Sentenze Cassazione

SS.UU. sulla prescrizione in sede di legittimità

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Le SS.UU. sulla prescrizione in sede di legittimità 
Corte di Cassazione V Sezione Penale
Ordinanza 24 novembre 2015 – 25 gennaio 2016, n. 3250
Presidente Fumo – Relatore Catena

Con la sentenza in commento, la parola passa alle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione che sono chiamate a rispondere ad un interessante quesito relativo alla possibilità di rilevare in sede di legittimità la maturata prescrizione.

Nel caso di specie, infatti, il ricorso è stato rigettato per genericità ma ciononostante si è disposta la rimessione degli atti alle Sezioni Unite alla luce del contrasto di giurisprudenza manifestatosi in ordine alla questione concernente la possibilità per i Giudici di Piazza Cavour di rilevare la prescrizione nel caso in cui sia maturata precedentemente alla pronuncia della sentenza di secondo grado, ancorché non eccepita né rilevata in sede di appello.

Testo dell’ordinanza

Ritenuto in fatto

Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di Genova confermava la sentenza emessa in data 27/05/2008 dal Tribunale di Massa in composizione monocratica nei confronti di M.D. , condannato a pena di giustizia per il delitto di cui agli artt. 582, 583 n. 2 e 4, c.p. – per aver cagionato lesioni personali gravissime a Mi.Or. , da cui derivava uno sfregio permanente al viso, colpendolo con un pugno e con un bicchiere; in (omissis) .
Con ricorso depositato il 6/11/2014, il difensore del ricorrente, Avv.to Pierpaolo Santini, deduce violazione di legge poiché, a seguito di ordinanza di questa Corte, il Giudice dell’esecuzione aveva disposto la restituzione del termine ad impugnare nei confronti del ricorrente, e tuttavia il giudizio in grado di appello, celebratosi a seguito dell’impugnazione del ricorrente, si è svolto senza che venisse disposta la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, ciò benché con la restituzione nel termine per impugnare si fosse riconosciuto che il ricorrente non aveva partecipato al giudizio di primo grado.

