, proponendo – sul punto – una lettura alternativa che non intacca la fondamentale congruenza logica della ricostruzione delle ragioni della condotta degli imputati operata dalla Corte distrettuale, secondo cui la scelta operatoria era riconducibile alla deliberata volontà di intervenire chirurgicamente a ogni costo sulla paziente,
a prescindere dalle sue condizioni defedate e dall’effettiva ricorrenza di un imminente pericolo di vita, in assenza di qualsiasi (reale) finalità diagnostica o palliativa, così da escludere in radice la configurabilità, nella condotta del medico-chirurgo, di meri errori di valutazione sindacabili sotto il profilo esclusivo della colpa.
 
Il ricorso del P., in specie, si connota, anche in questo caso, di una lunga dissertazione in fatto basata sul richiamo delle difese articolate nel giudizio d’appello, diretta a contestare le risultanze istruttorie in punto di assenza di indicazione all’operazione chirurgica, di condizioni della paziente assolutamente ostative (anche dal punto di vista anestesiologico) di interventi diversi da quelli in funzione salvavita, di assenza di un valido consenso informato, di sussistenza del nesso eziologico tra la condotta operatoria e la morte della V.C., mediante la prospettazione di una lettura alternativa delle emergenze processuali che si risolve essenzialmente in una censura del merito della decisione impugnata; in particolare, la riproposizione da parte del ricorrente delle contestazioni in punto di nesso causale, per quanto ampiamente argomentata in fatto, non è idonea a inficiare la tenuta logica del percorso motivazionale in forza del quale la Corte distrettuale ha individuato nella spirale di progressivo aggravamento della dinamica respiratoria e cardiocircolatoria, già precaria, della vittima, determinata dallo stress chirurgico, la causa diretta dello scompenso acuto che aveva provocato la morte a distanza di soli cinque giorni dall’operazione (pagine 303-305 della motivazione).
 
8.4. Quanto al fatto riguardante la paziente Sc.Ma.Lu., di anni (OMISSIS), la condotta imputata al B.M. è quella di aver sottoposto la vittima a intervento di videotorascopia bilaterale, asportazione versamento pleurico, biopsia della pleura, intalcamento pleurico, che è stato ritenuto inspiegabile, inutile e tardivo, effettuato in contrasto con la storia clinica della paziente e con le sue condizioni all’atto del ricovero, trattandosi di persona colpita da pregresso carcinoma della mammella e affetta da metastasi epatiche e da recente versamento pleurico bilaterale, versante in condizioni generali estremamente compromesse, anche per effetto della chemioterapia, e in uno stato di precario equilibrio a causa di labile compenso respiratorio dovuto alle patologie in atto; l’intervento chirurgico poteva giustificarsi solo in presenza di imminente pericolo di vita, che non esisteva nel caso di specie; l’intervento aveva alterato in senso peggiorativo la dinamica respiratoria, determinando una irreversibile compromissione della relativa funzione e di quella cardiocircolatoria, che aveva causato la morte della Sc. il (OMISSIS), otto giorni dopo l’operazione.
 
I giudici di merito hanno ritenuto del tutto inutile, e addirittura insensato, l’intervento chirurgico, connotato da un elevatissimo rischio di complicanze mortali, eseguito su paziente plurimetastatica, titolare di un’aspettativa di vita di pochi mesi, che versava in condizioni estremamente compromesse a causa dell’avanzata patologia neoplastica, nel cui contesto le resezioni polmonari e il talcaggio bilaterale eseguito contemporaneamente erano privi di qualsiasi indicazione o giustificazione, sia diagnostica che terapeutico-palliativa, potendo l’intervento (classificabile di chirurgia maggiore) solo causare alla vittima ulteriori, inutili, sofferenze e far precipitare la situazione cardiorespiratoria che ne aveva determinato la morte; le biopsie e la “wedge resection” non risultavano essere state autorizzate dalla Sc., il cui consenso all’intervento era stato ottenuto, peraltro, in forza di una rappresentazione minimale e fuorviante delle relative ragioni e delle possibili complicanze.
 
Le deduzioni del ricorrente, dirette a rivendicare la legittimità della scelta chirurgica, si basano essenzialmente sull’allegazione di argomenti di fatto quali l’affidamento riposto dall’imputato sulle valutazioni compiute dall’oncologo che aveva in cura la Sc. e aveva investito il medicochirurgo del relativo caso, sull’assoluzione in grado d’appello del coimputato Pa.Ma. (che aveva
partecipato all’intervento in qualità di assistente del B.M.) dalla medesima imputazione, con la formula perchè il fatto non costituisce reato, sotto il profilo – prospettato come contraddittorio – della mancata prova della sussistenza in capo al Pa. dell’elemento psicologico di natura dolosa, sulla esecuzione, infine, del talcaggio bilaterale nel contesto di un’unica operazione di VATS, anzichè sottoporre la paziente a due separati e successivi interventi chirurgici secondo una condotta che sarebbe risultata maggiormente funzionale alle finalità lucrative in tesi perseguite dal B.M. (comportando un duplice rimborso patrimoniale per la casa di cura di appartenenza).
 
Si tratta di argomentazioni di merito che non possono trovare ingresso nel giudizio di legittimità, talora formulate in termini chiaramente ipotetici (come quella riguardante le ragioni della scelta di procedere a un unico intervento di talcaggio, anzichè suddividerlo in due momenti temporalmente distinti, ciò che può trovare anche logica spiegazione, coerente alla tesi accusatoria, proprio nella consapevolezza dell’imputato che la paziente non sarebbe verosimilmente sopravvissuta all’operazione), e che non si confrontano adeguatamente con l’autonomia della decisione presa dall’imputato di procedere chirurgicamente nei confronti della Sc., rispetto al consulto richiesto dall’oncologo, nè con le puntuali motivazioni richiamate dalla sentenza d’appello a supporto dell’assenza di prova della compartecipazione dolosa del Pa. alle finalità perseguite dal B.M., fondate su ragioni di fatto riferibili esclusivamente alla persona del Pa. e rappresentate dal suo ingresso solo recente, in posizione subordinata, nell’equipe operatoria del coimputato, nonchè dalla circostanza che egli aveva visto la paziente per la prima volta la mattina dell’intervento e non aveva partecipato alle relative valutazioni anamnestiche.
 
Le deduzioni del ricorrente non sono perciò in grado di intaccare la congruenza logica del nucleo fondamentale delle conclusioni raggiunte dalla sentenza impugnata, che ha tratto dalla natura insensata, sotto il profilo medico-chirurgico, delle resezioni compiute, improduttive a priori di qualsiasi effetto benefico sulla paziente e animate soltanto dalla volontà di operarla comunque, la prova di una condotta priva di qualsiasi giustificazione terapeutica, destinata a risolversi in un’ordinaria attività lesiva dell’integrità fisica della persona, tale da integrare gli estremi, oggettivi e soggettivi, del reato di cui all’art. 582 c.p..
 
