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Reintegrato il lavoratore che durante la malattia fa il barista nel chiosco della moglie

Ancora una volta gli ermellini sono stati chiamati ad esprimere il loro giudizio circa la legittimità o meno del licenziamento del dipendente che, per motivi di malattia non si reca a lavoro ma poi viene sorpreso a svolgere un’altra attività lavorativa.

La Suprema Corte di Cassazione, con sentenza 14 settembre 2012, n. 15476, respingendo il ricorso di una società, proposto avverso la sentenza emessa della Corte d’Appello, dove i giudici avevano dichiarato illegittimo il licenziamento, senza preavviso, di un dipendente e reintegra di quest’ultimo nel proprio posto di lavoro oltre al risarcimento del danno, ha precisato che “in tema di licenziamento per giusta causa, la condotta del lavoratore, che, in ottemperanza delle prescrizioni del medico curante, si sia allontanato dalla propria abitazione e abbia ripreso a compiere attività della vita privata – la cui gravosità non è comparabile a quella di una attività lavorativa piena – senza svolgere una ulteriore attività lavorativa, non è idonea a configurare un inadempimento ai danni dell’interesse del datore di lavoro, dovendosi escludere che il lavoratore sia esonerato a provare, a ulteriore conferma della certificazione medica, la perdurante inabilità temporanea rispetto all’attività lavorativa, laddove è a carico del datore di lavoro la dimostrazione che, in relazione alla natura degli impegni lavorativi attribuiti al dipendente, il suddetto comportamento contrasti con gli obblighi di buona fede e correttezza nell’esecuzione del rapporto di lavoro.”

Il caso esaminato dalla Corte doveva stabilire se fosse o meno giusta la causa relativa al licenziamento di un dipendente che, a seguito di infortunio per trauma distorsivo alla caviglia, era assente dal posto di lavoro ma era stato notato per due giorni consecutivi presso il chiosco gestito dalla moglie, mentre serviva i clienti da dietro il bancone.

Il dipendente inoltre era stato visto anche sbrigare tutte le altre faccende tipiche del barista ma non solo, lo stesso aveva anche guidato la propria auto durante le ore di reperibilità.

Per la Società, il dipendente poteva quindi svolgere la propria attività lavorativa e di conseguenza, ritardando il rientro al lavoro, si era reso inadempiente in modo così grave da legittimare il licenziamento.

In sede di Appello, la Corte osservava che l’inidoneità fisica del suddetto dipendente di compiere il proprio lavoro (quello di giuntista) era stata accertata dal medico e che lo svolgimento di altre attività private non era inibita dalla prescrizione di astensione dal lavoro e di riposo.

La corte territoriale evidenziava che per svolgere il lavoro di giuntista ci vuole comunque uno sforzo fisico maggiore rispetto a quello impiegato per aiutare la moglie nell’attività familiare e, pertanto, il lavoro di “barista” non ne avrebbe pregiudicato la guarigione (come poi é stato confermato dalla successiva visita medica).

Sempre in sede d’appello, i giudici concludono chiarendo che per le circostanze rappresentate in giudizio non hanno ravvisato nessuna grave inadempienza da parte del lavoratore tale da legittimare il recesso per giusta causa da parte del datore di lavoro.

La Cassazione, conferma la sentenza impugnata e respinge il ricorso della Società.

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