Considerato in diritto

Il ricorso appare inammissibile per genericità, in quanto non si comprende quali sarebbero stati i presupposti fattuali in base ai quali sarebbe stata adottata l’ordinanza di restituzione nel temine nei confronti del ricorrente, né detta ordinanza risulta allegata al ricorso.
Tuttavia il reato ascritto al ricorrente risulta estinto alla data del 9 settembre 2012, essendo decorso il termine massimo di prescrizione, pari ad anni sette mesi sei dalla commissione del reato stesso in data 9 marzo 2005, non risultando periodi di sospensione nel calcolo della prescrizione ex art. 157 c.p., in applicazione della normativa antecedente all’entrata in vigore della legge 251/2008 in quanto in concreto più favorevole all’imputato, atteso il riconoscimento allo stesso, in sede di determinazione della pena, delle circostanze attenuanti generiche con giudizio di equivalenza rispetto alla contestata circostanza aggravante dell’aver cagionato una lesione gravissima.
Il termine di prescrizione, quindi, risulta decorso prima della pronuncia della sentenza di appello e, tuttavia, detta prescrizione non risulta rilevata né dedotta dal giudice di appello né rilevata dal ricorrente con i motivi di ricorso.
Come noto, le Sezioni Unite, con la sentenza n. 23428 del 22/03/2005, Bracale, Rv. 231164, hanno affermato il seguente principio: “L’inammissibilità del ricorso per cassazione (nella specie, per assoluta genericità delle doglianze) preclude ogni possibilità sia di far valere sia di rilevare di ufficio, ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen., l’estinzione del reato per prescrizione, pur maturata in data anteriore alla pronunzia della sentenza di appello, ma non dedotta né rilevata da quel giudice”.
Va sinteticamente ricordato che le Sezioni Unite, nella motivazione della citata pronuncia, avevano esaminato gli arresti della giurisprudenza aventi ad oggetto i rapporti tra inammissibilità dell’impugnazione ed applicazione delle cause di non punibilità, con particolare riferimento alle precedenti pronunce delle Sezioni Unite.
Secondo una prima pronuncia, infatti, l’inammissibilità del ricorso per cassazione stabilita dall’art. 606, comma 3, c.p.p., derivante dalla manifesta infondatezza dei motivi, non impedisce la rilevabilità d’ufficio delle cause di non punibilità previste dall’art. 129 c.p.p.; viceversa la rilevabilità d’ufficio deve ritenersi preclusa dalla inammissibilità del ricorso derivante dall’enunciazione di motivi non consentiti e dalla denuncia di violazioni di legge non dedotte con i motivi di appello (Sezioni Unite, sentenza n. 15 del 30/06/1999, Piepoli, Rv. 213). Tale distinzione, operata nell’ambito della cause di inammissibilità del ricorso previste dall’art. 606, comma 3, c.p.p., è stata superata dalla successiva sentenza n. 32 del 22/11/2000, De Luca, Rv. 217266.
In particolare, quindi, le Sezioni Unite, nel 2005, hanno considerato come le linee ermeneutiche tracciate dalle precedenti decisioni si riflettessero sul rilievo della prescrizione del reato nel frattempo sopravvenuta, con conseguente affermazione del principio di diritto secondo cui il ricorso per Cassazione proposto esclusivamente per far valere la prescrizione maturata dopo la sentenza impugnata e prima della proposizione dell’atto di impugnazione, se privo di qualsiasi doglianza relativa alla sentenza medesima, viola il criterio enunciato nell’art. 581, lett. a), c.p.p., ed esula dai motivi in relazione ai quali può essere proposto il ricorso, a norma dell’art. 606 c.p.p., risultando, pertanto, inammissibile (Sez. un., 27 giugno 2001, Cavalera). Detta pronuncia era stata preceduta dalle Sezioni Unite, 19 gennaio 2000, Tuzzolino che, chiamata a comporre il contrasto giurisprudenziale circa la possibilità di dichiarare estinto il reato per prescrizione quando i motivi di impugnazione non abbiano ad oggetto l’accertata sussistenza del reato, ma riguardino soltanto la pena, nel risolvere positivamente il conflitto interpretativo sul rilievo che il giudicato si forma sul capo e non sul punto della decisione, aveva comunque subordinato l’applicabilità della causa estintiva, in attuazione del precetto di cui all’art. 609 commi 1 e 2, c.p.p., alla mancata formazione del giudicato sui singoli capi della sentenza e, dunque, all’ammissibilità dell’atto di impugnazione. Tanto da evocare un profilo della tematica sul versante sia della deducibilità sia della rilevabilità di ufficio della causa estintiva maturata dopo la sentenza di appello e prima della scadenza del termine per ricorrere in Cassazione in presenza di un ricorso affetto da inammissibilità “originaria”.