8.5. Per le medesime ragioni risultano incensurabili anche le motivazioni che supportano la condanna del B.M. per i tre episodi di lesione personale, aggravati dalla messa in pericolo della vita delle persone offese derivata dall’intervento chirurgico, nonchè dal nesso teleologico col reato di truffa commesso in danno del sistema sanitario pubblico mediante l’indebito conseguimento dei correlati rimborsi patrimoniali; condanna che è stata altresì confermata, limitatamente al terzo fatto (quello in danno di C.P.), anche per il P., coautore dell’intervento, mentre per gli altri due episodi è stata dichiarata, nei confronti di quest’ultimo, la prescrizione del reato, per effetto della concessione delle attenuanti generiche equivalenti.
 
I tre episodi riguardano:
 
– il secondo intervento, eseguito l’11.11.2005, su F.S., di anni (OMISSIS), concernente una paziente terminale (successivamente deceduta il 7.01.2006) affetta da obesità e cirrosi epatica, e già sottoposta a una prima operazione chirurgica alla mammella il 4.08.2005 (oggetto di altra imputazione, dichiarata prescritta), contemplante mastectomia totale sinistra e radicalizzazione ascellare, in assenza di esami preventivi e di ogni serio tentativo di diagnosi preoperatoria, per presunta mastite carcinomatosa, nonchè requadrantectomia mammella destra; la diagnosi istologica aveva escluso la neoplasia per la mammella sinistra, totalmente asportata, e la paziente era stata trasfusa nell’immediato decorso post operatorio con otto
sacche di emazie e cinque di plasma per una grave anemia;
 
– l’intervento del (OMISSIS) su D.V.A., di anni (OMISSIS), sottoposta a videotorascopia, biopsie pleuriche multiple e intalcamento pleurico, con operazione ritenuta inspiegabile perchè del tutto inutile e ingiustificata, effettuata in assenza di previo consenso della paziente, in contrasto con la sua storia clinica e con le sue condizioni generali di persona affetta da esiti di infarto miocardico acuto, ipertensione arteriosa, sindrome depressiva, gastrite, broncopneumopatia cronica ostruttiva, mastectomia destra per carcinoma in remissione, in assenza di dimostrazione o motivato sospetto di malattia neoplastica in atto (come riscontrato anche a posteriori dalla negatività degli esami oncologici); l’intervento aveva fatto precipitare la situazione già critica della paziente, trasfusa nel decorso post operatorio con sacca di emazie e sette sacche di plasma per una grave anemia, ricoverata in terapia intensiva e deceduta alcuni giorni dopo, il (OMISSIS);
 
– l’intervento del (OMISSIS) su C.P., di anni (OMISSIS), sottoposto a toracotomia, biopsie pleuriche e polmonari, con operazione giudicata inutile e dannosa per la storia clinica del paziente, cardiopatico, nefropatico, affetto da neoplasia polmonare avanzata e diffusa e da sindrome disventilatoria ostruttiva molto severa; l’intervento aveva alterato in senso peggiorativo la dinamica respiratoria della vittima, tanto da comportare un’assistenza prolungata in terapia intensiva, con intubazione e successiva tracheotomia, con morte sopraggiunta il 2.07.2006.
 
Le doglianze, sul punto, dei ricorrenti si risolvono sostanzialmente in censure di merito, dirette, da un lato, a sollecitare una diversa lettura del fatto e della condotta degli imputati, compatibile con la dedotta legittimità dell’approccio chirurgico alle patologie dei pazienti, e dall’altro, a negare la sussistenza dell’aggravante del pericolo di vita, che è stata affermata dalla sentenza impugnata con argomentazioni coerenti alle risultanze di fatto sopra indicate, con riferimento all’immediato peggioramento delle condizioni generali di salute delle vittime, nel corso o in diretta conseguenza dell’intervento, che ne aveva reso necessarie le trasfusioni di sangue e i ricoveri in terapia intensiva, conducendole alla morte nel volgere di un brevissimo arco temporale (vedi Sez. 5 n. 2816 del 12/11/2013, Rv. 258879, secondo cui l’aggravante di cui all’art. 583 c.p., comma 1, n. 1, è configurabile quando esiste, in un momento qualunque del corso del processo morboso, la probabilità della morte della persona offesa, desunta attraverso un giudizio obiettivo, non fondato su mere congetture, ma su una seria e grave constatazione del perturbamento prodotto nelle grandi funzioni organiche del soggetto).
 
La consapevolezza delle precarie condizioni generali dei pazienti e dell’inutilità dello stress chirurgico, destinato solo ad aggravarle, al quale gli stessi venivano sottoposti legittima, dunque, il giudizio di imputabilità psicologica dell’aggravante agli imputati, sotto il profilo della prevedibilità, richiesta dall’art. 59 c.p., comma 2, dell’evento rappresentato dalla messa in pericolo del bene della vita (Sez. 5 n. 3952 del 18/02/1992, Rv. 189817).
 
9. Limitatamente al delitto di lesione personale aggravata in danno di D.V.A., ascritto al capo 23, deve peraltro essere dichiarata, anche nei riguardi del B.M., l’estinzione del reato per prescrizione, maturata dopo la pronuncia della sentenza d’appello, con conseguente annullamento senza rinvio della relativa condanna, agli effetti penali.
 
Va rilevato, infatti, che il computo del tempo ordinario di prescrizione, nel caso di reato aggravato dal concorso di più circostanze ad effetto speciale essendo la violazione base dell’art. 582 c.p. aggravata sia ex art. 583 c.p., comma 1, 1, che ex art. 585, comma 1, (in
relazione all’art. 576 c.p., comma 1, n. 1) – deve essere effettuato ai sensi del combinato disposto dell’art. 157 c.p., comma 2 e art. 63 c.p., comma 4, tenendo conto dell’aumento di pena massimo previsto da quest’ultima norma, pari a un terzo del massimo della pena edittale stabilito per la circostanza ad effetto speciale più grave (Sez. 2 n. 32656 del 15/07/2014, Rv. 259833; Sez. 2 n. 47028 del 3/10/2013, Rv. 257520), che nel caso di specie è quella di cui all’art. 583 c.p., comma 1, n. 1, contemplante una pena (massima) di anni sette di reclusione, sulla quale deve essere calcolato l’aumento di un terzo, pari a due anni e quattro mesi, per l’aggravante del nesso teleologico.
 
Il tempo ordinario di nove anni e quattro mesi deve essere maggiorato di un quarto (due anni e quattro mesi), ex art. 161 c.p., comma 2, per effetto degli atti interruttivi del corso della prescrizione, con la conseguenza che il tempo massimo di prescrizione – pari a undici anni e otto mesi – è maturato, per il fatto di cui al capo 23 commesso il (OMISSIS), in epoca antecedente la pronuncia della presente sentenza.
 
