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Sentenza – Stalking, scuola, insegnante, allievo

Sentenza – Stalking, scuola, insegnante, allievo
Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 2 ottobre 2013 – 21 febbraio 2014, n. 8393
Presidente Oldi – Relatore Fumo

Ritenuto in fatto

1. Con la sentenza di cui in epigrafe, la corte di appello di Napoli, in parziale riforma della pronunzia di primo grado, ha dichiarato ndp a carico di C.P., in ordine al reato ex art. 660 cp perché estinto per prescrizione; ha confermato l’affermazione di responsabilità con riferimento al delitto ex art. 610 cp in danno di E.T. (così modificata, già in primo grado, la originaria imputazione ex art. 609 bis cp).
2. La E. è un’insegnante in servizio presso un istituto scolastico di S. Giorgio a Cremano. C. fu suo allievo.
Secondo quanto si legge in sentenza: a) il C. aveva iniziato a fare una “corte serrata” alla E. (che sempre aveva rifiutato le sue profferte), anche seguendola per strada, inviandole sms ecc, b) le attenzioni del C. avevano assunto il tono della persecuzione e lo stesso era anche giunto a insultare e minacciare la donna, oltre al marito della stessa (G.A.), c) il 30.11.2005, in S. Giorgio a Cremano, C., aveva parcheggiato la sua auto dietro quella della E. nei pressi dell’istituto scolastico nel quale ella prestava servizio. Nel momento in cui la donna, uscita da scuola, aveva tentato di entrare nella sua vettura, il C. le si era avvicinato, si era messo davanti all’auto della docente, la aveva presa per un braccio e, non intenzionalmente, le aveva sfiorato i seni e le natiche. C. era quindi stato tratto in arresto da una pattuglia di carabinieri di passaggio in zona, la cui attenzione era stata attirata dalla E.
3. Ricorre per cassazione il difensore e deduce:
3.1. a) carenze dell’apparato motivazionale per avere il giudice di secondo grado fatto ricorso alla motivazione per relationem pur in presenza di specifiche censure presentate con l’atto d’appello. Ne è sortita una motivazione apparente, tautologica e gravemente travisante. Secondo il giudice di appello, le censure formulate contro la decisione impugnata, sostanzialmente non contenevano elementi e argomenti diversi da quelli già esaminati e disattesi dal primo giudice. Così non è, in quanto si era rappresentato con l’atto d’appello che le dichiarazioni della E., persona offesa costituita parte civile, non hanno affatto trovato riscontro in quelle del carabiniere, P., componente della pattuglia che intervenne sul posto. In realtà, tra le due versioni dei fatti (E. e P.) sussistono corpose contraddizioni; esse attengono all’intervallo temporale intercorrente tra la pretesa violenza del C. e il momento in cui i carabinieri furono avvistati dalla donna, alla posizione (in piedi o seduta) della E. nel momento in cui ella si agitava per richiamare l’attenzione dei militari, al luogo in cui E. si trovava allorquando sopraggiunse la pattuglia (per strada, in macchina, sul lato destro o sinistro della carreggiata), alla posizione della vettura dei carabinieri rispetto la vettura della donna e del C., al momento in cui intervenne il colloquio con i carabinieri (se prima o dopo il colloquio con C.).
Tali contraddizioni non sono state mai prese in considerazione dal giudice di primo grado e conseguentemente dal giudice di appello, il quale si è “appiattito” sulla motivazione della prima sentenza. Ne è scaturito un travisamento della prova per omissione di fatti decisivi, considerando che – oltretutto – non è consentita la valutazione frazionata delle dichiarazioni della persona offesa, quando tali dichiarazioni si riferiscano a un episodio che ha avuto svolgimento in unità temporale e spaziale. Erroneamente poi è stato sostenuto che la E. non avesse motivi di rancore nei confronti dell’imputato.
E’ pur vero che le dichiarazioni della persona offesa, che si è costituita parte civile, possono da sole essere poste a base del convincimento del giudice, ma è altrettanto vero – e su questo la giurisprudenza di legittimità è uniforme – che tali dichiarazioni vanno attentamente vagliate e che, se altre fonti di prova esistono, esse devono essere strettamente congruenti con il contenuto delle predette dichiarazioni;
3.2. b) motivazione apparente, travisante per omissione e contraddittoria con le risultanze processuali. Come anticipato, erroneamente i giudici di merito hanno sostenuto che non esistevano motivi di astio della E. nei confronti del C. Ciò hanno potuto affermare in quanto hanno del tutto trascurato le dichiarazioni dell’imputato e, principalmente, la documentazione dallo stesso depositata nel corso della udienza di primo grado. C. ebbe a sostenere che la E., in qualche occasione, aveva ceduto alla sua corte e lo aveva baciato. Lo stesso ha anche sostenuto e provato documentalmente la pendenza di procedimenti giudiziari a carico del marito della donna e del padre della stessa. In effetti, l’auto del C. fu danneggiata con un calcio dal G. e perciò lo stesso fu citato in giudizio. E.V. poi (padre di T.) fu denunciato da C. per una aggressione da quest’ultimo subita in data 16 febbraio 2004. Lo stesso G. ebbe ad ammettere tali circostanze. Ebbene, la completa preterizione di tali obiettivi dati di fatto non può che tradursi in un evidente travisamento della prova, perché è stata ignorata, non solo l’intera dichiarazione dell’imputato, ma anche la documentazione (più che significativa) depositata a comprova delle affermazioni rese dal ricorrente.

