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Sentenza – Rito abbreviato, giudice,integrazione probatoria

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Sentenza – Rito abbreviato, giudice,integrazione probatoria
Suprema Corte di Cassazione III Sezione Penale
Sentenza 7 febbraio – 15 maggio 2014, n. 20237
Presidente Gentile – Relatore Di Nicola

Ritenuto in fatto

1. La Corte di appello di Roma, con sentenza emessa in data 11 giugno 2013, riformava la pronuncia resa del Tribunale di Latina, riducendo la pena inflitta a C.M. ad anni uno e mesi quattro di reclusione ed Euro 1.800 di multa, confermando nel reso l’impugnata sentenza.
All’imputato era contestato il reato di cui all’art. 73, comma 1 bis, d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309 perché, senza l’autorizzazione di cui all’art. 17 e fuori dalle ipotesi di cui all’art. 75, deteneva ai fini di spaccio grammi 18 di sostanza stupefacente del tipo hashish all’interno della Fiat Panda ed inoltre all’interno della propria abitazione deteneva grammi 23 di sostanza stupefacente del tipo hashish occultata in una cassetta degli attrezzi e n. 6 piante di marijuana ed i fatti commettendo in (omissis).
2. Per l’annullamento dell’impugnata sentenza, ricorre per cassazione, tramite il proprio difensore, C.M. affidando il gravame ad un unico motivo con il quale lamenta violazione del diritto di difesa ex art. 178 lett. c) cod. proc. pen. per effetto dell’illegittima integrazione probatoria disposta dal Tribunale ex officio al momento dell’ordinanza ammissiva del rito abbreviato.
Assume il ricorrente come nel corso del primo giudizio la difesa avesse chiesto ed ottenuto il rito abbreviato condizionato al solo esame del consulente tecnico del pubblico ministero ed all’esame dell’imputato.
L’esame del consulente tecnico del pubblico ministero era stato chiesto esclusivamente affinché deponesse sui risultati degli accertamenti espletati sull’hashish e non anche sulle piantine di marijuana.
Il Tribunale, nell’ammettere il rito, aveva invece disposto una perizia integrativa sulle piantine di marijuana, avvalendosi peraltro delle stesso consulente del pubblico ministero, e ciò del tutto illegittimamente perché il potere di disporre un’integrazione probatoria era esercitabile solo all’esito dell’espletamento del rito abbreviato, e non prima o al momento della sua ammissione, altrimenti alterandosi il principio della decisione allo stato degli atti.
La Corte territoriale, anziché accogliere la doglianza, l’ha disattesa sul duplice rilievo che, in mancanza di una norma processuale che indichi il momento in cui il giudice possa disporre d’ufficio l’integrazione probatoria nel giudizio abbreviato, la facoltà può essere legittimamente esercitata dal giudice in ogni momento e comunque un’eventuale nullità in tal senso doveva ritenersi sanata avendo la difesa prestato acquiescenza, non risultando dal verbale di udienza alcuna rimostranza in tal senso.
Obietta il ricorrente che la mancata indicazione di una norma circa il termine entro il quale esercitare il potere integrativo d’ufficio non legittima il giudice a disporlo in qualsiasi momento, essendo il divieto implicito nel sistema; in ogni caso incombeva sul giudice un onere di motivazione ampiamente disatteso; ed infine non poteva ritenersi prestata alcuna acquiescenza in quanto l’esercizio del potere integrativo aveva determinato una nullità assoluta ex art. 178 lett. c) cod. proc. pen. e perciò, a condizioni esatte, insanabile.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza.
2. Il ricorrente si duole dell’integrazione probatoria officiosa disposta dal giudice, assumendo che nel giudizio abbreviato la facoltà di assumere anche d’ufficio gli elementi necessari ai fini della decisione non sarebbe esercitabile dal giudice al momento dell’ordinanza ammissiva del rito condizionato, potendo al più essere esercitata all’esito dell’espletamento delle prove, cui risultava condizionala la richiesta di accesso al rito, e mai riguardo, come nella specie, alla ricostruzione storica del fatto e all’attribuibilità di esso all’imputato.