Pertanto le Sezioni unite sono pervenute alla conclusione che “l’intervenuta formazione del giudicato sostanziale derivante dalla proposizione di un atto di impugnazione invalido perché contrassegnato da uno dei vizi indicati dalla legge (art. 591, comma, 1, con eccezione della rinuncia ad un valido atto di impugnazione; art. 606, comma 3), precluda ogni possibilità sia di far valere una causa di non punibilità precedentemente maturata sia di rilevarla di ufficio. L’intrinseca incapacità dell’atto invalido di accedere davanti al giudice dell’impugnazione viene a tradursi in una vera e propria absolutio ab instantia, derivante da precise sequenze procedimentali, che siano in grado di assegnare alle cause estintive già maturate una loro effettività sul piano giuridico, divenendo altrimenti fatti storicamente verificatisi ma giuridicamente indifferenti per essersi già formato il giudicato sostanziale”.
Nella stessa scia si sono poste in seguito le sezioni semplici, che hanno ribadito il principio secondo cui l’inammissibilità del ricorso per cassazione preclude la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione, anche se detta causa estintiva sia maturata in data anteriore alla pronunzia della sentenza di appello, ma non sia stata dedotta né rilevata nel giudizio di merito. In particolare in tal senso si sono pronunciate: Sezione I, sentenza n. 24688 del 4/06/2008, Rayyan, Rv. 240594; Sezione III, sentenza n. 42839 dell’8/10/2009, Imperato, Rv. 244999; Sezione VI, sentenza n. 25807 del 14/03/2014, Rizzo ed altro, Rv. 259202; Sezione I, sentenza n. 6693 del 20/01/2014, Cappello, Rv. 259205.
Opposto orientamento è stato però espresso da altre sezioni semplici, a partire da Sezione II, sentenzan. 38704 del 7/07/2009, Ioime, Rv 244809; Sezione V, sentenza n. 47024 dell’I 1/07/2011, Varane; Sezione V, sentenza n. 595 del 16/11/2011, Rimauro; Sezione V, sentenza n. 42950 del 17/09/2012, Rv. 254633.
La sentenza della V sezione da ultimo citata, ha, in particolare, ripercorso i passaggi motivazionali essenziali delle precedenti pronunce, rilevando che proprio le Sezioni Unite con la sentenza Bracale del 2005 “hanno ammesso che esistono ipotesi in cui il giudice, pur in presenza di una impugnazione inammissibile, mantiene intatta la sua cognizione e, conseguentemente, la possibilità/necessità di rendere una pronunzia che non sia meramente enunciativa della predetta inammissibilità. Tale è il caso della morte dell’imputato (art. 150 cod. pen.), dell’abolitio criminis, della dichiarazione di incostituzionalità della norma incriminatrice della quale si dovrebbe fare applicazione. Orbene, è da chiedersi se la ipotesi della prescrizione maturata prima delle conclusione della fase di merito, comportando l’obbligo (nel caso concreto, disatteso) per il giudice procedente di riconoscerla, non possa essere fondatamente assimilata alle tre predette ipotesi in cui risulta travolta la stessa inammissibilità della impugnazione. Al proposito non può farsi a meno di rilevare che la funzione e la stessa ratio dell’istituto della prescrizione militano in tal senso. Col decorso del tempo, viene meno l’interesse dello Stato a esercitare la pretesa punitiva, anche perché si affievolisce, fino a scomparire, la possibilità che la pena svolga la sua funzione (rectius, le sue funzioni); ciò, per altro, non consegue a un apprezzamento in concreto del giudicante, ma trova attuazione grazie a un automatico meccanismo presuntivo, in base al quale, il trascorrere del tempo (di quel tempo, previsto in astratto dalla legge) comporta l’estinzione del reato. Se, dunque, il giudice non può fare a meno di constatare la morte del reo, non si vede come possa fare a meno di riconoscere la “morte del reato”. Per altro, come è stato notato dalla più attenta dottrina, la prescrizione ha anche un suo fondamento costituzionale: essa costituisce una garanzia personale per l’individuo, che non può (non deve) essere esposto, al di là di ragionevoli limiti temporali, al rischio di essere penalmente punito per fatti commessi anni addietro.