Il tempo massimo di prescrizione, di undici anni e otto mesi, non è invece decorso, per il B.M., con riguardo ai fatti in danno di F.S. e di C.P., rispettivamente commessi (OMISSIS); non è parimenti decorso, quanto al fatto in danno del C., per il P., ricadendo l’epoca di commissione del reato ((OMISSIS)) nella vigenza della nuova disciplina dei termini di prescrizione introdotta dalla L. n. 251 del 2005, che ha escluso l’incidenza nel relativo computo del giudizio di bilanciamento tra circostanze eterogenee ex art. 69 c.p..
 
10. Le censure riguardanti il dolo di omicidio ascritto in relazione ai fatti di cui ai capi 46, 47, 48 e 49 sono trattate nel paragrafo che segue, restando ivi assorbite le residue doglianze del P. sulla misura del trattamento sanzionatorio.
 
I motivi di ricorso sul dolo omicidiario.
 
11. I motivi di ricorso, dedotti da tutti i ricorrenti e sviluppati anche nella memoria depositata il 6.06.2017 dagli avvocati Luigi Fornari e Titta Madia nell’interesse del B.M., che censurano la ritenuta sussistenza del dolo omicidiario, e la conseguente affermazione della responsabilità penale degli imputati per il delitto di cui all’art. 575 c.p., con riguardo alle condotte lesive che hanno determinato la morte dei pazienti S. e V.C. (quanto a B.M. e P.), Sc. e D. (quanto al solo B.M.), sono fondati per le ragioni e con le precisazioni che seguono.
 
11.1. Giuridicamente corretta è l’affermazione di partenza del percorso argomentativo della sentenza impugnata secondo cui – una volta accertata la natura dolosa delle lesioni cagionate alle vittime mediante gli interventi operatori sulle stesse effettuati, in quanto la relativa attività medico-chirurgica era priva di qualsiasi legittimazione giustificativa, ed accertata la sussistenza del nesso eziologico tra le singole condotte riconducibili alla violazione dell’art. 582 c.p. e la morte dei pazienti – non può trovare alcuno spazio applicativo la fattispecie dell’omicidio colposo ex art. 589 c.p. (postulante che la scelta operatoria e la condotta del medico-chirurgo fossero connotate ab origine da un elemento psicologico di natura colposa, che è stato invece motivatamente escluso dai giudici di merito), ma il titolo di reato al quale deve essere ricondotta la responsabilità degli imputati, per la morte delle vittime, è rappresentato alternativamente dall’omicidio preterintenzionale ex art. 584 c.p. oppure, nel caso di accertata esistenza dell’animus necandi, dall’omicidio volontario ex art. 575 c.p..
 
11.2. Costituisce ius receptum nell’elaborazione giurisprudenziale di questa Corte di legittimità che l’elemento psicologico dell’omicidio preterintenzionale consiste nell’aver voluto, con dolo, l’evento minore rappresentato dalle lesioni cagionate alla persona offesa, e non anche l’evento
più grave (la morte della vittima), che costituisce solo la conseguenza diretta, sul piano causale, della condotta dell’agente; l’elemento soggettivo del delitto di cui all’art. 584 c.p. non è costituito da dolo e responsabilità oggettiva, nè da dolo misto a colpa, ma unicamente dal dolo di lesioni (o percosse), in quanto la disposizione dell’art. 43 c.p. assorbe la prevedibilità dell’evento più grave nell’intenzione di risultato; la valutazione relativa alla prevedibilità dell’evento da cui dipende l’esistenza del delitto punito dall’art. 584 c.p., dunque, è nella stessa legge, e l’agente risponde, per fatto proprio, dell’evento più grave (la morte) di quello voluto (le lesioni personali), in forza dell’esplicita previsione legislativa che aggrava il trattamento sanzionatorio sulla scorta dell’assoluta probabilità che dall’azione volontariamente lesiva dell’integrità fisica della persona offesa possa derivarne la morte (ex plurimis, Sez. 5 n. 44986 del 21/09/2016, Rv. 268299; Sez. 5 n. 791 del 18/10/2012, depositata nel 2013, Rv. 254386; Sez. 5 n. 35582 del 27/06/2012, Rv. 253536).
 
Anche con riguardo specifico alla morte del paziente che costituisca conseguenza causale diretta di un trattamento medico-chirurgico, questa Corte ha affermato il medesimo principio, per cui deve rispondere di omicidio preterintenzionale il medico che abbia sottoposto il paziente all’intervento operatorio in assenza di finalità terapeutiche, ovvero per fini estranei alla tutela della salute della vittima, provocando coscientemente un’inutile mutilazione, od agendo per scopi estranei non accettati dal paziente, siano essi di natura scientifica, dimostrativa, didattica, esibizionistica, estetica (Sez. 4 n. 34521 del 26/05/2010, Rv. 249818), ovvero – come accertato nel caso in esame – animati da mero fine di lucro o di affermazione personale e professionale; soltanto se la condotta non sia ab origine diretta volutamente a ledere e provocare inutili sofferenze al paziente, ma sia riconducibile al perseguimento di una finalità terapeutica, anche in assenza di un valido consenso informato e anche se esplicatasi in violazione delle leges artis, potrà configurarsi a carico del medico-chirurgo, in rapporto all’accertata violazione colposa delle regole cautelari, la diversa ipotesi di cui all’art. 589 c.p. (Sez. 4 n. 34521 del 2010, appena citata).
 
11.3. L’accertata sussistenza del dolo di lesioni personali, ex art. 582 c.p., conseguente all’assoluta mancanza di giustificazione e legittimazione medico-chirurgica dell’intervento operatorio causativo dell’evento mortale, in quanto privo – come verificato a carico degli imputati nei quattro casi in esame – di qualsiasi reale finalità diagnostica, curativa, o anche solo palliativa, se è destinata ad assumere ex se rilevanza decisiva (alla stregua delle considerazioni che precedono) agli effetti dell’integrazione del delitto di cui all’art. 584 c.p., non può tuttavia comportare alcuna attenuazione dell’onere della prova, gravante sull’accusa, sul punto relativo alla sussistenza dell’ulteriore elemento psicologico rappresentato dal dolo omicidiario, necessario a connotare il più grave titolo di reato che è stato ascritto ex art. 575 c.p. agli imputati in relazione alla morte dei quattro pazienti sopra indicati, e che esige la rigorosa dimostrazione, per ciascun singolo caso, che il medico-chirurgo si sia rappresentato e abbia voluto, o quantomeno accettato coi caratteri richiesti dalla figura del dolo eventuale, l’evento mortale come conseguenza della propria azione e condotta operatoria.
 
La sentenza impugnata ha individuato proprio nella categoria del dolo eventuale l’elemento psichico che supporta e giustifica la condanna degli imputati B.M. e P. a titolo di omicidio volontario, e non di omicidio preterintenzionale, in relazione alla morte dei pazienti di cui sono stati ritenuti (rispettivamente) responsabili, sulla scorta di una motivazione compendiata, in particolare, alle pagine 307-311 della sentenza d’appello – che non resiste, sul piano della congruità logica e delle conclusioni alle quali è pervenuta, alle censure di legittimità dei ricorrenti.
 