Sostiene che, ammesse d’ufficio le prove in tale frangente, si radicherebbe una nullità assoluta ed insanabile per violazione del diritto di difesa ex art. 178 lett. c) cod. proc. pen..
Va allora premesso che le categorie processuali della nullità e della inutilizzabilità di un atto o di una prova sono assoggettate al principio di tassatività, ossia al criterio della necessaria previsione legislativa, occorrendo una norma che espressamente preveda una determinata sanzione processuale (nullità o inutilizzabilità) come conseguenza di una determinata violazione.
Ne consegue che l’esercizio del potere del giudice di cui all’art. 441, comma 5, cod. proc. pen. in un momento diverso da quello del termine della acquisizione delle prove del rito abbreviato condizionato non può comportare alcuna nullità o inutilizzabilità, in difetto di una espressa previsione legislativa.
Così come al cospetto di una richiesta di rito abbreviato “secco” il giudice può esercitare i poteri di cui all’art. 441, comma 5, cod. proc. pen., allo stesso modo al cospetto di una richiesta di giudizio abbreviato condizionato, che sia compatibile con il rito speciale, il giudice, qualora ritenga di non poter comunque decidere allo stato degli atti, può assumere, ai sensi dell’art. 441, comma 5, cod. proc. pen. gli elementi necessari per la decisione.
3. Residua l’altra questione, ben più complessa, circa l’ambito di tali poteri e cioè se essi possano avere riguardo alla ricostruzione storica del fatto e all’attribuibilità di esso all’imputato.
Un orientamento di legittimità (Sez. 4, 15/06/2005, n. 35247, D’Amato, Rv. 232580), cui si richiama il ricorrente, non univoco ed anzi contraddetto da recenti contrari indirizzi (Sez. 3, 16/01/2013, n. 12842, Gambarini, Rv. 255109) ai quali occorre dare continuità, sostiene che, anche dopo le modifiche apportate dalla L. 16 dicembre 1999, n. 479, se al giudice del giudizio abbreviato si deve riconoscere la facoltà di assumere, anche d’ufficio, gli elementi necessari alla decisione, gli è tuttavia preclusa, dalla scelta del rito, solo l’acquisizione di prove concernenti la ricostruzione storica del fatto e l’attribuibilità di esso all’imputato in quanto la scelta processuale della difesa di essere giudicata sulla scorta degli elementi raccolti dal pubblico ministero verrebbe vanificata e snaturata se il potere del giudice di integrare la prova fosse illimitato ed arrivasse al punto di poter sostituire l’organo giudicante a quello inquirente nella ricerca di elementi idonei a verificare (e non invece a confermare) se il soggetto tratto a giudizio sia effettivamente autore di un reato e se il fatto contestato integri gli estremi di un reato perseguibile.
Vanno allora menzionate le conseguenze che si debbono trarre, ai fini della regolare formazione della prova, nel caso in cui l’imputato eserciti il diritto potestativo pieno (nel caso di richiesta di giudizio abbreviato “secco”) o semipieno (nel caso di richiesta di giudizio abbreviato condizionato all’assunzione di prove) di essere giudicato con il rito abbreviato.
È significativo come l’art. 442, comma 1 bis, cod. proc. pen. indichi specificamente gli atti che il giudice deve utilizzare ai fini delle deliberazione della sentenza, individuandoli in quelli contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, negli atti delle indagini suppletive (art. 419, comma 3, cod. proc. pen.) e nelle prove assunte nell’udienza, sia in chiave integrativa dello “stato degli atti” ex artt. 438, comma 5, cod. proc. pen. e 441, comma 5, cod. proc. pen., che nell’alveo dell’udienza preliminare (ex artt. 421 bis e 422 cod. proc. pen. anche per effetto del deposito di documentazione, ivi compresa quella inerente l’investigazione difensiva), ancor prima (ed ovviamente) dell’innesto, nell’udienza preliminare stessa, del giudizio abbreviato.
