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Sentenza – Assunzione a termine e lavoro dipendente

Sentenza – Assunzione a termine e lavoro dipendente
Suprema Corte di Cassazione V Sezione Civile
Ordinanza del 10 aprile 2014, n. 8491

 

1 ‘ Considerato che e’ stata depositata relazione del seguente contenuto:

‘Con ricorso al Giudice del lavoro di Treviso, K.M. chiedeva che fosse dichiarato nullo il termine apposto al contratto a tempo determinato stipulato ai sensi dell’art. 8 del c.c.n.l. 26/11/94, come integrato dall’accordo sindacale 25/9/97 (‘esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso ”), con il quale era stata assunta alle dipendenze di P.I. s.p.a. con decorrenza dal 4/1/1999. Il Tribunale accoglieva il ricorso ritenendo l’illegittimita’ del termine apposto al contratto impugnato e l’esistenza tra le parti di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato ancora in corso, con condanna della societa’ al pagamento, in favore della lavoratrice delle retribuzioni maturate dal 3 maggio 2004, data della messa in mora, e fino alla effettiva riammissione in servizio (detratto l’aliunde perceptum). La decisione era confermata dalla Corte di appello di Venezia, con sentenza n. 468/2010.

Avverso questa sentenza P.I. propone ricorso per cassazione affidato a otto motivi, cui resiste la M. con controricorso.

I motivi proposti dalla soc. P. si riassumono come segue.

Si sostiene, sotto il profilo della violazione di legge, che il rapporto di lavoro avrebbe dovuto essere ritenuto risolto per mutuo consenso, costituendo l’ampio lasso di tempo trascorso tra la cessazione del rapporto e l’offerta della prestazione indice di disinteresse del lavoratore a sostenere la nullita’ del termine, di modo che erroneamente il giudice di merito avrebbe affermato che l’inerzia non costituisce comportamento idoneo a rappresentare la carenza di interesse al ripristino del rapporto (primo motivo).

Si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1 e 2 della legge 18/4/1962, n. 230 nonche’ dell’art. 23 della legge n. 56 del 1987, dell’art. 8 del c.c.n.l. 26/11/94 e dell’accordo integrativo 25/9/97, degli accordi successivi 16/1/98 e 27/4/98 in connessione con l’art. 1362 cod. civ.; violazione dei canoni di ermeneutica contrattuale (art. 1362 e segg. cod. civ.) in relazione all’interpretazione accolta dal giudice di merito dell’art. 8 del c.c.n.l. 26/11/94 e dell’accordo integrativo 25/9/97. In particolare, il giudice di merito non avrebbe considerato che gli accordi successivi a quello del 25/9/97 avevano valenza ricognitiva della sussistenza delle condizioni legittimanti in fatto il ricorso al contratto a termine, senza che fosse necessario esplicitare ulteriori circostanze fattuali. Si lamenta, al riguardo, anche vizio di motivazione (secondo, terzo e quarto motivo).

Si sostiene l’avvenuta violazione della legge 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23, nonche’ il vizio di motivazione, relativamente alla parte in cui il giudice d’appello avrebbe statuito che la societa’ non era esonerata dal dimostrare il nesso causale fra l’ipotesi astratta e l’assunzione a termine nella specifica situazione concreta, non essendo sufficiente la prova della situazione giustificatrice contemplata dalla contrattazione collettiva (quinto motivo).

Si ascrive, poi, alla sentenza impugnata la violazione e la falsa applicazione dell’art. 115 cod. proc. civ., evidenziando che i fatti notori e non contestati dalle parti in ordine alla situazione della carenza di organico nell’ufficio di assegnazione della M. non avrebbero necessito di prove ulteriori e che il giudice era tenuto a porre a fondamento delle decisione i primi.

Si lamenta violazione degli artt. 1206, 1207, 1217, 1218, 1219, 2094, 2099 e 2697 c.c., nonche’ della legge n. 300 del 1970, art. 18, con riferimento al capo della decisione che ha riconosciuto il diritto del lavoratore alle retribuzioni dalla data della messa in mora, anziche’ dalla data dell’effettiva ripresa del servizio, e nella parte in cui la sentenza impugnata ha riconosciuto il diritto al pagamento delle retribuzioni fino all’effettiva ricostituzione del rapporto di lavoro (settimo motivo).

Il motivo e’ integrato dalla deduzione dello jus superveniens rappresentato dalla legge 4 novembre 2010, n. 183, art. 32 e in particolare dalla previsione, con efficacia retroattiva, del pagamento di un’indennita’ omnicomprensiva in caso di illegittimo ricorso al contratto a termine (ottavo motivo).