11.4. Le Sezioni Unite di questa Corte, nella sentenza n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn (e
altri), hanno fornito, all’esito di un’ampia ricostruzione dei risultati dell’elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale in materia, una (più) puntuale definizione del dolo eventuale, nell’ambito della categoria generale del dolo, individuandone gli elementi essenziali nella chiara rappresentazione, da parte dell’agente, della significativa possibilità di verificazione dell’evento concreto che integra il reato (come conseguenza causale diretta della propria condotta) e nella concomitante determinazione, ciò nonostante e dopo aver considerato il fine perseguito e l’eventuale prezzo da pagare, di agire comunque anche a costo di causare l’evento lesivo, aderendo ad esso per il caso in cui si verifichi.
 
Per la configurabilità del dolo eventuale, occorre dunque, come chiarito da questa Corte nella sua massima espressione nomofilattica, la rigorosa dimostrazione che l’agente si sia confrontato con la specifica categoria di evento che si è verificata nella fattispecie concreta (rappresentata, nel caso in esame, dalla morte del paziente come conseguenza diretta dell’intervento operatorio privo di giustificazione medico-chirurgica), aderendo psicologicamente ad essa; il momento volontaristico, consistente nella determinazione di aderire all’evento oggetto di rappresentazione, costituisce – anche nel dolo eventuale – una componente fondamentale dell’atteggiamento psichico dell’agente, nel senso che il dolo eventuale implica non già la semplice accettazione di una situazione di rischio, ma l’accettazione di un evento definito e concreto, che deve essere stato ponderato dall’autore del reato come costo (accettato) dell’azione realizzata per conseguire il fine perseguito.
 
L’art. 43 c.p., nella definizione del dolo, stabilisce una relazione essenziale tra la volontà e la causazione dell’evento, relazione che difetta nella mera accettazione del rischio che l’evento si verifichi, ed esige perciò – quale elemento dirimente tipico del dolo, anche nella sua forma eventuale – l’esistenza di un atteggiamento psichico che riveli l’adesione dell’agente all’evento, per il caso che esso si verifichi come conseguenza, anche non direttamente voluta, della propria condotta; nella scelta di agire del soggetto deve essere ravvisabile, dunque, una consapevole presa di posizione di adesione all’evento, che costituisca espressione di una manifestazione, sia pure indiretta, di volontà.
 
Sul piano probatorio, l’indagine che il giudice deve compiere al fine di accertare il concreto atteggiarsi della volontà in forme coerenti alla sussistenza del dolo eventuale, in quanto volta (necessariamente) a scrutinare la sfera interiore dell’animo umano, può legittimamente fondarsi – in mancanza di una franca ammissione di colpevolezza da parte dell’imputato – su un procedimento logico d’induzione che valorizzi una serie di elementi indiziari muniti di adeguata capacità inferenziale nella ricostruzione dell’iter e dell’esito del processo decisionale dell’agente.
 
In particolare, la citata sentenza n. 38343 del 2014 delle Sezioni Unite di questa Corte ha individuato ed enumerato, come possibili elementi indicatori del dolo eventuale: a) la lontananza della condotta tenuta da quella doverosa; b) la personalità e le pregresse esperienze dell’agente; c) la durata e la ripetizione dell’azione; d) il comportamento successivo al fatto; e) il fine della condotta e la compatibilità con esso delle conseguenze collaterali; f) la probabilità di verificazione dell’evento; g) le conseguenze negative anche per l’autore in caso di sua verificazione; h) il contesto lecito o illecito in cui si è svolta l’azione nonchè la possibilità di ritenere, alla stregua delle concrete acquisizioni probatorie, che l’agente non si sarebbe trattenuto dalla condotta illecita neppure se avesse avuto contezza della sicura verificazione dell’evento (cosiddetta prima formula di Frank).
 
Le Sezioni Unite hanno precisato, peraltro, che tali elementi indiziari (i quali non esauriscono l’ambito degli indici in grado di orientare l’indagine giudiziaria sul punto) non incarnano ex se
la prova della colpevolezza a titolo di dolo eventuale, ma rappresentano elementi utili a ricostruire il processo decisionale dell’agente e i relativi motivi, con particolare riguardo al risultato finale che deve coincidere con la realizzazione di una condotta che si fondi sulla nitida e ponderata consapevolezza della concreta prospettiva dell’evento collaterale, traducendosi nell’adesione all’eventualità della sua concreta verificazione quale prezzo o contropartita, accettabile e accettata, del conseguimento delle finalità primarie dell’agire del soggetto.
 
Il problema dell’accertamento del dolo eventuale si sposta dunque sul terreno della prova e richiede, come deve avvenire in tutti i casi di valutazioni indiziarie (per giunta dirette, nella specie, a scrutinare l’atteggiamento psichico della persona, e non un fatto naturalistico), un’indagine approfondita e connotata da un’estrema attenzione all’analisi e alla comprensione dei dettagli, volta esclusivamente alla piena cognizione dei fatti ritenuti indicativi e rilevanti nella ricostruzione probatoria della reale volontà dell’agente, che devono essere vagliati e ponderati criticamente nel loro significato oggettivo, senza forzature e rifuggendo dall’applicazione di meri meccanismi presuntivi incapaci di assicurare un persuasivo giudizio finale in ordine alla sussistenza in concreto, oltre ogni ragionevole dubbio, dell’elemento volontaristico che deve caratterizzare – quale momento essenziale e imprescindibile del riconoscimento della figura del dolo eventuale – la connessione tra l’atteggiamento interiore dell’agente e l’evento che si è verificato.
 
La naturale difficoltà di accertamento che contraddistingue, perciò, l’indagine tesa a riscontrare la presenza, nell’animo dell’agente, dell’elemento psichico del dolo eventuale esige una speciale cautela, che si traduce sul piano degli esiti processuali – come puntualmente osservato dalle Sezioni Unite nella citata sentenza n. 38343 del 2014 – nella (consueta) conseguenza per cui, in tutte le situazioni probatorie che permangano incerte o irrisolte alla stregua della fondamentale regola di giudizio dell’oltre ogni ragionevole dubbio, codificata nell’art. 533 c.p.p., comma 1, il giudice deve attenersi al principio del favor rei, ed escludere quindi l’imputazione soggettiva più grave in favore di quella meno grave (costituita, nel caso di specie, da quella preterintenzionale); e ciò anche al fine di evitare, come rilevato dalle Sezioni Unite, qualsiasi rischio che il giudizio sulla colpevolezza dell’imputato, rispetto al fatto concreto, possa finire per sottintendere un (inammissibile) giudizio sul tipo d’autore.
 
