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Iscrizione obbligatoria alla Cassa, ecco la risposta del TAR del Lazio

TAR Lazio, sez. III-bis, sentenza 10 marzo – 24 giugno 2016, n. 7353

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Iscrizione obbligatoria alla Cassa, ecco la risposta del TAR

TAR Lazio, sez. III-bis, sentenza 10 marzo – 24 giugno 2016, n. 7353

Presidente/Estensore Quiligotti

Fatto e diritto

1 – Con il ricorso introduttivo del presente giudizio i ricorrenti hanno impugnato il Regolamento attuativo ai sensi dell’art. 21, commi 8 e 9, della Legge n. 247/2012, approvato con la nota ministeriale n. 36/0011604/MA004.A007/AVV-L-110 del 7 agosto 2014, pubblicata in G.U. – Serie Generale n. 192 del 20 agosto 2014 a cura del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, recante l’approvazione, di concerto con il Ministero dell’Economia e delle Finanze e il Ministero della Giustizia, della delibera adottata dal Comitato dei Delegati della Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense n. 20 del 20 giugno 2014, con specifico riferimento agli articoli 7, comma 6 e 9, comma 5. Alla trattazione nel merito del ricorso hanno premesso l’illustrazione della propria posizione ai fini della dimostrazione della propria legittimazione e del proprio interesse alla presentazione del ricorso in trattazione. In particolare hanno rilevato, al riguardo, che: – prima dell’entrata in vigore della legge n. 247/2012 gli stessi non risultavano iscritti alla Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense e risultavano, invece, iscritti soltanto all’Albo degli Avvocati; – gli stessi sono stati, tuttavia, adesso iscritti ope legis alla Cassa di categoria e sarebbero costretti, in virtù del Regolamento impugnato, a corrispondere per l’anno 2014 l’importo c.d. minimo obbligatorio di cui agli artt. 7, 8 e 9, pur avendo percepito nel 2013 un reddito molto basso ovvero pari a zero, come da documentazione inviata alla Cassa Forense, salvo doversi cancellare dall’Albo degli Avvocati nei tempi brevi di cui all’art. 12, ossia novanta giorni dal ricevimento della comunicazione da parte della Cassa Forense della predetta iscrizione ope legis; – scaduti i periodi temporanei concessi dal Regolamento per le agevolazioni riservate ai percettori di reddito pari ad €. 10.300,00, dovrebbero versare il contributo minimo obbligatorio annualmente fissato dalla Cassa Forense e attualmente pari a circa €. 3.600, così essendo costretti a cessare dalla professione di avvocato, anche in virtù dell’attuale art. 15 del Codice Deontologico Forense che sanziona disciplinarmente l’omesso o il ritardo nel pagamento di quanto dovuto alle Istituzioni Forensi, ivi comprese la Cassa Forense. In punto di diritto i ricorrenti – dopo avere in via ulteriormente preliminare dedotto la tempestività del ricorso in quanto notificato entro il termine perentorio di legge decorrente dalla pubblicazione del regolamento impugnato sulla G.U. – ne hanno dedotto l’illegittimità per i seguenti motivi di censura: 1 – Violazione di legge e illegittimità costituzionale dell’articolo 21, commi 8 e 9, della Legge n. 247 del 2012 per violazione del principio di legalità di cui agli artt. 23, 97, 113 della Costituzione nonché del canone di ragionevolezza della legge di cui all’articolo 3 della Costituzione. L’articolo 21, comma 9, della legge n. 247 del 2012 conferisce tout court alla Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense il potere di determinare con proprio regolamento la misura dei contributi minimi dovuti dai percettori di reddito sotto i parametri reddituali, senza al contempo fissare dei criteri puntuali e precisi per l’esercizio della normazione secondaria, lasciando, in tal modo, al mero arbitrio della Cassa categoriale il potere di fissare un minimo obbligatorio svincolato da qualsiasi parametro di controllo, con conseguente violazione del principio di legalità, i cui parametri normativi di riferimento sono costituti proprio dagli artt. 97, 23 e 114 Cost.. La determinazione di un contributo obbligatorio c.d. agevolato per i professionisti sotto i parametri reddituali che è riservato solo ai primi anni di esercizio della professione, in quanto successivamente anche professionisti sono assoggettati alla contribuzione ordinaria, è in palese violazione del disposto normativo dell’articolo 21 della legge n. 247 del 2012. 2 – Violazione di legge e illegittimità dell’articolo 21, commi 8 e 9, della legge n. 247 del 2012 per violazione dei principi comunitari sulla concorrenza di cui all’articolo 117 della Costituzione e 106 T.F.U.E. e di cui agli artt. 15, paragrafo 1, 16 e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’unione europea nonché illegittimità costituzionale dell’articolo 21, commi 8 e 9, della legge n. 247 del 2012 per violazione dell’articolo 41 della Costituzione nonché degli artt. 2, 3, 4 e 33, comma 5, 41 e 53 della Costituzione. L’ente di previdenza è composto esclusivamente da rappresentanti del vertice del ceto professionale degli avvocati – atteso che il diritto di elettorato passivo spetta solo agli avvocati con più di dieci anni di regolare e continuativa iscrizione alla Cassa – e sarebbe stato, quindi, condizionato, nel determinare la contribuzione previdenziale, dall’interesse corporativo di limitare l’accesso alla professione, con