Il primo motivo, attinente alla prospettata questione della risoluzione per mutuo consenso, e’ manifestamente infondato.

Come questa Corte ha piu’ volte affermato, ‘nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinche’ possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, e’ necessario che sia accertata ‘ sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonche’ del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative ‘ una chiara e certa comune volonta’ delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo; la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimita’ se non sussistono vizi logici o errori di diritto’ (v. Cass. 10 novembre 2008, n. 26935, id. 28 settembre 2007, n. 20390, 17 dicembre 2004, n. 23554, nonche’ piu’ di recente Cass. 18 novembre 2010, n. 23319, 11 marzo 2011 n. 5887, 4 agosto 2011 n. 16932). La mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a termine, quindi, e’ di per se’ insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso mentre grava sul datore di lavoro, che eccepisca tale risoluzione, l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volonta’ chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro (v. anche Cass. 2 dicembre 2002, n. 17070 e, fra le altre, da ultimo Cass. 1 febbraio 2010, n. 2279). Nella specie la Corte di appello, confermando la sentenza di primo grado sul punto, ha ribadito, con motivazione corretta sul piano giuridico oltre che congrua, che non potesse desumersi dal mero trascorrere del tempo, la volonta’, sia pure tacita, del lavoratore di risolvere il rapporto e di rinunciare ad un suo diritto e che il lasso di tempo intercorso tra la scadenza del termine apposto al contratto e la richiesta di reintegra era da ritenersi insufficiente a fondare qualsiasi presunzione nel senso voluto dalla societa’.

Il secondo, terzo, quarto e quinto motivo (da trattarsi congiuntamente, attesa l’evidente connessione delle questioni con gli stessi proposte) sono manifestamente infondati in forza della giurisprudenza di questa Corte, la quale ritiene che la legge 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23, nel demandare alla contrattazione collettiva la possibilita’ di individuare ‘ oltre le fattispecie tassativamente previste dalla legge 18 aprile 1962, n. 230, art. 1, nonche’ dal D.L. 29 gennaio 1983, n. 17, art. 8 bis, conv. dalla legge 15 marzo 1983, n. 79 ‘ nuove ipotesi di apposizione di un termine alla durata del rapporto di lavoro, configura una vera e propria delega in bianco a favore dei sindacati, i quali, pertanto, non sono vincolati all’individuazione di figure di contratto a termine comunque omologhe a quelle previste per legge (v. Cass. Sez. Un. 2 marzo 2006, n. 4588). Dato che in forza di tale delega le parti sindacali hanno individuato, quale nuova ipotesi di contratto a termine, quella di cui all’accordo integrativo del 25/9/97, la giurisprudenza ritiene corretta l’interpretazione dei giudici che, con riferimento al distinto accordo attuativo, sottoscritto in pari data ed al successivo accordo attuativo del 16/1/98, ha ritenuto che con tali accordi le parti abbiano convenuto di riconoscere la sussistenza fino al 31/1/98 (e poi in base al secondo accordo attuativo, fino al 30/4/98), della situazione di fatto integrante le esigente eccezionali menzionate dal detto accordo integrativo. Consegue che per far fronte alle esigenze derivanti da tale situazione l’impresa poteva procedere (nei suddetti limiti temporali) ad assunzione di personale straordinario con contratto tempo e che l’esistenza di dette esigenze costituisse presupposto essenziale della pattuizione negoziale; da cio’ deriva che deve escludersi la legittimita’ dei contratti a termine stipulati dopo il 30 aprile 1998 in quanto privi di presupposto normativo. In altre parole, dato che le parti collettive avevano raggiunto originariamente un’intesa priva di termine ed avevano successivamente stipulato accordi attuativi che avevano posto un limite temporale alla possibilita’ di procedere con assunzioni a termine, fissato inizialmente al 31/1/98 e successivamente al 30/4/98, l’indicazione di tale causale nel contratto a termine legittima l’assunzione solo ove il contratto scada in data non successiva al 30/4/98 (v., explurimis, Cass. 23 agosto 2006, n. 18378).