11.5. La sentenza impugnata ha valorizzato, agli effetti di ritenere provato il dolo eventuale negli eventi omicidiari ascritti agli imputati B.M. e P., alcuni degli indici rivelatori di natura indiziaria indicati dalle Sezioni Unite, e in particolare: la lontananza dallo standard previsto dalle linee guida della condotta medico-chirurgica tenuta dagli imputati, connotata da trascuratezza verso l’età, le condizioni e le co-morbilità dei pazienti, dall’assenza di giustificazione degli interventi e delle resezioni chirurgiche nei riguardi di soggetti prossimi alla morte per effetto dello stato avanzato delle patologie, già diagnosticate, da cui erano affetti, dalla mancanza nella struttura sanitaria di alcuni presidi necessari e di personale addetto all’effettuazione di esami doverosi; la personalità dell’imputato B.M., desunta dai contenuti delle conversazioni intercettate, da cui erano emersi il suo sostanziale disinteresse nei confronti dei pazienti e le finalità perseguite di massimizzazione dei profitti e di accreditamento personale e professionale dell’equipe chirurgica attraverso l’esecuzione di interventi invasivi e pericolosi; la durata e la ripetitività delle condotte (anche indipendentemente dal numero degli eventi mortali) che sono state complessivamente accertate nei due processi celebrati a carico dei prevenuti, contenute in un paio d’anni di attività chirurgica e connotate da schemi operativi ricorrenti, quali la prospettazione ai pazienti dell’urgenza di intervenire chirurgicamente, la sottovalutazione del rischio operatorio anche nei rapporti coi pazienti e coi loro parenti, l’esecuzione d’acchito di interventi invasivi come la VATS in assenza di esami esaustivi per l’accertamento della diagnosi; la condotta successiva al fatto, con riguardo alla sistematica
omissione dell’autopsia dei pazienti deceduti e alla generale mancata indicazione nelle schede di morte della possibile incidenza causale dell’intervento chirurgico eseguito; l’alta probabilità di verificazione dell’evento mortale sulla scorta di un giudizio ex ante, formulabile in base all’età avanzata dei pazienti, alle loro condizioni defedate, allo stadio raggiunto dalle patologie da cui erano affetti, nonchè la verosimile scelta di sottoporre a intervento chirurgico simili pazienti proprio in funzione del ragionevole convincimento degli imputati che l’eventuale decesso sarebbe stato attribuito alla gravità delle patologie (e non alla condotta operatoria); il fine e le motivazioni egoistiche della condotta.
 
11.6. I giudici di merito si sono essenzialmente limitati a enumerare l’esistenza, nella condotta degli imputati, di una serie di possibili indicatori dell’animus necandi, nella forma del dolo eventuale, ma hanno sostanzialmente eluso il nucleo fondamentale del ragionamento probatorio-argomentativo necessario per l’affermazione della sussistenza del ridetto elemento psicologico, nei termini (ut supra) richiesti dalle Sezioni Unite di questa Corte, che esigevano la puntuale e rigorosa verifica della ricorrenza – in relazione a ciascuno dei quattro eventi mortali – dell’elemento volontaristico tipico del dolo, costituito non solo dalla rappresentazione del decesso del paziente come conseguenza della condotta dell’agente priva di reale giustificazione medico-chirurgica e animata dalle motivazioni egoistiche sopra descritte, e non tanto dalla mera accettazione del rischio di verificazione del relativo evento, quanto soprattutto dalla concreta adesione psichica all’accadimento dell’evento-morte, mediante il positivo accertamento della determinazione volitiva degli imputati di agire comunque, ciò nonostante e dopo aver valutato l’eventuale prezzo da pagare, anche a costo di causare la morte del paziente, pur di perseguire e realizzare il fine primario della condotta.
 
L’inadeguatezza del percorso motivazionale seguito dai giudici di merito, nella sentenza impugnata, per giustificare la condanna degli imputati a titolo di omicidio volontario (anzichè preterintenzionale), che ne inficia la intrinseca tenuta logica, discende, in definitiva, dall’aver attribuito una dirimente capacità dimostrativa, agli effetti della prova del dolo eventuale di omicidio, ai medesimi elementi di natura indiziaria, sopra indicati, che – se sono stati correttamente utilizzati e valorizzati sul piano della prova della irriconducibilità della condotta degli imputati a un esercizio lecito dell’attività medico-chirurgica, e della conseguente affermazione della natura dolosa della lesione dell’integrità fisica dei pazienti cagionata da interventi operatori privi di ogni legittimazione – non possono invece valere di per sè a integrare la prova (anche) della sussistenza dell’elemento psicologico, diverso e ulteriore, del più grave delitto di cui all’art. 575 c.p., ma dovevano essere sottoposti a un autonomo vaglio critico nell’ambito del più ampio giudizio inferenziale volto a ricostruire l’iter decisionale dell’agente e il correlativo atteggiamento psichico nei riguardi dell’evento più grave concretamente verificatosi (la morte del paziente), ispirato alla fondamentale regula iuris per cui la prova dell’imputazione soggettiva più grave (a scapito di quella ex art. 584 c.p.) deve essere raggiunta al di là di ogni ragionevole dubbio.
 
La sentenza d’appello, invero, ha omesso di confrontarsi puntualmente con altri elementi indicatori, di potenziale segno contrario, emersi dalle risultanze istruttorie, o comunque con la possibile lettura alternativa, sollecitata dalla difesa degli imputati, di taluni degli elementi presi in esame dai giudici di merito, secondo i criteri di valutazione della prova di natura indiziaria indicati da questa Corte, che prevedono che al vaglio di ciascun elemento, singolarmente considerato, funzionale a verificarne la certezza e l’intrinseca capacità dimostrativa, faccia seguito un apprezzamento globale del quadro indiziario complessivo, unitariamente considerato, inteso ad accertare se le ambiguità residuate nei singoli elementi che lo compongono possano risolversi in un risultato probatorio munito di un alto grado di credibilità razionale (ex plurimis, Sez. 1 n. 20461 del 12/04/2016, Rv. 266941).
 Con riferimento agli indicatori enumerati dalla citata sentenza n. 38343 del 2014 delle Sezioni Unite, la motivazione della decisione impugnata non ha dato conto, in particolare, di avere adeguatamente valutato, nel giudizio ricostruttivo dell’atteggiamento psichico e volitivo degli imputati in termini di dolo omicidiario, l’incidenza dei seguenti elementi:
 
– la storia e le pregresse esperienze professionali dei prevenuti, sotto il profilo della possibile convinzione dei chirurghi B.M. e P. di essere in grado, sulla base dell’esperienza maturata, di controllare il rischio operatorio, per quanto ingiustificato, al quale avevano deciso di sottoporre i pazienti;
 
– il loro comportamento contestuale o immediatamente successivo all’intervento chirurgico causativo del decesso, talora caratterizzato da una fattiva e spontanea opera soccorritrice (per quanto non andata a buon fine), come nel caso del tentativo di clampaggio e delle manovre di recupero poste in essere, a seguito dell’emorragia conseguente a lacerazione cardiaca, nel corso dell’intervento operatorio riguardante il paziente S.A. (descritto alle pagine 281-287 della sentenza d’appello), sotto il profilo della compatibilità con un atteggiamento di accettazione adesiva – ex ante – della verificazione dell’evento morte;
 