Di tanto sembra aver preso atto l’ordinamento, se è vero come è vero, che la prescrizione può esser riconosciuta (e dunque può spiegare la sua efficacia) anche al di fuori della instaurazione di un rapporto processuale in senso stretto. Invero, come è noto, l’art. 411 cod. proc. pen. inibisce l’inizio dell’azione penale in presenza di un reato estinto (anche per prescrizione, naturalmente). Ciò sta certamente a provare che la prescrizione, come evento giuridico conseguente a un evento naturale (il trascorrere del tempo), deve operare per il solo fatto di essersi verificata. Oltretutto, per ritornare al caso in scrutinio (prescrizione maturatasi prima della sentenza di appello), è da dire che appare violativo del principio costituzionale di eguaglianza il fatto che, pur in presenza della medesima situazione di fatto e di diritto, in un caso – quando la parte la eccepisca o il giudice la rilevi – l’imputato si avvalga della estinzione del reato, nell’altro – quando tale fatto sfugga tanto alla parte, quanto al giudice – lo stesso debba andare incontro a una condanna e alla esecuzione di una pena. Si vuoi dire: la disparità di trattamento non apparirebbe minimamente giustificabile perché, in ultima analisi, sarebbe riconducibile a un (grave) error judicis. Tutto ciò premesso, può sostenersi, a giudizio del collegio, che esiste una sostanziale differenza tra la prescrizione maturata prima della sentenza di appello, da un lato, e quella maturata dopo di essa o, addirittura, dopo la proposizione del ricorso per cassazione, dall’altro. La prima è oggettivamente venuta ad esistenza prima della conclusione della fase di merito e il giudicante avrebbe dovuto rilevarla. Proprio in virtù dell’automatismo presuntivo del meccanismo previsto dal legislatore, al giudice (di merito) altro non si chiedeva che un mero atto di ricognizione, atto che non ha – colpevolmente – compiuto. Negli altri due casi, conclusosi il giudizio di merito, il successivo spirare del tempo necessario per determinare (in astratto) la prescrizione del reato può non aver rilievo, se l’imputato non è in grado di sottoporre al giudice di legittimità una impugnazione che sia tale da mantenere in vita il rapporto processuale. In tal caso, l’atto di ricognizione riguarda, appunto, la “morte” di tale rapporto (e dunque la inoperatività della prescrizione), non la “morte” del reato (per prescrizione), che, per quel che si è detto, essendo sopraggiunta dopo la fase di merito, non può aver rilievo (Cass., Sez. 5, n. 47024 del 11/07/2011, Varane: v. anche Sez. 5, n. 595 del 16/11/2011, Rimauro). Nel caso oggi in esame, a differenza di quelli appena ricordati, la prescrizione non risulta essere stata affatto invocata dall’imputato o dal suo difensore, né in sede di appello né nell’ambito dei motivi di ricorso: si pone pertanto un problema di rilevabilità ex officio della causa di estinzione in argomento, che tuttavia la Corte ritiene di risolvere positivamente. È infatti evidente che la già ricordata disparità di trattamento – con implicazioni in punto di violazione di principi costituzionali – può riguardare non soltanto l’imputato attento e scrupoloso nella propria difesa, che abbia eccepito l’intervenuta prescrizione, ma anche il soggetto inerte: ben può darsi che di fronte a due imputati (e rispettivi difensori) non avvedutisi di una causa estintiva già maturata, in casi identici, un giudice di appello rilevi d’ufficio l’estinzione del reato, ed un altro no. A quel punto, pur prescindendo dall’ammissibilità dei motivi di ricorso del secondo imputato, laddove quei motivi – in ipotesi – continuino ad ignorare il problema della prescrizione, una volta investita la Corte di Cassazione non si vede perché dovrebbe essere preclusa la possibilità di porre rimedio all’errore del giudice di merito”.