La giurisprudenza di questa Corte ha, altresi’, ritenuto corretta, nella ricostruzione della volonta’ delle parti come operata dai giudici di merito, l’irrilevanza attribuita all’accordo 18/1/01 in quanto stipulato dopo oltre due anni dalla scadenza dell’ultima proroga, e cioe’ quando il diritto del soggetto si era gia’ perfezionato. Ammesso che le parti avessero espresso l’intento di interpretare autenticamente gli accordi precedenti, con effetti comunque di sanatoria delle assunzioni a termine effettuate senza la copertura dell’accordo 25/9/97 (scaduto in forza degli accordi attuativi), la suddetta conclusione e’ comunque conforme alla regala iuris dell’indisponibilita’ dei diritti dei lavoratori gia’ perfezionatisi, dovendosi escludere che le parti stipulanti avessero il potere, anche mediante lo strumento dell’interpretazione autentica (previsto solo per lo speciale settore del lavoro pubblico, secondo la disciplina nel d.lgs. n. 165 del 2001), di autorizzare retroattivamente la stipulazione di contratti a termine non piu’ legittimi per effetto della durata in precedenza stabilita (vedi, per tutte, Cass. 12 marzo 2004, n. 5141).

Conseguentemente i contratti scadenti (o comunque stipulati) al di fuori del limite temporale del 30/4/98 sono illegittimi in quanto non rientranti nel complesso legislativo ‘ collettivo costituito dalla legge 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23 e dalla successiva legislazione collettiva che consente la deroga alla legge n. 230 del 1962. Essendo nella specie il contratto stipulato per ‘esigenze eccezionali ecc’.’ con decorrenza dal 4/1/1999, i motivi debbono essere rigettati.

Il sesto motivo, che attiene alla valenza probatoria da attribuirsi ai fatti notori non contestati, indipendentemente da ulteriori prove, deve ritenersi assorbito, atteso il carattere decisivo della disamina degli altri motivi.

Quanto alle ulteriori doglianze, va rilevato che la necessita’ di applicazione dello jus superveniens costituito dalla legge 4 novembre 2010, n. 183 (ottavo motivo) e’ assorbente rispetto alle censure di cui al settimo motivo (ai fini della cui ammissibilita’ indubbiamente rileva, a prescindere dalla sua fondatezza, la censura come sopra riassunta).

E’ stato da questa Corte ritenuto che tale disciplina, costituente nuova regolazione del rapporto controverso, sia applicabile ai giudizi pendenti in grado di legittimita’, a condizione che la Corte sia al riguardo investita da un valido e pertinente motivo di impugnazione (v. Cass. 28 gennaio 2011, n. 2112; id. 31/1/2012, n. 140; 2 marzo 2012, n. 3305; 26 luglio 2012, n. 13351), in ragione della natura del controllo di legittimita’, il cui perimetro e’ limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006, n. 10547 e 27 febbraio 2004, n. 4070). Tale condizione e’ realizzata nel caso di specie.

Per tutto quanto sopra considerato, si propone l’accoglimento dell’ultimo motivo di ricorso con conseguente cassazione, con rinvio (nell’impossibilita’ di provvedere in questa sede alle valutazioni di fatto richieste dall’applicazione della norma sopravvenuta), anche per le spese di questo giudizio, ad altro giudice, il tutto con ordinanza, ai sensi dell’art. 375 cod. proc. civ., n. 5?.

2 ‘ Questa Corte ritiene che le osservazioni in fatto e le considerazioni e conclusioni in diritto svolte dal relatore siano del tutto condivisibili, siccome coerenti con l’ormai consolidata giurisprudenza di legittimita’ in materia.

Quanto ai rilievi della controricorrente di cui alla memoria depositata ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ., va innanzitutto osservato che, come gia’ precisato da questa Corte (v. Cass. 29 febbraio 2012, n. 3056), l’indennita’ in esame ‘configura, alla luce dell’interpretazione adeguatrice offerta dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 303 del 2011, una sorta di penale ex lege a carico del datore di lavoro che ha apposto il termine nullo, ed e’ liquidata dal giudice, nei limiti e con i criteri fissati dal citato art. 32 (che richiama i criteri indicati nell’art. 8 1. 604/1966), a prescindere dall’intervenuta costituzione in mora del datore di lavoro e dalla prova di un danno effettivamente subito dal lavoratore, trattandosi di indennita’ forfetizzata e onnicomprensiva per i danni causati dalla nullita’ del termine nel periodo cosiddetto intermedio (dalla scadenza del termine alla sentenza di conversione del rapporto)’.

In senso conforme a quanto gia’ affermato dalla Corte costituzionale e da questa Corte di legittimita’ e stata poi emanata la legge n. 92 del 28/6/2012 (in G.U. n. 153 del 3/7/2012), che all’art. 1 comma 13, con chiara norma di interpretazione autentica, ha cosi’ disposto: ‘La disposizione di cui al comma 5 dell’art. 32 della legge 4 novembre 2010, n. 183, si interpreta nel senso che l’indennita’ ivi prevista ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo 6 compreso fra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale il giudice abbia ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro’.

