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Senza organigramma aziendale viene meno il licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

La Corte di Cassazione, in materia di licenziamento per giustificato motivo, con la sentenza n. 7989 del 21 maggio 2012, ha rigettato il ricorso di una società proposto avverso la sentenza d’Appello che annullava il licenziamento per giustificato motivo oggettivo nei confronti di un lavoratore.
Per i giudici d’Appello, la Società doveva esporre concretamente i motivi oggettivi del licenziamento al punto di poter rappresentare al giudicante l’effettiva impossibilità di mantenere il lavoratore licenziato nell’organizzazione aziendale.
Avrebbe dovuto quindi depositare tutti quegli atti e documenti utili al fine di poter stabilire l’organizzazione dell’azienda ma anche il ruolo nella stessa del lavoratore.
Per la corte, la mancanza di uno specifico organigramma produttivo preclude qualsiasi indagine volta verificare la presenza di posti di lavoro in azienda “occupabili” all’epoca dei fatti da parte del lavoratore licenziato.
La decisione della Corte d’Appello è stata pienamente condivisa dai Giudici di Piazza Cavour, soprattutto nella parte relativa al mancato adempimento da parte della società dell’onere della prova per dimostrare l’impossibilità di ricollocare il lavoratore in un altro settore stessa dell’azienda, che dopo il licenziamento appena descritto ha assunto un’ altra dipendente per fare le medesime funzioni precedentemente svolte dal lavoratore licenziato.
Pertanto, la Corte precisa che “in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo determinato da ragioni tecniche, organizzative e produttive, compete al giudice – che non può sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’impresa, espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 Cost. – il controllo in ordine all’effettiva sussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro, in ordine al quale il datore di lavoro ha l’onere di provare, anche mediante elementi presuntivi ed indiziari, l’impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte; tale prova, tuttavia, non deve essere intesa in modo rigido, dovendosi esigere dallo stesso lavoratore che impugni il licenziamento una collaborazione nell’accertamento di un possibile “repechage”, mediante l’allegazione dell’esistenza di altri posti di lavoro nei quali egli poteva essere utilmente ricollocato, e conseguendo a tale allegazione l’onere del datore di lavoro di provare la non utilizzabilità nei posti predetti”.
La Corte ha ritenuto giusto la reintegrazione del lavoratore applicando la tutela di cui all’art. 18 della legge 300 del 1970, anche se la citata società è stata messa in liquidazione in quanto tale situaizone comunque non comporta né disgregazione del patrimonio aziendale né la cessazione dell’attività almeno fin quando non risulti avvenuta la cessazione definitiva dell’attività sociale e l’azzeramento effettivo dell’organico del personale.

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