l’effetto di restringere la concorrenza e, tuttavia, l’assoggettamento delle professioni intellettuali ai principi comunitari sulla concorrenza vigenti per le imprese rende loro applicabili, per quanto di specifico interesse in questa sede, in particolare proprio il divieto di porre in essere misure restrittive della concorrenza di cui all’art. 106 T.F.U.E.. L’art. 21, commi 8 e 9, della legge n. 247 del 2012 collega, infatti, automaticamente l’iscrizione alla Cassa Forense alla semplice iscrizione all’Albo degli avvocati, facendo nascere conseguentemente e immediatamente l’obbligo del pagamento del contributo previdenziale indipendentemente da una reale e sufficientemente adeguata produzione di reddito. Le norme denunciate ledono, peraltro, la dignità morale dei soggetti che hanno conseguito l’abilitazione professionale, ma non hanno la possibilità di sostenere gli oneri contributivi fissati dall’ente di previdenza forense, costringendoli, pertanto, a cancellarsi dall’Albo ovvero a non iscriversi ad esso, precludendo loro, quindi, la possibilità di esercitare l’attività professionale e di realizzare in tal modo la propria personalità. L’art. 33, comma 5, della Costituzione prevede, per l’accesso e l’esercizio delle professioni regolamentate, esclusivamente il requisito dell’abilitazione che si consegue tramite un esame di Stato finalizzato a valutare le capacità intellettuali e la preparazione tecnica dell’aspirante avvocato, con la conseguenza che qualsiasi impedimento o limitazione all’esercizio della professione di avvocato deve ritenersi in contrasto con il citato comma 5 dell’art. 33 Cost. . Non può ritenersi ragionevole una previsione di legge che imponga il versamento di un contributo minimo di elevata entità indipendentemente dalla considerazione del raggiungimento di un adeguato reddito che consenta di adempiere all’obbligo previdenziale unitamente agli altri obblighi fiscali, senza privare al contempo il soggetto del minimo vitale per sopravvivere. Vi è una mancanza di coerenza logica e teleologica della legge censurata laddove all’art. 1, comma 2, lettera d), afferma che l’ordinamento forense favorisce l’ingresso alla professione di avvocato e l’accesso alla stessa, in particolare per le giovani generazioni, con criteri di valutazione di merito, e al successivo art. 3, comma 1, proclama solennemente che l’esercizio della professione di avvocato deve essere fondato sul giudizio intellettuale rispetto alla contestata disciplina di cui ai commi 8 e 9 dell’articolo 21. L’obiettivo della norma censurata non sarebbe quello di garantire la pensione ai nuovi iscritti, ma di produrre uno sfoltimento degli Albi attraverso la cancellazione degli avvocati che non raggiungono un reddito sufficiente ad assolvere il pagamento del contributo minimo soggettivo e ciò si evincerebbe dal fatto che il Regolamento attuativo prevede un ampio margine di tempo per dare modo agli iscritti agli Albi di cancellarsi. L’irragionevolezza assurgerebbe al massimo livello sole se si considerasse che, comunque, il versamento dei contributi è imposto a prescindere da ogni considerazione relativa all’età del soggetto che si iscrive all’Albo, il quale, dunque, potrebbe non raggiungere in relazione all’età di iscrizione alla cassa il numero di anni contributivi necessari per il conseguimento della pensione. Il combinato disposto dei commi 8 e 9 dell’art. 21 viola, inoltre, il principio di proporzionalità come delineato dalla giurisprudenza costituzionale, in quanto il sistema delineato dai predetti articoli stabilisce che chi non ha prodotto reddito deve ugualmente corrispondere, mentre chi ha percepito redditi professionali minimi subisce un sacrificio certamente non proporzionale rispetto al reddito prodotto, come invece impone il principio di progressività. Le norme scrutinate violano, inoltre, il disposto artt. 15 paragrafo 1 e 21 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea che vieta qualsiasi forma di discriminazione fondata in particolare sul patrimonio o la nascita, non potendo, pertanto, le condizioni economiche rappresentare un ostacolo e comunque un valido discrimen ai fini della valutazione dei requisiti per l’esercizio della professione di avvocato. Non è possibile stabilire i tempi occorrenti per l’avvio dell’attività di avvocato, ben potendosi verificare il caso di colui il quale dopo 10 anni di iscrizione all’Albo non trova, nell’attuale congiuntura economica per di più, dei canali di clientela che gli consentano di produrre reddito. 3 – Premessa sul problema interpretativo dell’articolo 21 della legge n. 247 del 2012. 