Da detta specificazione normativa (ossia dall’art. 442, comma 1 bis, cod. proc. pen.), ribadita dall’art. 438 comma 5 cod. proc. pen. (“l’imputato, ferma restando la utilizzabilità ai fini della prova degli atti indicati nell’art. 442 comma 1-bis può subordinare la richiesta ad una integrazione probatoria…”), consegue che, nel giudizio abbreviato, gli atti utilizzabili ai fini della decisione sono costituiti da materiale formato prevalentemente al fuori del contraddittorio e da materiale che, insuscettibile di essere utilizzato probatoriamente nel processo massimamente garantito, diviene pienamente utilizzabile, per espressa volontà della parte che chiede l’accesso al rito speciale, nel giudizio abbreviato.
Il quale, sebbene non possa più configurarsi come negozio giuridico processuale bilaterale (essendo venuto meno la necessità di ottenere il consenso del pubblico ministero), comunque si configura, valorizzandosi maggiormente la manifestazione di volontà proveniente dal solo imputato, come negozio giuridico processuale unilaterale, con o senza condizione, sicché la rinuncia al contraddittorio per la prova, connaturata alla richiesta di accesso al rito, condizionato o meno che sia, implica il consenso dell’imputato all’utilizzazione, ai fini della decisione, del materiale acquisito al corredo processuale, integrandosi, perciò, una delle deroghe al contraddittorio tollerate dall’art. 111, comma 5, Cost. con la conseguenza che gli atti contenuti nel fascicolo processuale – che, in quanto formati dall’accusa (atti dell’indagine preliminare) o dalla difesa (atti di investigazione difensiva) senza la partecipazione dell’altra parte, sarebbero, di regola, privi di natura probatoria in senso proprio nel processo massimamente garantito – diventano pienamente utilizzabili ai fini della decisione per il solo fatto della richiesta dell’imputato di accesso al rito, frutto non più di un bilaterale consenso ma di una libera scelta dell’imputato stesso (ed il tutto salvo i casi di c.d. di inutilizzabilità patologica, quella cioè inerente agli atti probatori assunti contra legem ed il cui utilizzo deve ritenersi precluso in modo assoluto non solo nel dibattimento, ma in qualsiasi fase del procedimento).
Logico corollario di tale impostazione è che la decisione conclusiva del giudizio abbreviato può tenere conto di tutti gli atti ritualmente acquisiti al corredo processuale, purché non affetti da vizi eccepiti dalle parti o rilevabili d’ufficio.
Ciò ricordato, giova chiarire che, pronunciata l’ordinanza ammissiva del giudizio abbreviato, non matura affatto nell’imputato alcun diritto ad essere giudicato senza che il giudice, ricorrendone le condizioni, possa disporre, in qualsiasi momento della fase processuale, un’integrazione probatoria che si rendesse necessaria per acquisire gli elementi necessari ai fini della decisione, nell’ipotesi in cui non fosse appunto possibile, sia ex ante che ex post, decidere allo stato degli atti.
In altri termini, la richiesta di giudizio abbreviato non neutralizza i poteri officiosi del giudice cristallizzando, una volta ammesso il rito, il materiale processuale in quello posto dal pubblico ministero a fondamento dell’azione penale od in quello acquisito dal giudice all’esito dell’integrazione probatoria cui l’imputato abbia, con successo, condizionato la richiesta di ammissione al rito speciale e così paralizzando, anche al cospetto di un’incompletezza di un’informazione probatoria risultante dagli atti processuali, i poteri integrativi officiosi del giudice.
Il giudizio abbreviato non presuppone più come condizione per la sua ammissibilità la definizione del processo allo stato degli atti (come., a torto, ipotizza il ricorrente) e perciò neppure il consenso del pubblico ministero, con la conseguenza che l’accesso al rito non potrà mai essere rifiutato in presenza di carenze del quadro probatorio od istruttorio.
Questo principio vale in assoluto nel caso in cui l’imputato richieda il giudizio abbreviato “puro” e vale anche nell’ipotesi di richiesta di giudizio abbreviato condizionato ad una integrazione probatoria quando questa risulti necessaria ai fini della decisione e compatibile con le finalità proprie del procedimento.