– la stessa probabilità oggettiva di accadimento dell’evento, sogguardata dal punto di vista (antecedente) dell’agente e della percezione che questi ne aveva avuto, da apprezzarsi anche con riferimento all’effettiva incidenza numerico/proporzionale dei casi accertati di morte del paziente eziologicamente riconducibili all’intervento operatorio, rispetto al ben più ampio e consistente numero di interventi chirurgici privi di giustificazione ascritti agli imputati nel periodo esaminato, oggetto dei due processi celebrati a loro carico;
 
– le conseguenze negative, ordinariamente prevedibili ex ante, anche per gli imputati/agenti, della verificazione dell’evento mortale, sotto il profilo personale, professionale e del rischio processuale notoriamente connesso agli accertamenti doverosi dell’autorità giudiziaria in caso di decesso del paziente durante o subito dopo l’operazione;
 
– l’elemento di valutazione controfattuale, sintetizzato nella c.d. prima formula di Frank, fondato sulla capacità delle concrete acquisizioni probatorie di dimostrare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che gli imputati non si sarebbero trattenuti dalla condotta operatoria illecita (perchè priva di legittimazione medico-chirurgica) neppure se avessero avuto contezza della sicura verificazione della morte del paziente, accettandone l’eventualità.
 
La motivazione della sentenza d’appello si rivela logicamente incongrua anche nella parte in cui ha attribuito valenza indiziante del dolo di omicidio a condotte post factum degli imputati – come quelle consistite nella mancata richiesta dell’esame autoptico dei pazienti deceduti a seguito dell’intervento chirurgico o nell’omessa indicazione nelle schede di morte da essi redatte della possibile incidenza causale dell’intervento stesso nell’esito letale – senza confrontarsi criticamente con la possibile insorgenza dell’elemento psichico che ha animato tali condotte soltanto in un momento successivo alla verificazione dell’evento (morte), in funzione di un interesse sopravvenuto a elidere o ridurre il rischio di accertamento di una propria responsabilità, non necessariamente riconducibile a un atteggiamento volitivo di natura dolosa preesistente all’intervento operatorio.
 
11.7. Il rilevato vizio di motivazione, sotto tali profili, della sentenza impugnata comporta l’annullamento delle condanne degli imputati B.M. e P. e del responsabile civile I.C.C.S. Istituto Clinico Città Studi s.p.a., per i delitti di cui ai capi 46, 47, 48 e 49 della rubrica, oggetto delle
rispettive impugnazioni, limitatamente alla ritenuta sussistenza del dolo di omicidio e alla qualificazione giuridica dei reati, in termini di omicidio volontario anzichè di omicidio preterintenzionale, con rinvio ad altra sezione della Corte d’assise d’appello di Milano per nuovo giudizio su tali punti (e su quello relativo alla rideterminazione della pena, eventualmente destinato a conseguirne), che si conformi ai principi di diritto sopra indicati e non ricada nelle medesime, censurate, lacune e incongruenze motivazionali.
 
Restano di conseguenza assorbite, in funzione della libertà di giudizio che deve essere riconosciuta al giudice di rinvio in sede di eventuale rideterminazione della pena, le doglianze dedotte nel sesto motivo del ricorso proposto dall’avv. Titta Madia nell’interesse del B.M., e nel ricorso dell’avv. Mocchi nell’interesse del P., riguardanti (rispettivamente) il diniego delle attenuanti generiche e il mancato riconoscimento della prevalenza delle stesse sulla aggravante del nesso teleologico.
 
Il ricorso proposto nell’interesse del responsabile civile Istituto Clinico Città Studi s.p.a. (I.C.C.S.).
 
12. I motivi del ricorso proposto nell’interesse del responsabile civile sono infondati, con la sola eccezione della censura relativa alla sussistenza del dolo di omicidio nel fatto ascritto al capo 46 della rubrica agli imputati B.M. e P., per le ragioni che seguono.
 
Va anzitutto rilevato che le censure dedotte nei primi quattro motivi di doglianza si limitano sostanzialmente a riproporre, negli stessi termini, le medesime questioni che avevano costituito oggetto dei corrispondenti motivi d’appello proposti dal responsabile civile avverso la decisione di primo grado, e che sono state puntualmente esaminate e ritenute infondate dalla sentenza impugnata con motivazioni che devono intendersi qui integralmente richiamate; nella misura in cui non si confrontano in modo critico con le risposte della Corte distrettuale, ma si limitano a riproporre il contenuto – disatteso – dei motivi d’appello, le censure rivelano perciò una natura aspecifica che le rende infondate fino a rasentare l’inammissibilità, in conformità all’orientamento di questa Corte Suprema secondo cui la natura generica delle doglianze, che discende dall’assenza di correlazione tra le ragioni argomentative della sentenza gravata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, costituisce una causa tipica di inammissibilità del ricorso per cassazione (Sez. 2 n. 36406 del 27/06/2012, Rv. 253893).
 
Quanto al primo motivo di ricorso, deve essere ribadito il principio di diritto già affermato da questa Corte nella sentenza n. 35104 del 22/06/2013 (Rv. 257122) emessa nell’altro processo celebrato per fatti analoghi a carico degli imputati, nell’ambito del quale identica eccezione di carenza di legittimazione passiva del responsabile civile era stata sollevata da I.C.C.S. – secondo cui, in caso di ricovero presso una struttura sanitaria gestita da un ente pubblico o privato, la responsabilità civile conseguente al fatto-reato commesso dal medico inserito nell’organizzazione dell’ente è imputabile (anche) a quest’ultimo, a titolo di responsabilità extracontrattuale ex artt. 2043 e 2049 c.c., quando il fatto si atteggi oggettivamente come reato e la condotta che ne contribuisce a costituire l’elemento oggettivo rappresenti una manifestazione del servizio di cui il paziente è stato ammesso a fruire presso l’ente stesso.
 
La concorrenza, col titolo di responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c. facente capo direttamente all’ente in forza dell’inadempimento dell’obbligazione contratta col paziente e materialmente prestata dall’ausiliario (il medico-chirurgo) di cui l’ente si è avvalso, anche della responsabilità aquiliana per fatto altrui conseguente al reato commesso dal soggetto della cui attività illecita l’ente è tenuto a rispondere ai sensi dell’art. 185 c.p., comma 2, legittima l’esercizio nel processo penale dell’azione risarcitoria civile ex delicto, da parte dei soggetti
danneggiati dal reato, mediante la costituzione di parte civile nei confronti del ricorrente, in qualità di responsabile civile per i fatti commessi dagli imputati B.M., P. e Pa., e la sua condanna al risarcimento dei danni cagionati dal reato in conformità a quanto correttamente ritenuto dalla sentenza impugnata.
 