4 – Violazione dell’art. 21, comma 9, primo periodo, della legge n. 247 del 2012 per la tardiva adozione intervenuta dopo la scadenza del termine di un anno ivi previsto e dell’art. 21, commi 8 e 9, della medesima legge per eccesso di delega nonché eccesso di potere per violazione dell’art. 20 del Decreto Interministeriale 28 settembre 1995 e successive modificazioni. I ricorrenti hanno dedotto al riguardo che: – la norma di cui trattasi stabilisce che i minimi contributivi in questione debbono essere “determinati” entro un anno dalla data di entrata in vigore della legge, ossia il 2.2.2013, nella specie entro la mezzanotte di sabato 1 Febbraio 2014, o al più tardi lunedì 3 Febbraio 2014, ai sensi dell’art. 155 c.p.c., come integrato dalla legge n. 263/2005 e il suddetto termine sarebbe non meramente ordinatorio ma decadenziale, proprio per lo scopo di evitare la sovrapposizione nell’applicazione di normative funzionalmente differenti, l’una rivolta ad accogliere tutti gli avvocati in seno al sistema previdenziale, l’altra rivolta a escludere dalla professione (Albo e Cassa Forense); – non sarebbe possibile interpretare la norma di cui sopra nel senso che il termine di un anno sia stato rispettato con la semplice “proposta” da parte di Cassa Forense, potendosi prolungare il procedimento oltre nel tempo in attesa del provvedimento dei Ministeri vigilanti, atteso che la “proposta” avrebbe un efficacia meramente interna alla procedura e la data in cui essa è avvenuta non potrebbe assumere alcuna rilevanza per l’esterno, atteso che l’approvazione ministeriale potrebbe anche essere negata; – il concetto di “determinazione”, per quanto collegato alla proposta, deve riferirsi, necessariamente, all’esito finale del procedimento di formazione dell’atto normativo, esito che consiste nella pubblicazione dell’Atto Ministeriale di approvazione del Regolamento sulla G.U., e, tuttavia, la “determinazione” del Regolamento impugnato, cioè l’atto di approvazione, è pervenuta in tempi tardivi, rispetto a quello fissato dalla legge, per cui l’autorità procedente risulterebbe inequivocabilmente, al tempo di quest’ultimo, ormai del tutto sfornita del c.d. “potere delegato” dall’art. 21 della L. n. 247/2012; – il Comitato dei Delegati di Cassa Forense ha adottato un Regolamento che, oltre ad individuare le soglie reddituali che danno luogo ad agevolazioni contributive, ha operato una revisione dell’intero assetto previdenziale, ben oltre i limiti della norma delegante di cui all’art. 21; – il Regolamento si è allontanato decisamente dai limiti che la legge gli imponeva, disciplinando ipotesi che con l’art. 21, commi 8 e 9, non avrebbero alcuna connessione né logica né giuridica e lo stesso Ministero Vigilante avrebbe confermato e dato atto dell’eccesso di delega; – il Comitato dei Delegati di Cassa Forense ha deliberato nella seduta del 20 giugno 2014 l’adozione del Regolamento attuativo di cui trattasi in violazione della procedura per l’adozione o la modifica dello statuto e dei regolamenti di cui all’art. 20 del Decreto Interministeriale 28 settembre 1995 e successive modificazioni, in quanto, risulta che, alla luce delle raccomandazioni di cui alla nota ministeriale all’esame del Comitato, sono state integrate alcune norme già approvate dal Comitato dei delegati e aggiunti alcuni articoli (art. 15 – norma di salvaguardia) e, tuttavia, in sede di approvazione del Regolamento, il Comitato aveva stabilito che non potevano essere riaperti i termini per la proposizione degli emendamenti formulati rispetto ad alcuni articoli già approvati dal Comitato nella precedente legislatura, e, pertanto, la discussione/approvazione in questione avrebbe dovuto essere oggetto di una specifica seduta del Comitato dei Delegati, che prevedesse peraltro l’inserimento del relativo argomento all’ordine del giorno; 5 – Violazione di legge e conflitto del Regolamento con l’art. 21 della legge n. 247/2012 interpretato in modo costituzionalmente orientato ed eccesso e sviamento di potere fra norma delegante e norma delegata e ulteriore profilo di sperequazione in virtù dell’art. 9, comma 7. L’art. 21 prevede per gli avvocati iscritti ope legis l’adozione di contributi minimi speciali (“contributi nuovi ed autonomi”) e non transitori, i quali debbono essere differenziati anche a seconda della preesistente contribuzione per non violare i principi di non discriminazione ed eguaglianza. Il Regolamento impugnato, invece, sottopone tutti gli avvocati iscritti ope legis alla medesima contribuzione – di tra loro e di tra questi e gli avvocati che raggiungono o superano i parametri reddituali fissati annualmente da Cassa Forense – salvo agevolazioni transitorie che, oltre ad essere tali, non distinguono in base alla preesistente contribuzione avvenuta in favore di Cassa Forense, penalizzando ingiustamente gli uni a vantaggio degli altri. Nel Regolamento impugnato per gli iscritti senza il raggiungimento di parametri reddituali (determinati in applicazione della L. n° 576/80) non sono stati stabiliti speciali “minimi contributivi” connotati dalla stabilità, ma, per quanto svincolati dall’età, sono state stabilite solo alcune agevolazione transitorie (cioè legate a periodi di tempo limitati) e comunque limitate solo ad alcune voci di contribuzione e, quindi, il Regolamento sottopone tutti gli iscritti, una volta pervenuti “a regime”, alla medesima contribuzione, senza differenziare affatto i contributi minimi, se non in via del tutto transitoria. Sarebbe ingiusto imporre gli stessi contributi senza tener conto della differenza di reddito (superiore o inferiore ad €. 