Per questa ragione, la scelta unilaterale dell’imputato non può fondare alcuna aspettativa circa un preteso diritto ad essere giudicati sulla sola base degli atti disponibili al momento dell’ordinanza ammissiva del rito sia nell’ipotesi di richiesta di giudizio abbreviato “secco o puro” o non condizionato dall’imputato ad integrazioni probatorie e sia nell’ipotesi di richiesta, accolta dal giudice, di giudizio abbreviato condizionato dall’imputato ad integrazioni probatorie perché – qualora il giudice, in qualsiasi momento, dovesse rendersi conto dell’incompletezza delle indagini e della conseguente impossibilità di possedere gli elementi necessari per la decisione – l’integrazione probatoria officiosa costituisce l’unica forma di bilanciamento rispetto alla inevitabilità del giudizio abbreviato, rimesso alla scelta unilaterale dell’imputato, ed essa non è condizionata alla sua complessità od alla lunghezza dei tempi dell’accertamento probatorio né è soggetta a limiti temporali e può dunque intervenire in qualsiasi momento e fase della procedura (Sez. 6, 23/01/2009 n. 11558, Trentadue ed altre, Rv. 243063).
Non si tratta perciò di recuperare poteri officiosi, diretti a snaturare la fondamentale funzione passiva del giudice nell’ambito del modello processuale accusatorio, ma occorre ribadire come il principio della completezza delle indagini preliminari costituisca ormai il presupposto indefettibile sia per l’esercizio e sia per il non esercizio dell’azione penale.
Non a caso la riforma processuale ha introdotto la disposizione di cui all’art. 421 bis cod. proc. pen. che, richiedendo ex ante il rispetto di quel principio, impone al giudice dell’udienza preliminare, la cui funzione di giudizio è ormai fuori discussione (v. Corte Cost. sent. 224 del 2001), di indicare al pubblico ministero, nel caso di indagini preliminari incomplete, l’espletamento di ulteriori indagini.
Nondimeno tale disposizione, la cui inosservanza non è peraltro sanzionata, è stata prevista con riferimento all’iter processuale tipo (che prevede perciò l’udienza preliminare) ma non per le forme speciali di processo che esulano, come nel caso del giudizio immediato o dei reati a citazione diretta, dall’udienza preliminare, con la conseguenza che in tali casi l’osservanza del principio di completezza delle indagini va assicurato necessariamente ex post e proprio quindi attraverso l’attività integrativa.
Sicché le lacune investigative c.d. strutturali (le uniche perciò colmabili in quanto necessarie per la decisione) non possono mai costituire il presupposto per una decisione alla quale si pervenga senza possedere gli elementi necessari per provvedere sulla regiudicanda, essendo illogico ritenere che il sistema processuale ne abbia consentito l’eliminazione (ex art. 421 bis) con riferimento ai reati che richiedano la celebrazione dell’udienza preliminare disinteressandosi di esse qualora l’udienza preliminare, anche in relazione ad insindacabili scelte del pubblico ministero e non solo ope legis, manchi.
Diversamente ne risulterebbe snaturato lo stesso processo penale ed i principi costituzionali che lo regolano perché la ricerca della verità “processuale” (v. Corte Cost. sentenza n. III del 1993), che presuppone che il giudice sia in possesso degli elementi necessari per decidere, rimane, nei limiti fissati dalle concorrenti garanzie costituzionali del giusto processo (art. 111 Cost.), fine primario ed ineludibile di esso in quanto, in un ordinamento improntato al principio di legalità (art. 25, comma 2, Cost.) e fondato sull’obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 Cost.), l’accertamento del fatto storico, necessario per pervenire ad una giusta decisione, non può essere impedito da una scelta unilaterale di una parte processuale sia essa l’imputato o il pubblico ministero.
Va poi aggiunto che l’art. 441, comma 5, cod. proc. pen. non si spinge al punto di dichiarare expressis verbis preclusa la facoltà del giudice di integrazione probatoria officiosa con riguardo alla ricostruzione storica del fatto ed all’attribuibilità di esso all’imputato. La ragione di ciò risiede sia nell’evidente necessità di non snaturare la causa tipica del processo penale e sia nell’impossibilità di negare l’ingresso al rito abbreviato condizionato quando l’acceso ad esso venga sostenuto sulla base dei medesimi presupposti (ricostruzione storica del fatto ed all’attribuibilità di esso all’imputato).
