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Sentenza – Maltrattamento di animale usare il collare elettronico

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Sentenza – Maltrattamento di animale usare il collare elettronico
Suprema Corte di Cassazione
Sentenza n.38034/2013

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza 24.5.2012 il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Rovereto ha ritenuto T.I. colpevole della contravvenzione di cui all’art. 727 comma 2 cp perché deteneva un cane in condizioni incompatibili con la sua natura e produttive di gravi sofferenze, utilizzando un collare elettrico al fine di reprimere comportamenti molesti.
Il giudice di merito ha fondato il proprio convincimento sulla base della documentazione acquisita richiamando in particolare il contenuto della relazione eseguita dal veterinario che aveva visitato l’animale dopo il suo rinvenimento nonché un’ordinanza del Ministero della Salute. Ha rilevato altresì che non sussisteva alcuna ragione che imponesse l’uso di tale dispositivo, ritenuto uno strumento invasivo e doloroso nonché contrario alla natura del cane.
2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell’imputato, denunziando:
2.1. violazione della legge penale, perché sussisterebbe il reato di cui all’art. 544 ter (e non la contravvenzione cointestata) ma solo in caso di abuso nell’utilizzo del collare, nel caso di specie non riscontrato. Contesta il richiamo all’ordinanza ministeriale e fornisce una interpretazione della pronuncia di questa Corte pure menzionata nella decisione impugnata.
2.2. Contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione in relazione alla ritenuta afflittività del collare elettrico rilevando che, se utilizzato correttamente, esso si rivela necessario per un utile addestramento dell’animale provocandogli solo una lieve molestia. Richiama una pronuncia di merito a lui favorevole e rileva l’assenza di sofferenza riscontrata nell’animale.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è infondato con riferimento ad entrambe le censure.
Essendo stato denunziato anche il vizio motivazionale, va richiamato il principio secondo cui il controllo del giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale della decisione di cui si saggia la oggettiva tenuta sotto il profilo logico argomentativo, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (tra le varie, cfr. cass. sez. terza 19.3.2009 n. 12110; cass. 6.6.06 n. 23528). Ancora, la giurisprudenza ha affermato che l’illogicità della motivazione per essere apprezzabile come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento (cass. Sez. 3, Sentenza n. 35397 del 20/06/2007 Ud. dep. 24/09/2007; Cassazione Sezioni Unite n. 24/1999, 24.11.1999, Spina, Rv. 214794).
Ciò premesso, va osservato in diritto che l’attuale art. 727 cp prevede due ipotesi di contravvenzioni: l’abbandono di animali (che corrisponde al nuovo titoletto della norma) e la detenzione di essi “in condizioni incompatibili con la loro natura e produttive di gravi sofferenze”.
Questa Corte ha già avuto modo di affermare che l’uso del collare antiabbaio, a prescindere dalla specifica ordinanza ministeriale e dalla sua efficacia, rientra nella previsione del codice penale che vieta il maltrattamento degli animali (cfr. Sez. 3, Sentenza n. 15061 del 24/01/2007 Cc. dep. 13/04/2007 Rv. 236335 in motivazione). Con la predetta pronuncia resa in sede cautelare la Corte non era stata però investita direttamente della esatta qualificazione giuridica del fatto ritenendo che tale aspetto dovesse demandarsi al successivo giudizio di merito, come si evince chiaramente dalla motivazione e pertanto si rivela inesatta l’affermazione del ricorrente – basata evidentemente soltanto su una sommaria lettura della massima – secondo cui tale pronuncia si riferisse all’ipotesi dl cui all’art. 544 ter cp.
Il principio di diritto era stato affermato in relazione al semplice “uso” del collare antiabbaio (come si evince sempre dalla lettura del provvedimento nel suo testo integrale).
Il Collegio, dando sostanzialmente continuità al precedente orientamento, ritiene che il collare elettronico sia certamente incompatibile con la natura del cane: esso si fonda sulla produzione di scosse o altri impulsi elettrici che, tramite un comando a distanza, si trasmettono all’animale provocando reazioni varie. Trattasi in sostanza di un addestramento basato esclusivamente sul dolore, lieve o forte che sia, e che incide sull’integrità psicofisica del cane poiché la somministrazione di scariche elettriche per condizionarne i riflessi ed indurlo tramite stimoli dolorosi ai comportamenti desiderati produce effetti collaterali quali paura, ansia, depressione ed anche aggressività.
2. Venendo al caso di specie, il giudice di merito ha motivato il proprio giudizio di colpevolezza osservando che il cane dell’imputato al momento del rinvenimento mentre vagava incustodito sulla pubblica via, era provvisto di collare con dispositivo elettrico e che, come relazionato dal Veterinario dott. R., l’uso di tale collare produce effetti difficilmente valutabili sul comportamento dell’animale, talvolta reversibili, altre volte permanenti, ma comunque considerabili maltrattamento. Ha quindi richiamato il contenuto dell’ordinanza del Ministero della Salute che proibiva l’uso di tali dispositivi spiegando che il successivo annullamento del provvedimento da parte del giudice amministrativo non riguardava le valutazioni di merito. Ha poi rilevato che nulla giustificava detta condotta illecita avendo il cane un’indole docile e remissiva.
Trattasi, come si vede di accertamenti non solo aderenti al principio di diritto richiamato, ma anche esplicitati attraverso un percorso argomentativo privo di salti logici e pertanto non è consentito alcun sindacato di legittimità.

P.Q.M.

la Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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