Anche il secondo motivo di ricorso è infondato, avendo la sentenza d’appello fatto corretta applicazione del principio per cui la formalità della citazione del responsabile civile a istanza della parte civile, prevista dall’art. 83 c.p.p., non è necessaria qualora la parte civile intervenga nel giudizio pendente tra altre parti e il medesimo responsabile civile, purchè dichiari che gli effetti della sua costituzione sono rivolti nei confronti del responsabile civile già presente nel giudizio, e tale dichiarazione sia espressa non oltre il termine utile per la costituzione di parte civile nel processo penale (Sez. 4 n. 12710 del 17/12/2010, in motivazione; Sez. 5 n. 5392 del 24/03/1981, Rv. 149166).
 
Nel caso di specie, la Corte distrettuale ha dato atto che la parte civile Be.Em. aveva formulato le sue richieste nei confronti del responsabile civile I.C.C.S. fin dall’udienza preliminare, sede nella quale quest’ultimo era già costituito in giudizio, così tempestivamente esercitando la vocatio in ius (in un momento processuale antecedente il termine finale rappresentato, ex art. 491, dal dibattimento di primo grado) senza necessità di procedere all’ulteriore notificazione a I.C.C.S. di un autonomo atto di citazione, con conseguente infondatezza (e inconferenza) delle argomentazioni del ricorrente deducenti il tardivo esercizio dell’azione civile e la mancata accettazione del contraddittorio nei riguardi della Be..
 
Il terzo motivo di ricorso è infondato perchè, come rilevato dalla sentenza impugnata, la pronuncia, da parte dei giudici di merito, di condanna generica al risarcimento del danno lamentato, mediante la costituzione di parte civile, dalla Regione Lombardia e dalla A.S.L. di Milano non preclude al responsabile civile di far valere, nell’instaurando giudizio civile deputato alla liquidazione del quantum, le proprie ragioni in ordine all’ammontare effettivo del danno cagionato ai predetti enti pubblici dai fatti-reato oggetto di giudizio, nè la possibilità di opporre alle parti civili le transazioni con effetto solutorio nel frattempo intervenute; la parte civile è legittimata, infatti, a precisare, nella separata sede civile, l’entità del risarcimento richiesto, bastando a giustificare la pronuncia di condanna generica – in questa sede penale – nei confronti di entrambi gli enti (Regione e A.S.L.), titolari di autonome e non sovrapponibili pretese risarcitorie, la fondata allegazione di aver subito un danno, anche di natura non patrimoniale, per effetto del commesso reato (Sez. 4 n. 6380 del 20/01/2017, Rv. 269132; Sez. 6 n. 7128 del 22/12/2015, Rv. 266537).
 
Tra le componenti del pregiudizio non patrimoniale risarcibile rientra anche il danno subito dagli enti pubblici alla propria immagine, la cui lesione è legittimamente configurabile anche con riferimento a reati commessi (come nella specie) da soggetti privati in danno di altri soggetti privati (Sez. 5 n. 1819 del 27/10/2016, Rv. 269124); la riconducibilità del fatto generatore del danno all’immagine alla condotta illecita di un privato, e non di un pubblico ufficiale appartenente alla pubblica amministrazione che lo subisce, esclude in radice la carenza di giurisdizione del giudice ordinario evocata dal ricorrente; per scrupolo di motivazione, va peraltro ricordato che questa Corte ha già affermato, in via generale, il principio di non interferenza e di reciproca autonomia tra la giurisdizione penale e la giurisdizione contabile anche nel caso di azione di responsabilità derivante da un (medesimo) fatto-reato commesso dal pubblico dipendente in danno dell’amministrazione di appartenenza (Sez. 6 n. 3907 del 13/11/2015, Rv. 266110).
 
La diversità e la maggiore gravità, rispetto a quelli giudicati con la sentenza n. 35104 del 2013
di questa Corte, dei reati oggetto del presente giudizio, commessi nel contesto di un’attività medico-chirurgica esercitata in regime di convenzione con gli enti pubblici costituiti parti civili, comprendenti fatti che sono stati ascritti agli imputati anche a titolo di omicidio, escludono infine l’ipotesi paventata dal ricorrente – di una duplicazione del danno, anche solo all’immagine, patito dai predetti enti, con riferimento alle due distinte e ingravescenti serie di fatti-reato separatamente giudicati, confermando anche sotto tale profilo la correttezza giuridica delle statuizioni civili della sentenza impugnata.
 
Per ragioni analoghe sono infondate anche le censure, dedotte nel quarto motivo di ricorso, avverso la condanna risarcitoria generica pronunciata a carico del responsabile civile in favore dell’associazione Medicina Democratica, che la Corte distrettuale ha individuato, in conformità al citato precedente specifico di cui alla sentenza n. 35104 del 2013 di questa Corte Suprema, quale ente esponenziale (caratterizzato da effettività, radicamento e diffusione nazionale) di interessi diffusi alla tutela della salute e dei diritti dei malati nei rapporti con le strutture sanitarie pubbliche e private, interessi che la predetta associazione è perciò legittimata a tutelare mediante la costituzione di parte civile nel processo penale per ottenere il risarcimento del danno morale corrispondente alla lesione dello scopo statutariamente perseguito.
 
Le doglianze dedotte nel quinto motivo di ricorso sono infondate, fino a rasentare l’inammissibilità, nella parte in cui contestano l’assenza di finalità e giustificazione terapeutica dell’intervento chirurgico eseguito dagli imputati B.M. e P. nei confronti del paziente S.A., che costituisce il fatto-reato generatore della responsabilità civile del ricorrente; le relative deduzioni, argomentate essenzialmente in punto di fatto e in termini ipotetici, volte a contestare l’inutilità dell’approccio chirurgico alle patologie di cui soffriva lo S. e a evidenziare le possibili controindicazioni dell’esecuzione di un’agobiopsia, si limitano alla riproposizione di questioni analoghe a quelle oggetto dei motivi di ricorso degli imputati, che sono già state esaminate e giudicate prive di fondamento per le ragioni più sopra esposte, da intendersi qui integralmente richiamate.
 
Manifestamente infondata, in particolare, è la censura riguardante la sussistenza del nesso causale tra la condotta operatoria degli imputati e la morte dello S., formulata in termini che non si confrontano con la motivazione della sentenza impugnata, che ha dato conto della collocazione intraoperatoria della morte del paziente, dovuta alla lacerazione cardiaca causata dai chirurghi durante l’intervento, che aveva determinato un’emorragia di natura massiva e inarrestabile (pagina 282 della sentenza d’appello).
 
La doglianza relativa alla sussistenza del dolo omicidiario, nella condotta degli imputati, è invece fondata nei termini che sono già stati esposti con riferimento ai ricorsi degli imputati, ai quali si rimanda.
 