Va allora ricordato come anche in tale ultimo caso l’integrazione probatoria possa essere ammessa quando risulti “necessaria ai fini della decisione” (art. 438, comma 5) e come dunque la norma processuale si esprima negli stessi termini con cui dispone l’art. 441, comma 5, cod. proc. pen. risultando davvero singolare negare l’ingresso, in tal senso, ad una prova richiesta dall’imputato o ammetterla in un caso (se cioè richiesta dall’imputato) negandola nell’altro (se cioè disposta d’ufficio dal giudice).
Deve essere solo chiaro che l’integrazione probatoria officiosa non può spingersi sino al punto da alterare la concorrente funzione del processo penale, quale processo di parti a struttura accusatoria, con la conseguenza che il ricorso ai poteri ex art. 441, comma 5, cod. proc. pen. richiede non la totale assenza di informazione probatoria, al cui cospetto alcuna integrazione sarebbe ammissibile, ma esclusivamente l’incompletezza di essa e le cui lacune debbano essere colmante per l’acquisizione non di un qualsiasi elemento ma solo di quelli necessari per decidere.
Va infine aggiunto come tale orientamento si ponga nel solco della giurisprudenza costituzionale in materia.
Occorre perciò ricordare che la Corte costituzionale (sent. 7-9 maggio 2001 n. 115) – nel ritenere infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata per la ritenuta lesione dei poteri attribuiti al pubblico ministero perché privato ex lege 479 del 1999 della possibilità di esprimere il consenso sulla scelta del rito anche quando la richiesta dell’imputato si fosse materializzata in procedimenti affetti da evidenti lacune probatorie – ebbe a precisare come la scelta del legislatore di eliminare la valutazione del Giudice sull’ammissibilità del giudizio abbreviato, salvo che nell’ipotesi di cui all’art. 438, comma 5, cod. proc. pen. si innestasse proprio nel solco della giurisprudenza costituzionale, la quale, in presenza delle condizioni per addivenire al giudizio abbreviato, riconobbe all’imputato, che ne avesse fatto richiesta, il diritto di ottenere la riduzione di un terzo della pena, dichiarando l’illegittimità costituzionale della disciplina che non prevedeva la motivazione del dissenso del pubblico ministero (sent. n. 66 del 1990 e sent. n. 183 del 1990, sent. n. 81 del 1991) e il controllo giurisdizionale sull’ordinanza di rigetto della richiesta di giudizio abbreviato (sent. n. 23 del 1992); con la conseguenza che in entrambe le ipotesi il Giudice del dibattimento, ove avesse ritenuto ingiustificato il dissenso del pubblico ministero, ovvero non fondato il provvedimento con cui il Giudice per le indagini preliminari avesse dichiarato il procedimento non definibile allo stato degli atti, avrebbe dovuto applicare egli stesso la riduzione di un terzo della pena.
Strettamente collegato a questi profili di illegittimità costituzionale era poi il problema dei parametri ai quali avrebbe dovuto attenersi il pubblico ministero nel motivare il proprio dissenso sulla richiesta di giudizio abbreviato. In assenza di una esplicita indicazione legislativa, la Corte individuò il parametro della definibilità del procedimento allo stato degli atti, cioè il criterio dettato per la valutazione di ammissibilità del rito che operava il Giudice per le indagini preliminari ai sensi dell’abrogato art. 440, comma 1, cod. proc. pen. (sent. n. 81 del 1991). E poiché, come rilevò la successiva sentenza n. 92 del 1992, era lo stesso pubblico ministero a decidere quali e quante indagini esperire in vista della richiesta di rinvio a giudizio, ne derivò “l’inaccettabile paradosso” per cui il pubblico ministero poteva legittimamente precludere l’instaurazione del giudizio abbreviato allegando lacune probatorie da lui stesso determinate; di qui il suggerimento, “al fine di ricondurre l’istituto a piena sintonia con i principi costituzionali”, di introdurre “un meccanismo di integrazione probatoria” rimesso alle scelte discrezionali del legislatore.