Considerato in diritto

1. La prima censura è inammissibile in quanto rappresenta niente altro che la riproposizione di argomentazioni già spese in primo e secondo grado e motivatamente respinte dai due giudici di merito.
1.1. Non corrisponde infatti al vero che il giudice di appello non abbia tenuto conto delle censure formulate con l’atto di impugnazione (cfr. fol. 4 ultimo cpv e fol. 6 della sentenza). Semplicemente, pur prendendo atto delle osservazioni contenute nell’atto di appello, la corte napoletana ha ritenuto -non certo illogicamente – che la non perfetta coincidenza tra le dichiarazioni di E.T. e del carabiniere P. non attenevano al nucleo essenziale della ricostruzione del fatto. D’altra parte, posto che certamente i militari intervennero perché chiamati dalla donna, non si vede che importanza abbia stabilire se, al momento dell’intervento la E. si trovasse a destra o a sinistra della carreggiata, seduta in auto, oppure in piedi. Fatto sta che ella chiamò in soccorso i carabinieri, che costoro intervennero e che la E. raccontò loro quanto era (immediatamente prima) accaduto.
1.2. Ciò che il ricorrente omette di riferire (ma che è bene evidenziato nelle sentenze di merito) è che i militari potettero prendere visione del testo degli sms che il C. aveva inviato alla E. e al marito della stessa (G.). In ordine al contenuto di tali messaggi l’imputato all’udienza del 21.2.2008 non intese rendere chiarimenti.
1.3. Non è dunque esatto che le dichiarazioni della PO siano rimaste l’unico, isolato elemento a carico dell’imputato.
2. La seconda censura è, in parte, inammissibile (precisamente nella parte in cui si deducono circostanze mai dedotte prima, a proposito di rapporti, pretesamente non buoni con il padre e il marito della E.), in parte, infondata, vale a dire nella parte in cui fa riferimento alla documentazione che l’imputato ha prodotto nel corso della udienza di primo grado. Si tratta di fotocopie di lettere che il C. avrebbe scritto alla E. È ovvio che tali documenti nulla provano (oltre al fatto che l’imputato li abbia confezionati e conservati), dal momento che il ricorrente non è stato in grado di produrre una sola lettera di pugno della E. Le “attenzioni” dell’imputato nei confronti della sua insegnante, dunque, hanno trovato base documentale, anche per iniziativa dello stesso C., che, pertanto, paradossalmente, finisce per aggravare la sua posizione, pretendendo, col fare riferimento al testo della corrispondenza (conservata in fotocopia), di dimostrare che la E. aveva, in un primo tempo, corrisposto ai suoi sentimenti e, quindi, aveva mutato disposizione d’animo, finendo per nutrire rancore nei suoi confronti. Per come premesso, dalle predette fotocopie emerge, a tutto voler concedere, che C. aveva importunato la E. anche per via epistolare.
3. Conclusivamente il ricorso merita rigetto e il ricorrente va condannato alle spese del grado.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento

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