10.300) ovvero senza tener conto di chi non ha mai contribuito a Cassa Forense, di chi abbia invece contribuito, ma poi ottenuto un parziale rimborso, ovvero di chi abbia contribuito per un periodo più o meno lungo senza alcun rimborso di quanto versato (L. n. 45/1980). E tale ingiustizia sarebbe poi aggravata dal fatto che si deve ritenere che ben pochi (tra coloro che sono ricompresi nei tre gruppi indicati) avrebbero poi la teorica possibilità di conseguire effettivamente una pensione. La preesistente normativa, per quanto potesse ritenersi ingiusta, poiché concepita solo in funzione previdenziale, non prevedeva l’automatica cancellazione dall’Albo al momento della cancellazione da Cassa Forense e, anche consentendo agli interessati l’alternativa dell’I.N.P.S., non implicava una diretta lesione del principio di non discriminazione dei cittadini-avvocati. Inoltre la violazione della norma delegante si appaleserebbe ulteriormente in quanto la norma delegata riconosce alla contribuzione “agevolata” un periodo di contribuzione di sei mesi in luogo dell’intera annualità sia ai fini del riconoscimento del diritto a pensione sia ai fini del calcolo della stessa, ai sensi dell’art. 4, comma 4 del Regolamento per le prestazioni previdenziali con conseguente violazione del principio di infrazionabilità dell’anno contributivo ai fini previdenziali, quando invece la Gestione Separata dell’I.N.P.S. assicurava, comunque, di là dell’importo contributivo richiesto – in ogni caso proporzionale sempre al reddito – l’interezza dell’anno contributivo ai fini pensionistici. Il Regolamento in questione, inoltre, all’art. 9, comma 7, esclude le agevolazioni ai contributi dovuti per retrodatazione e facoltà di iscrizione ultraquarentenni, nonché per i titolari di pensione di vecchia o anzianità di altri enti pensionistici. Non sarebbe, inoltre, conforme all’art. 33 della Cost. nonché ai principi comunitari sulla concorrenza l’introduzione di specifici requisiti ulteriori rispetto all’Esame di Stato (continuità, prevalenza etc. di cui all’art. 21, comma 1, della legge n. 247/2012) come condizione per l’esercizio della professione non solo per chi si iscrive dopo l’entrata in vigore degli stessi, ma anche per chi era iscritto prima.
6 – Violazione di legge e conflitto del Regolamento impugnato con il principio comunitario sulla libera concorrenza di cui agli artt. 101 e 102 TFU. Premesso che per il TUE, è “imprenditore” anche il professionista, cittadino europeo, che ha diritto a concorrere sul mercato in condizioni di pari opportunità e non discriminazione rispetto a color che offrono gli stessi servizi al pubblico, il Regolamento viola il principio di pari concorrenza tra gli operatori del settore (c.d. “workable competition”) introducendo un’ “ostacolo significativo ad una concorrenza effettiva” e una penalizzazione ingiusta per alcuni con indebito vantaggio per altri. La ricchezza sottratta ai ricorrenti che si trovano in condizioni minori, ma “resistono sul mercato”, viene impiegata per migliorare diametralmente e senza un ragionevole motivo la situazione economica di tutti gli avvocati che percepiscono invece maggiori guadagni, offrendo così loro un “premio” del tutto irragionevole, che altera la concorrenza a loro esclusivo vantaggio, consentendo loro, sia pure potenzialmente, introiti maggiori. Per i ricorrenti, il puntuale adempimento dell’obbligo di contribuzione non è adeguato alla loro situazione economica, non consentirà loro di recuperare nel tempo la contribuzione mancante e li destinerà, in ogni caso, al momento del pensionamento, qualora resistessero, a vedersi liquidare la pensione contributiva non integrata al trattamento minimo già prevista nel regolamento di Cassa Forense. In particolare il cd. “sodalizio previdenziale”, strutturato secondo il combinato disposto art. 21 L. n. 247/2012 e Regolamento delegato, realizza ai danni dei ricorrenti tutte e tre le condizioni indicate nella giurisprudenza comunitaria in materia: e, infatti, tutti gli operatori sono in grado di conoscere l’entità dell’obbligo contributivo che costituisce, dopo un breve periodo transitorio, una effettiva “soglia di sbarramento” per poter permanere nel mercato stesso; il coordinamento permanente previsto dalla seconda condizione è poi costituito dalle decisioni dell’Ente, che possono anche accrescere tale soglia secondo le decisioni del proprio organo deliberante (Comitato dei Delegati,) dal quale promana la volontà degli operatori più forti ed influenti dell’Ente stesso, organizzato come Fondazione privata; e, infine, la terza condizione si avvera per l’effetto dissuasivo a permanere nel mercato nel caso in cui l’operatore si venga a trovare sotto la soglia, atteso che, in questo caso, è costretto ad uscire non solo dal “sodalizio previdenziale”, ma dall’esercizio della professione, se vuole evitare l’ ”handicap” così artificiosamente costruito. In buona sostanza, l’Italia, con il Regolamento di esecuzione dell’art. 21, comma 9, della legge n. 247/2012, ha ancorato l’esercizio della professione forense alla partecipazione obbligatoria a un cd. “sodalizio previdenziale”, ove le decisioni della Cassa Forense e del Comitato elettivo che la governa influenzano in modo determinante il mercato dei servizi legali per tutti coloro che sono iscritti agli Albi degli avvocati, non potendosi questi sottrarre al “sodalizio” se non abbandonando la professione. E, peraltro, la restrizione della concorrenza che ne deriva estende fatalmente i propri effetti dal territorio dell’Italia a quello dell’U.E.; e gli utenti-cittadini dell’U.E. che in futuro avranno bisogno in Italia di servizi legali, saranno probabilmente assoggettati a prezzi molto superiori, non certo rispondenti alla reale efficacia e funzionalità del sistema giudiziario italiano.