La Corte costituzionale ebbe ancora occasione di ritornare sulla disciplina che precludeva la possibilità di integrazione probatoria, ravvisandovi non solo la violazione del diritto di difesa, ma anche una alterazione dei caratteri propri dell’esercizio della funzione giurisdizionale (si veda, in particolare, sent. n. 318 del 1992, nonché sent. n. 56 del 1993 e sent. n. 442 del 1994).
Stando così le cose e raccogliendo i reiterati inviti “ad evitare che permanga la più volte constatata distonia dell’istituto con i principi costituzionali” (sent. n. 442 del 1994), tra il ventaglio delle soluzioni possibili la legge n. 479 del 1999 ha dunque operato scelte che si propongono di porre rimedio agli aspetti contraddittori della precedente disciplina, in particolare eliminando sia la valutazione di ammissibilità da parte del Giudice (salvo che nell’ipotesi di cui all’art. 438, comma 5, cod. proc. pen. ), sia la necessità del consenso del pubblico ministero. Con riferimento ad entrambe le soluzioni, il legislatore ha evidentemente tenuto presenti, come ha testualmente precisato il Giudice delle leggi, le considerazioni svolte dalla Corte costituzionale circa i profili di incostituzionalità derivanti dall’essere la definibilità allo stato degli atti subordinata alla scelta discrezionale del pubblico ministero di svolgere indagini più o meno approfondite.
Logico corollario di tale impostazione è che l’eliminazione del potere di valutazione del Giudice sull’ammissibilità del rito – ora previsto, a norma dell’art. 438, comma 5, cod. proc. pen. solo se l’integrazione probatoria richiesta dall’imputato risulta necessaria ai fini della decisione e compatibile con le finalità di economia processuale proprie del procedimento – non determina, da un lato, l’irragionevole diversità di trattamento di situazioni processuali sostanzialmente identiche né, dall’altro, determina l’irragionevolezza complessiva del giudizio abbreviato ove il Giudice disponga d’ufficio ex art. 441, comma 5, cod. proc. pen. una integrazione probatoria anche, per avventura, lunga e complessa, con la conseguenza che sarebbe incostituzionale fare discendere l’impossibilità di accedere al giudizio abbreviato da lacune probatorie non addebitabili all’imputato e tuttavia che, in presenza di lacune probatorie, sarebbe per converso incostituzionale precludere al giudice di colmarle una volta che il pubblico ministro sia stato privato del potere di prestare il consenso.
In definitiva, la Corte costituzionale ha perciò chiarito, senza procedere ad alcuna distinzione circa i presupposti idonei a radicare il requisito della necessità per la decisione, come l’integrazione probatoria ex officio del giudice, ove necessaria, escluderebbe i profili di illegittimità costituzionale per la rimozione del consenso del pubblico ministero circa la scelta del rito, assicurando il diritto dell’imputato ad essere giudicato con il rito abbreviato senza tuttavia alcun pregiudizio per le reali esigenze dell’accertamento processuale, esigenze che trovano perciò un equo contemperamento ed un sicuro bilanciamento nel potere integrativo officioso del giudice.
Deve essere pertanto ribadito il principio di diritto per il quale, in tema di giudizio abbreviato, l’integrazione probatorio può essere disposta dal giudice, ai sensi del quinto comma dell’art. 441 cod. proc. pen., in qualsiasi momento della procedura e può riguardare anche la ricostruzione storica del fatto e la sua attribuibilità all’imputato, atteso che gli unici limiti, a cui è soggetto l’esercizio del relativo potere, sono costituiti dalla necessità, ai fini della decisione, degli elementi di prova di cui viene ordinata l’assunzione e dal divieto di esplorare itinerari probatori estranei allo stato degli atti formato dalle parti (Sez. 3, 16/01/2013, n. 12842 cit.).
Pertanto consegue, sotto entrambi i profili, l’inammissibilità del ricorso.
4. Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 136 della Corte costituzionale e rilevato che non sussistono elementi per ritenere che la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, alla relativa declaratoria, segue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma, ritenuta congrua, di Euro mille alla cassa delle ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

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