La controricorrente ha posto la questione della illegittimita’ costituzionale dell’art. 32 (come autenticamente interpretato) per asserita violazione degli artt. 3, 36, 38 e 117 nonche’ 111 e 24 della Costituzione in relazione all’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, assumendo che, in difetto di giustificazioni sul piano della ragionevolezza e dell’esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, il legislatore non avrebbe potuto disporre con efficacia retroattiva dei diritti retributivi e previdenziali, di rilievo costituzionale, gia’ entrati nel patrimonio del lavoratore.

Tale questione appare, pero’, manifestamente infondata alla luce di quanto precisato, sul punto, da questa Corte nella recente decisione del 6 febbraio 2014 n. 2760 con la quale e’ stato innanzitutto escluso che la norma di portata retroattiva abbia (irragionevolmente) disposto di diritti retributivi e previdenziali, di rilievo costituzionale, gia’ entrati nel patrimonio del lavoratore (essendo tale efficacia retroattiva limitata a quelle situazioni in cui, in ordine ai diritti derivanti al lavoratore dalla nullita’ della clausola di apposizione del termine ‘ con conseguente conversione del rapporto a tempo indeterminato, non si e’ ancora formato il giudicato). Nella suddetta decisione, inoltre, e’ stato evidenziato che la norma interpretativa non ha inteso realizzare una illecita ingerenza del legislatore nell’amministrazione della giustizia, allo scopo d’influenzare la risoluzione di controversie, posto che, in realta’, ha fatto propria una soluzione gia’ adottata dalla giurisprudenza della Corte costituzionale (cfr. ex plurimis, Corte costituzionale n. 257/2011 che ha precisato, in termini generali, che sussiste lo spazio per un intervento del legislatore con efficacia retroattiva ‘ fermi i limiti di cui all’art. 25 Cost. ‘ considerato che all’art. 6 della CEDU, la Corte di Strasburgo non ha inteso enunciare un divieto assoluto d’ingerenza del legislatore e, nello specifico, chiarito che la finalita’ di superare un conclamato contrasto di giurisprudenza, essendo diretta a perseguire un obiettivo d’indubbio interesse generale qual e’ la certezza del diritto, e’ configurabile come ragione idonea a giustificare l’intervento interpretativo del legislatore; si veda anche Corte costituzionale, n. 303/2011 che ha ritenuto la ragionevolezza della norma cha introdotto la forfetizzazione del danno, come tale inerente a quei diritti retributivi e previdenziali di cui qui si eccepisce l’ingiustificato sacrificio, siccome ‘nell’insieme, adeguata a realizzare un equilibrato componimento dei contrapposti interessi’); la stessa norma interpretativa, inoltre,

costituisce disposizione di carattere generale, che, al pari di quelle di cui all’art. 32, commi 5, 6 e 7, legge n. 183/10, non favorisce selettivamente lo Stato o altro ente pubblico (o in mano pubblica), perche’ le controversie su cui essa e’ destinata ad incidere non hanno specificamente ad oggetto i rapporti di lavoro precario alle dipendenze di soggetti pubblici, ma tutti i rapporti di lavoro subordinato a termine.

Non sussistono ragioni per discostarsi dal suddetto orientamento dovendosi evidenziare che di diritto acquisito puo’ parlarsi con riguardo al diritto del lavoratore alla retribuzione e corrispondente copertura previdenziale per prestazioni gia’ effettuate e non anche con riguardo ad un risarcimento per un periodo di mora accipiendi oggetto di una pronuncia non passata in giudicato.

Ricorre con ogni evidenza il presupposto dell’art. 375, n. 5, cod. proc. civ. per la definizione camerale del processo.

3 ‘ Va, pertanto, accolto l’ultimo motivo di ricorso mentre gli altri vanno rigettati; la sentenza impugnata va cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio (nell’impossibilita’ di provvedere in questa sede alle valutazioni di fatto richieste dall’applicazione della norma sopravvenuta), anche per le spese di questo giudizio, alla Corte di appello di Brescia che valutera’, alla luce dei criteri dettati dalla legge 183/2010, quale debba essere la misura dell’indennita’ da liquidarsi.

P.Q.M.

Accoglie l’ultimo motivo di ricorso e rigetta gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese del presente giudizio di legittimita’, alla Corte di appello di Brescia.

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