Sul tema dello squilibrio ingiusto nella concorrenza ingenerato dal Regolamento impugnato, i ricorrenti chiedono che il T.A.R. adito si rivolga, se ritenuto opportuno, ai sensi dell’articolo 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (T.F.U.E.), alla Corte di Giustizia Europea, mediante la procedura di rinvio pregiudiziale, per ottenere una pronuncia sulla corretta interpretazione del diritto dell’Unione, richiedendo se – ai fini della libera concorrenza – debba essere ritenuto per uno Stato membro legittimo introdurre per tutti gli avvocati il descritto sistema previdenziale obbligatorio, legato alla impossibilità di sottrarsi a una perdita economica irragionevole solo uscendo definitivamente dal mercato e perdendo il diritto di esercitare la professione, ovvero se sia corretto ancorare – nei termini descritti – il diritto di esercitare la professione di avvocato (normalmente acquisito secondo le correnti leggi nazionali) all’iscrizione ad un unico sistema previdenziale, “autogestito”, in forma monopolistica, unicamente dalla Cassa Nazionale di Previdenza forense. 7 – Violazione di legge ed eccesso di potere. Lo scopo effettivo dell’applicazione dell’art. 21, comma 9, nei termini indicati consisterebbe di ottenere subito, per altra via, ciò che era originariamente previsto dall’art. 19 del d.d.l. originario, ossia nel favorire le dimissioni degli avvocati minori, imponendo a questi ultimi la medesima contribuzione di tutti gli altri, sia pure dopo un certo numero di anni e comunque una contribuzione “silente”. Ne sarebbe riprova anche l’art. 12 che dispone per coloro che, “nelle more dell’approvazione Ministeriale del presente Regolamento e, comunque, non oltre 90 giorni dalla sua entrata in vigore, procedessero alla cancellazione da tutti gli Albi professionali prima della comunicazione della formale iscrizione alla Cassa, in deroga a quanto previsto dal presente Regolamento, nessun contributo minimo sarà richiesto, fermo restando il versamento del contributo integrativo in proporzione al volume di affari effettivamente prodotto “; e analogo esonero è previsto per coloro che si cancellino da tutti gli Albi forensi entro 90 giorni dalla comunicazione di iscrizione alla Cassa. E, invece, le modalità di accertamento dell’esercizio effettivo, continuativo, abituale e prevalente della professione, le eccezioni consentite e le modalità per la reiscrizione sono disciplinate con esclusione di ogni riferimento al reddito professionale ai sensi dell’art. 21 della legge n. 247/2012 e, quindi, non si potrebbe accettare il principio secondo cui possa permanere concretamente nell’esercizio della professione soltanto chi sia in grado, per il reddito percepito, di costruirsi una pensione. 8 – Violazione di legge e eccezione di incostituzionalità dell’art. 21 della legge n. 247/2012 per conflitto con gli artt. 3, comma 2, 4 ultimo comma, 33 e 117 Cost.. L’interpretazione dell’art. 21, comma 9, della legge n. 247/2012 preferibile e costituzionalmente orientata è quella secondo la quale tutti gli avvocati hanno il diritto di permanere nell’unico sistema previdenziale, sia quelli che rientrano nei parametri stabiliti ex L. n. 576/1980, sia quelli che non vi rientrano, con pari dignità professionale e pari diritto a restare nel “mercato”. 9. Violazione di legge e violazione del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione e violazione dei Trattati U.E. e E.D.U..