Nel solco di dette pronunce si sono poi poste la Sezione III, con la sentenza n. 46949 del 22/05/2013, P.M. Izzo, Rv. 257868; ancora la Sezione, terza con la sentenza n. 14438 del 30/01/2014, Pinto, Rv. 259135 – che ha rilevato come “il giudice di legittimità può rilevare d’ufficio la prescrizione del reato maturata prima della pronunzia della sentenza impugnata e non rilevata dal giudice d’appello, pur se non dedotta in quella sede, e nonostante l’inammissibilità del ricorso per cassazione, ma solo se, a tal fine, non occorra alcuna attività di apprezzamento delle prove finalizzata all’individuazione di un dies a quo diverso da quello indicato nell’imputazione contestata e ritenuto nella sentenza di primo grado”. Anche in detta motivazione si è affermato che “si ritiene, tuttavia, di condividere l’orientamento ormai maggioritario – teso a superare un ormai risalente dictum delle Sezioni unite (Sez. U. n. 23428 del 22.3.2005, Bracale, rv. 231164) – più favorevole all’imputato, per il quale il giudice di legittimità può rilevare d’ufficio la prescrizione del reato maturata prima della pronunzia della sentenza impugnata e non rilevata dal giudice d’appello, pur se non dedotta con il ricorso e nonostante i motivi dello stesso vengano ritenuti inammissibili (sez. V, n. 42950 del 17.9.2012, Xhini, rv. 254633; conf. sez. IV, n. 49817 del 6.11.2012, Cursio ed altri, rv. 254092; sez. II, n. 38704 del 7.7.2009, Ioime, rv. 244809).
Analogo principio è stato poi ribadito sempre dalla Sezione III, con la sentenza n. 15112 del 21/03/2014, Bombara, Rv. 259185; dalla Sezione IV, con la sentenza n. 51766 del 26/11/2014, Rv. 261580; dalla Sezione III, con la sentenza n. 2001 del 30/10/2014, Rv. 262014; dalla Sezione II, con la sentenza n. 4986 del 21/10/2015, Rv. 262322; dalla Sezione IV, con la sentenza n. 27019 del 16/06/2015, Rv. 263879; dalla Sezione V, con la sentenza n. 10409 del 15/10/2015, Rv. 263889, la quale ha affermato che “La prescrizione maturata precedentemente alla sentenza di secondo grado, ancorché non eccepita né rilevata in sede di appello, è rilevabile in sede di legittimità, considerato che la mancata declaratoria della causa estintiva del reato in virtù dell’omissione di un mero atto di ricognizione da parte del giudice di appello determinerebbe, ove ne fosse preclusa l’azionabilità in sede di legittimità, l’assoggettamento dell’imputato alla condanna ed alla correlativa esecuzione della pena mentre, in presenza della medesima situazione di fatto e di diritto, la declaratoria di estinzione del reato da parte del giudice di merito, consentirebbe all’imputato di avvalersi della prescrizione, così determinandosi una disparità di trattamento lesiva del principio di uguaglianza”.
Va specificato che detta elencazione non ha la pretesa di essere esaustiva, in quanto essa indica solo alcune delle numerosissime sentenze delle sezioni semplici che sembrano aderire, in maggioranza, all’orientamento opposto a quello della sentenza a Sezioni Unite del 2005, Bracale, facendo leva, essenzialmente, sulla disparità di trattamento che si verificherebbe ove fosse preclusa la rilevabilità, in sede di legittimità, della prescrizione maturata prima della sentenza di secondo grado, ciò in violazione del principio di uguaglianza, considerato che la mancata declaratoria sarebbe derivata unicamente dall’omissione di un mero atto di ricognizione da parte del giudice.
Considerato pertanto che la questione concernente la possibilità di rilevare in sede di legittimità la prescrizione maturata precedentemente alla pronuncia della sentenza di secondo grado, ancorché non eccepita né rilevata in sede di appello, soprattutto allorché ciò non richieda alcuna attività di apprezzamento delle prove, ha dato luogo ad indirizzi giurisprudenziali contrastanti, e considerata altresì il coinvolgimento del principio di uguaglianza richiamato in molte delle pronunce in precedenza citate, appare doveroso, ai sensi dell’art. 618 c.p.p., la rimessione della detta questione alle Sezioni Unite.

P.Q.M.

Dispone la rimessione degli atti alle Sezioni Unite alla luce del contrasto di giurisprudenza manifestatosi in ordine alla questione concernente la possibilità di rilevare in sede di legittimità la prescrizione maturata precedentemente alla pronuncia della sentenza di secondo grado, ancorché non eccepita né rilevata in sede di appello.

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