Il sesto motivo di ricorso, afferente la condanna per il reato di lesione personale aggravata in danno di C.P., è infondato per le medesime ragioni indicate nella trattazione dei corrispondenti motivi degli imputati B.M. e P., laddove è stato dato atto dell’insussistenza di indicazione medico-chirurgica dell’intervento eseguito e della conseguente idoneità della condotta a integrare gli elementi costitutivi del delitto di cui all’art. 582 c.p. e art. 583 c.p., comma 1, n. 1, configurabile allorchè dall’alterazione anatomica correlata all’incisione chirurgica sia derivato un significativo processo patologico o il suo aggravamento, ovvero una significativa compromissione delle funzioni dell’organismo, anche non definitiva (Sez. 4 n. 22156 del 19/04/2016, Rv. 267306), rappresentata nel caso del C. dalla alterazione in senso peggiorativo della dinamica respiratoria, alla quale aveva fatto seguito la morte della persona offesa nel
giro di poco più di un mese.
 
Parimenti infondato è il settimo motivo di ricorso, che censura la declaratoria di estinzione per prescrizione maturata nel grado d’appello – con la conseguente conferma, agli effetti civili, delle statuizioni risarcitorie pronunciate dal giudice di primo grado – del reato di lesione personale ascritto agli imputati B.M., P. e Pa. con riguardo agli ultimi due interventi chirurgici di VATS, consistiti in pleuractomia parziale e toilette del cavo pleurico, eseguiti sul paziente G.G., oggetto del capo 34 della rubrica; si tratta, anche in questo caso, di doglianze in punto di fatto, che non scalfiscono la tenuta logica della motivazione con cui i giudici di merito hanno ricondotto i fatti al consueto modus operandi degli imputati, rappresentato dall’esecuzioni di interventi inutili, animati da mere finalità di lucro patrimoniale, lesivi dell’integrità fisica del soggetto (mediante le ingiustificate resezioni di tessuto pleurico) in termini idonei a integrare il delitto di cui all’art. 582 c.p..
 
Le statuizioni sulle spese sostenute dalle parti civili.
 
13. Il rigetto dei ricorsi degli imputati e del responsabile civile avverso la condanna, agli effetti penali e civili, per il reato di lesione personale aggravata in danno di C.P., ascritto al capo 31, comporta la condanna solidale dei predetti B.M., P. e I.C.C.S. – Istituto Clinico Città Studi s.p.a. alla rifusione delle spese sostenute nel presente giudizio dalle parti civili C.G.G. e Ca.An., costituite in qualità di eredi della persona offesa, il cui difensore è comparso in udienza rassegnando le proprie conclusioni; le spese si liquidano nella misura indicata nel dispositivo.
 
Il rigetto del ricorso del responsabile civile avverso la conferma, agli effetti civili, delle statuizioni risarcitorie pronunciate dalla sentenza di primo grado in favore di G.G., persona offesa del reato di lesione personale di cui al capo 34 dichiarato estinto per prescrizione, comporta la condanna del medesimo I.C.C.S. – Istituto Clinico Città Studi s.p.a. alla rifusione delle spese sostenute nel presente giudizio dalle parti civili Be.Em. e G.G., costituite in qualità di eredi del de cuius, i cui difensori sono comparsi in udienza rassegnando le proprie conclusioni, spese che si liquidano nella misura indicata nel dispositivo e delle quali va disposto il pagamento in favore dei rispettivi difensori avv. Paolo Sorlini e avv. Marco Marzari, in conformità alla richiesta di distrazione dagli stessi formulata ex art. 93 c.p.c..
 
14. La richiesta di rifusione delle spese sostenute nel presente giudizio formulata dall’avv. Gianluca Sala in qualità di difensore e procuratore speciale della parte civile Z.S., persona offesa del reato di lesione personale di cui al capo 43, deve essere dichiarata inammissibile, emergendo dalle stesse note d’udienza, allegate alle conclusioni depositate dal difensore, la sostanziale carenza di interesse della Z. a interloquire nel giudizio di cassazione, discendente dalla dedotta assenza di una specifica impugnazione, da parte degli imputati, del capo (autonomo) della sentenza d’appello riguardante la conferma, nei loro confronti, delle statuizioni civili conseguenti all’estinzione del reato per prescrizione dichiarata dal giudice di secondo grado, con conseguente formazione del relativo giudicato; l’assenza di un concreto interesse della Z. a contraddire nel presente giudizio è ulteriormente convalidata dall’intervenuta transazione col responsabile civile (della quale gli imputati sono legittimati a profittare ex art. 1304 c.c.), che ha comportato la revoca della pronuncia risarcitoria nei confronti dello stesso, di cui la sentenza impugnata ha dato puntualmente atto (alla pagina 159).
 
15. La regolazione delle spese relative al rapporto processuale riguardante le altre parti civili che hanno presentato le loro conclusioni – Regione Lombardia, A.T.S. Milano (già A.S.L. Città
di Milano), Medicina Democratica ONLUS, S.M. in qualità di figlia ed erede della persona offesa S.A. – deve essere opportunamente rimessa al giudice di rinvio, che terrà conto dei principi di causalità e soccombenza, in ragione dell’incidenza nella relativa liquidazione della qualificazione giuridica dei reati di omicidio di cui ai capi 46, 47, 48 e 49 devoluta a tale sede.
 
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di B.M.P.P. e P.P.F. relativamente al reato di cui al capo 23 perchè estinto per prescrizione.
 
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di B.M.P.P., di P.P.F. e del responsabile civile ICCS – Istituto Clinico Città Studi s.p.a. con riferimento ai delitti di cui ai capi 46, 47, 48 e 49 limitatamente al dolo di omicidio e alla qualificazione giuridica dei reati e rinvia per nuovo giudizio su tali punti, nonchè per la rideterminazione della pena, ad altra sezione della Corte d’assise d’appello di Milano.
 
Rigetta nel resto i ricorsi degli imputati e del responsabile civile.
 
Condanna gli imputati B.M. e P. e il responsabile civile ICCS – Istituto Clinico Città Studi s.p.a. a rifondere le spese sostenute nel presente giudizio alle parti civili C.G.G. e Ca.An. che liquida in complessivi Euro 4.200,00 oltre spese generali, iva e cpa come per legge.
 
Condanna il responsabile civile ICCS – Istituto Clinico Città Studi s.p.a. a rifondere le spese sostenute nel presente giudizio dalle parti civili Be.Em. e G.G. che liquida in Euro 3.500,00 ciascuna, oltre spese generali, iva e cpa come per legge, disponendone il pagamento in favore dei rispettivi difensori distrattari avv. Paolo Sorlini e avv. Marco Marzari.
 
Dichiara inammissibile la domanda di rifusione delle spese del presente giudizio proposta da Z.S..
 
Rimette al giudice di rinvio la statuizione sulle spese delle altre parti civili.
 
Così deciso in Roma, il 22 giugno 2017.
 
Depositato in Cancelleria il 3 aprile 2018.

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Ideatore e fondatore di questo blog, iscritto all'Ordine degli Avvocati di Palmi e all'Ilustre Colegio de Abogados de Madrid; Sono appassionato di diritto e di fotografia e il mio motto è ... " il talento non è mai stato d'ostacolo al successo... "
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