Anteriormente alla riforma forense l’obbligo dell’iscrizione alla Cassa Forense era previsto esclusivamente a carico dei professionisti con redditi al di sopra dei 10 mila euro. Risulta, pertanto, irragionevole, specie in un momento storico attraversato da una gravissima crisi economica, la scelta del legislatore che ha aggravato la tenaglia contributiva a carico delle fasce deboli dei legali italiani, in nome del principio di equilibrio di bilancio della Cassa Forense. Prima dell’entrata in vigore del Regolamento in esame, i contributi dovuti dagli iscritti a regime ordinario per ogni anno di iscrizione alla Cassa si distinguevano in contributo soggettivo (per il 2013 €.2.700,00), integrativo (per il 2013 €.680,00) e di maternità (per il 2013 €.132,00), mentre nel medesimo periodo le agevolazioni per i professionisti a basso reddito prevedevano una contribuzione ridotta comprensiva di due soli contributi, soggettivo e maternità, pari a circa € 1.800,00 per i primi cinque anni di iscrizione. Con l’entrata in vigore del Regolamento per cui è causa le dette agevolazioni sono state lievemente incrementate ma nessuna ipotesi di esenzione o proporzionalità è stata introdotta come invece da più parti si auspicava. Difatti, per i professionisti percettori di redditi professionali ai fini I.R.P.E.F. inferiori a € 10.300,00 il Regolamento attuale ha previsto la riduzione della metà del solo contributo soggettivo e limitatamente all’arco temporale relativo ai primi otto anni di iscrizione alla Cassa, introducendo altresì il contributo integrativo prima escluso in aggiunta a quello già previsto di maternità. Coloro i quali si avvarranno del periodo di contribuzione agevolata, avranno riconosciuto un periodo di contribuzione di sei mesi in luogo dell’intera annualità sia ai fini del riconoscimento del diritto a pensione sia ai fini del calcolo della stessa, mentre prima la stessa contribuzione ridotta valeva per intero, seppur legata al requisito del reddito minimo conseguito. Costringere chi ha un reddito basso a farsi carico di un contributo fisso seppur (edulcorato) al “minimo”, rappresenta un’evidente violazione del principio di proporzionalità e progressività contributiva previsto dall’art.53 Cost., oltre che un chiaro tentativo di determinare già oggi ex lege una classe di avvocati che beneficerà di un contributo da pensione sociale, ben al di sotto della soglia di povertà. Il legislatore continua a considerare disoccupato chiunque percepisca un reddito inferiore a € 4.800,00 lordi annuali e non si comprende come si possa obbligare un avvocato tecnicamente disoccupato al pagamento di contribuzione previdenziale in misura maggiore al reddito dichiarato, pena la cancellazione dall’Albo, anche se a seguito di procedimento disciplinare. Detta cancellazione, peraltro, confligge con i principi costituzionali italiani ed europei che prevedono la libertà di iniziativa economica, la libera concorrenza senza alcuna discriminazione e l’accesso alla professione previo superamento del solo Esame di Stato, quale unico presupposto per ottenere l’abilitazione. Non è pensabile scaricare le conseguenze del calo del fatturato della professione sulle fasce più deboli utilizzando l’escamotage della contribuzione previdenziale obbligatoria, pena la cancellazione dall’Albo. Sarebbe stato, pertanto, più opportuno mantenere una soglia di esenzione per i redditi bassi ed una imposizione contributiva fondata sul criterio della proporzionalità al reddito prodotto e l’art. 21, comma 9, facoltizzava Cassa Forense in tal senso. La possibilità di arrestare l’incremento del numero degli avvocati deve passare attraverso la previsione obbligatoria di un numero chiuso nelle facoltà di giurisprudenza, un eventuale numero massimo di abilitazioni concesse. Il predetto Regolamento, in combinato disposto con il nuovo codice deontologico forense, imporrebbe un obbligo di successo professionale che non ha, e non può avere, alcuna giustificazione plausibile e men che meno la tutela di un pubblico interesse, in quanto la sanzione della censura/sospensione/cancellazione/radiazione non sarebbe imputabile a indegnità ma solo a un insuccesso economico incolpevole che colpirebbe in specie i neoavvocati, le donne avvocato e gli avvocati socialmente fragili. 10 – Eccesso di potere e violazione di legge per difetto di motivazione e violazione del principio di non discriminazione in base alle differenze reddituali, discriminazione vietata dal Diritto Europeo. Nel rapporto previdenziale, intanto vi può essere l’obbligo all’iscrizione e alla contestuale contribuzione, in quanto vi sia la garanzia da parte dell’Ente alla sua solvibilità che richiede, quindi, la stabilità economico – finanziaria di lungo periodo e, tuttavia, l’ultimo Bilancio Tecnico che garantisce la stabilità cinquantennale di cui alla legge n. 214/2012 è stato ottenuto proiettando non i dati reali di numerosità, reddittività, volume d’affari e rendimento del patrimonio dell’Avvocatura, ma i dati offerti dalla Conferenza interministeriale dei servizi che prevedono redditi e volumi di affari in costante aumento, quando, invece, la reddittività e il volume d’affari degli avvocati italiani è regredito a quello della fine degli anni ’90. Non vi è, pertanto, alcuna certezza che le prestazioni ipotizzate siano in futuro concesse e ciò proprio perché il sistema non regge dal punto di vista dell’equilibrio di bilancio. La Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense si è costituita in giudizio in data 11.11.2014 con atto di mera forma e ha depositato memoria difensiva in data 27.11.2014, con la quale ha dedotto, in via preliminare, l’inammissibilità del ricorso sotto diversi profili e specificatamente: – per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo in quanto i ricorrenti si dolgono della obbligatorietà dell’iscrizione alla Cassa di previdenza e dell’obbligatorietà del contributo con le relative aliquote e le contestazioni relative all’iscrizione e alla contribuzione obbligatoria, investendo questioni di natura previdenziale, costituiscono veri e propri diritti soggettivi e quindi oggetto di giurisdizione del giudice ordinario; – per la mancata impugnazione delle deliberazioni del Comitato dei Delegati della Cassa del 31 gennaio e del 20 giugno 2014, approvate dai provvedimenti ministeriali che costituiscono l’unico oggetto dell’impugnazione non bastando la generica formula dell’impugnazione di tutti gli atti presupposti; – in quanto con il ricorso si chiederebbe, nella sostanza, al T.A.R. di sostituire il proprio apprezzamento a quello della Cassa e dei Ministeri vigilanti nella determinazione degli interventi più opportuni per ottemperare agli obblighi di legge relativamente alla stabilità dell’Ente in relazione alla pretesa di non pagare un contributo minimo e alla introduzione del sistema “contributivo”, mentre la scelta delle soluzioni tecniche per assicurare la stabilità della gestione è affidata alla discrezionalità tecnica degli enti, sotto il controllo dei Ministeri vigilanti, discrezionalità che si esercita in base a precisi ed oggettivi dati di fatto e calcoli attuariali. Quindi la Cassa ha argomentatamente dedotto, comunque, nel merito, l’infondatezza del predetto ricorso del quale ha chiesto il rigetto. Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali si è costituita in giudizio in data 22.11.2014 con atto di mera forma. Il dott. -OMISSIS- è intervenuto in giudizio ad adiuvandum in data 25.11.2014. E’, inoltre, intervenuto in giudizio ma ad opponendum il Consiglio Nazionale Forense con atto depositato in data 27.11.2014, con il quale ha eccepito in via preliminare, a sua volta, l’inammissibilità del ricorso sotto diversi profili e, in particolare, per difetto di giurisdizione e per mancata notifica ad almeno dei controinteressati e ha dedotto, nel merito, la sua infondatezza sulla base di considerazioni e argomentazioni analoghe alla Cassa, la quale ultima ha depositato, quindi, in data 1.12.2014, documentazione concernente la vicenda. Con il primo ricorso per motivi aggiunti, depositato in data 9.3.2015, i ricorrenti hanno impugnato la deliberazione della Giunta esecutiva della Cassa Nazionale del 28.11.2014 con la quale si procedeva all’iscrizione di ufficio dei ricorrenti in quanto avvocati non ancora iscritti e, dopo una premessa in ordine alla sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo nella specifica materia, ne hanno dedotto l’illegittimità in via derivata per i medesimi motivi di cui al ricorso introduttivo i quali sono stati pedissequamente riportati. Con il secondo ricorso per motivi aggiunti, depositato in data 22.9.2015, il solo ricorrente P. D. C. ha impugnato la lettera di iscrizione officiosa alla Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense datata 23 febbraio 2015 e la relativa Delibera della Giunta Esecutiva della Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense. Il Consiglio Nazionale Forense, con la nota del 14.10.2015, ha dato atto che, in violazione dell’art. 43, comma 2, c.p.a., il secondo ricorso per motivi aggiunti non è stato notificato al medesimo, sebbene costituito in giudizio mediante atto di intervento regolarmente notificato e depositato in data 22.11.2014 e ha ribadito il difetto di giurisdizione del g.a. adito eccependo, altresì, la violazione dell’art. 40 c.p.a. per la genericità dei motivi di censura. Il Ministero del lavoro ha depositato memoria difensiva in data 16.10.2015, con la quale, a sua volta, ha dedotto l’inammissibilità e/o l’irricevibilità del ricorso nonché la sua infondatezza nel merito, chiedendone il rigetto. Le altre parti del giudizio hanno, quindi, con le successive memorie conclusive e memorie di replica, controdedotto sulle rispettive difese, insistendo ciascuna nelle relative conclusioni. In particolare sia la cassa che il Consiglio hanno depositato in atti e, altresì, diffusamente illustrato le sentenze del giudice ordinario intervenute nelle more del presente giudizio in relazione a contenziosi aventi oggetto analogo. Alla pubblica udienza dell’11.3.2016 il ricorso è stato trattenuto per la decisione alla presenza dei difensori delle parti come da sperato verbale di causa. 