Sentenze Cassazione

Separazione : niente sconti all’ex marito “spilorcio”

Una sentenza, quella che esamineremo nel prosieguo, che di sicuro non piacerà ai mariti dal braccetto corto. 

Infatti il caso di oggi, trattato dalla prima sezione civile della Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 14349/12, riguarda una normale separazione tra coniugi ma ciò che la rende interessante e diversa dalle altre è il carattere particolarmente “parsimonioso” dell’ex marito che, per innato senso di “tirchieria”, non solo ha provato a tagliare sul mantenimento dovuto alla ex-moglie e ai figli (di cui uno invalido) ma ha provato anche a non pagare le spese processuali, stabilite dal Tribunale di Cassino, con la sentenza n. 200 del 17 marzo 2008.
È proprio vero, la rottura del matrimonio fa emergere il lato peggiore delle parti e questo caso conferma la regola.
Separandosi, l’uomo avrebbe dovuto versarle alla ex compagna un assegno mensile di 700 euro, oltre a lasciarle la casa di famiglia e farsi carico delle spese processuali.
L’accanimento giudiziario pagherà alla fine questo ex marito disposto a tutto per vedersi ridurre le spese stabilite nella separazione?
La sentenza venne ovviamente impugnata ricorrendo in Appello affinché venisse modificata. L’uomo voleva dimostrare alla Corte la totale impossibilità di effettuare i versamenti richiesti, per via di un introito mensile derivante dalla sola pensione di 1.000 euro.
La corte d’appello di Roma, con la sentenza n. 1830/10 del 28 aprile 2010, rigettò le richieste formulate dall’uomo dimostrando innanzitutto la sua possibilità materiale di pagare mensilmente la cifra stabilita, oltre che le spese processuali, a cui si aggiungevano anche quelle relative alla fase d’appello.
La Corte territoriale dimostrò la possibilità di pagare dette cifre osservando che “vanno prese in considerazione le complessive situazioni patrimoniali dei soggetti, comprensive non solo dei redditi in senso stretto, ma anche dei cespiti di cui essi abbiano il diretto godimento e di ogni altra utilità suscettibile di valutazione economica”.
nel orso del procedimento, infatti, era emerso che il ricorrente aveva un piccolo impero economico composto da una villa trifamiliare, vari depositi bancari per 500.000 euro, il ricavato dalla vendita di uno dei tre appartamenti della villa pari a 120.000 euro ed altri redditi provenienti dall’attività lavorativa per un società.
Dall’altro lato , invece, la ex-moglie poteva contare soltanto su una misera pensione di 200 euro mensili con l’unico beneficio di poter godere della casa familiare.
Per nulla intenzionato a corrispondere le cifre stabilite dalla Corte d’appello di Roma l’uomo si rivolge ai giudici di Piazza Cavour, pronto a smontare le motivazioni addotte dai giudici nelle fasi precedenti.
In particolare, il ricorrente rappresentava alla Suprema Corte che i giudici avevano omesso di valutare in maniera completa la situazione patrimoniale dell’ex compagna, specie nella valutazione della casa familiare che, per posizione ed ubicazione, aveva un valore superiore alla villa di sua esclusiva proprietà.
In sostanza il ricorrente, anche tramite ulteriori argomentazioni, voleva dimostrare che la propria situazione patrimoniale risultava molto inferiore rispetto a quanto era stato stabilito dalla Corte d’Appello.
La Cassazione però non si è fatta convincere e, pertanto, ha rigettato le richieste formulate dal giudicando il ricorso inammissibile.
Gli ermellini spiegano che “i motivi d’impugnazione sono assolutamente generici” e che “gli stessi motivi, complessivamente considerati, tendono inammissibilmente a provocare una nuova valutazione delle prove assunte nel giudizio di merito, notoriamente preclusa in sede di legittimità”.
Inoltre, precisano che “il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sé coerente, l’apprezzamento dei fatti e delle prove essendo sottratto al sindacato di legittimità, in quanto nell’ambito di tale sindacato non è attribuito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato dì individuare le fonti del proprio convincimento e, al riguardo, di valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (cfr., ex plurimis e tra le ultime, l’ordinanza n. 7921 del 2011)”.
Per la Corte “ove il convincimento del giudice di merito si sia espresso attraverso una valutazione dei vari elementi probatori acquisiti, considerati nel loro complesso, il ricorso per cassazione deve evidenziare l’inadeguatezza, l’incongruenza e l’illogicità della motivazione, alla stregua degli elementi complessivamente utilizzati dal giudice, e di eventuali altri elementi di cui dimostri la decisività, onde consentire l’apprezzamento dell’incidenza causale del vizio di motivazione sul decisum (cfr., ex plurimis e tra le ultime, la sentenza n. 15156 del 2011)”.
Sempre in sentenza i Giudici osservano che il ricorrente “non censura specificamente le rationes decidendi espresse dai Giudici a quibus, si limita a contrapporre la propria valutazione delle prove documentali ed orali acquisite a quella effettuata dalla Corte romana e denuncia pretese omissioni di pronuncia e/o di motivazione che, invece, sono del tutto insussistenti (come, ad esempio, per ciò che attiene alla comparazione delle situazioni economiche dei coniugi), omettendo del tutto di evidenziare in modo specifico l’inadeguatezza, l’incongruenza e l’illogicità della motivazione alla stregua degli elementi complessivamente utilizzati dai Giudici dell’appello e di eventuali altri elementi “decisivi”, onde consentire l’apprezzamento dell’incidenza causale del vizio di motivazione sull’effettivo decisum”.
Infine, sulla richiesta di compensazione delle spese legali la Cassazione precisa che i giudici di merito “hanno correttamente condannato l’odierno ricorrente alle spese del grado in base al criterio della (totale) soccombenza dello stesso”.
A questo punto sarebbe inutile rispondere alla domanda inserita all’inizio dell’articolo. La risposta é evidente. Relativamente alla situazione appena esaminata, appare proprio il caso di dire oltre al danno la beffa, infatti, dopo una lunga battaglia legale l’ex-marito non solo è stato condannato a pagare il mantenimento alla ex moglie ma a queste spese ha dovuto aggiungere quelle relative ai tre gradi di giudizio.

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