2 – Gli odierni ricorrenti hanno impugnato, con il ricorso introduttivo del presente giudizio, il regolamento adottato dalla Cassa nazionale Forense in attuazione dell’art. 21, commi 8 e 9, della 1egge n. 247/2012, approvato con la nota ministeriale del 7.8.2014, chiedendo, nella sostanza, con i molteplici motivi di censura diffusamente riportati al punto 1 che precede, la declaratoria di nullità del regolamento in quanto tardivo, il sollevamento della questione di legittimità costituzionale del predetto art. 21 nonché il rinvio alla Corte di Giustizia della U.E. della questione di un presunto conflitto del regolamento con il principio europeo della libera concorrenza. L’art. 21, comma 8, della legge n. 247/2012, dispone che “l’iscrizione agli albi comporta la contestuale iscrizione alla Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense”; il successivo comma 9 stabilisce che “la Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense, con proprio regolamento, determina, entro un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge, i minimi contributivi dovuti nel caso di soggetti iscritti senza il raggiungimento di parametri reddituali, eventuali condizioni temporanee di esenzione o di diminuzione dei contributi per soggetti in particolari condizioni e l’eventuale applicazione del regime contributivo”. Il comma 10, dispone, infine, che “non è ammessa l’iscrizione ad alcuna altra forma di previdenza se non su base volontaria e non alternativa alla Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense”. In punto di fatto valgono le considerazioni di cui di seguito: – la Cassa Forense ha dato attuazione al comma 9 dell’articolo 21 della legge di riforma professionale con il proprio regolamento, approvato dal Comitato dei Delegati (organo collegiale della Cassa Forense rappresentativo dell’avvocatura su base elettorale, deputato, tra l’altro, all’adozione di norme regolamentari, in base all’art. 11, comma 2, dello statuto dell’Ente) in data 31 gennaio 2014; – il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, ossia il ministero vigilante per legge e competente all’approvazione del regolamento di cui trattasi, con la comunicazione del 5 giugno 2014, ha formulato osservazioni al regolamento approvato dalla Cassa, richiedendo alcune integrazioni e modifiche; – il Comitato dei Delegati ha apportato le integrazioni e le modifiche richieste dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali con la nota di cui in precedenza nella seduta del 20 giugno 2014, dandone comunicazione al Ministero in data 26 giugno 2014; – ha, quindi, fatto seguito l’approvazione ministeriale in data 7 agosto 2014 e la successiva pubblicazione nella G.U. del 20 agosto 2014, con la conseguente entrata in vigore del predetto regolamento il giorno successivo, ossia il 21 agosto 2014, ai sensi di quanto previsto all’art. 14 del regolamento medesimo. I ricorrenti contestano, nella sostanza, il predetto regolamento nella parte in cui gli stessi verranno iscritti ope legis alla Cassa di categoria e quindi, conseguentemente, costretti, a corrispondere, per l’anno 2014, l’importo c.d. minimo obbligatorio di cui agli artt. 7, 8 e 9 del predetto regolamento, pur avendo percepito nel 2013 un reddito molto basso ovvero pari a zero, salvo doversi cancellare dall’Albo degli Avvocati e peraltro nei tempi brevi di cui al successivo articolo 12. Assume rilevanza preliminare rispetto alle ulteriori questioni in rito sollevate dalle parti comunque la trattazione della questione relativa al dedotto difetto di giurisdizione del giudice amministrativo adito, eccepito sin dai primi scritti difensivi e successivamente ribadito e ulteriormente argomentato da parte non soltanto della Cassa ma anche del Consiglio. Al riguardo valgono le brevi ma assorbenti considerazioni di cui di seguito:
– nella sostanza i ricorrenti, con il ricorso introduttivo, si dolgono dell’iscrizione obbligatoria alla cassa di previdenza di categoria nonché dell’obbligatorietà della corresponsione del relativo contributo previdenziale sulla base delle aliquote specificatamente previste nel regolamento impugnato; – si tratta, pertanto, di contestazioni che attengono, in modo specifico, all’iscrizione e alla contribuzione obbligatoria dei liberi professionisti e che, conseguentemente, investono essenzialmente questioni di ordine e natura squisitamente previdenziale e, quindi, involvono veri e propri diritti soggettivi la cui cognizione, in quanto tali e alla luce della specifica materia interessata, appartiene, per giurisprudenza consolidata in materia, alla giurisdizione del giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro; – quanto, poi, ai successivi ricorsi per motivi aggiunti, aventi a oggetto rispettivamente la deliberazione della Giunta esecutiva della Cassa Nazionale del 28.11.2014, con la quale si procedeva all’iscrizione di ufficio dei ricorrenti in quanto avvocati non ancora iscritti e la lettera di iscrizione officiosa alla Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense datata 23 febbraio 2015 e della relativa Delibera della Giunta Esecutiva della Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense, il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo emerge con ancora maggiore evidenza proprio avuto riguardo alla natura giuridica e al contenuto dispositivo dei predetti atti. Da quanto esposto consegue il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo adito su tutta la controversia in oggetto. Attesa la delicatezza della questione, si ritiene che sussistano giusti motivi per disporre tra le parti costituite la compensazione delle spese del presente giudizio. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza bis), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, dichiara il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo in favore del giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 11 c.p.a. . Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa. Vista la richiesta dell’interessato e ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’art. 52, comma 1, D. Lgs. 30 giugno 2003 n. 196, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare la parte interessata. 

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